Un’estate a Parigi

Se si provasse a porsi in una maniera differente dinanzi agli eventi, il quotidiano e le sue certezze potrebbero risultare totalmente scardinati.

Dietro alla pesante scrivania in lucido mogano, alle spalle del medico, c’era un grande acquario nel quale creature colorate si spostavano senza sosta veloci e leggiadre tra piccoli massi porosi ed alghe fluttuanti, indifferenti alla sentenza di morte che Giuliano Mari recepì a fatica, come se anche il dottor Rossetti si trovasse nella vasca dei pesci e le sue parole gli giungessero quindi trattenute e deformate dall’acqua.

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“…inoperabile, perché troppo esteso e ramificato. Deve ricoverarsi immediatamente per gli opportuni approfondimenti e per iniziare le cure adeguate”.

“Aspetti: quanto mi resta?”

ed anche la sua voce proveniva da lontano, tanto che stentò egli stesso a riconoscerla.

“…se iniziamo subito con le chemio, diciamo…sei, sette mesi”.

Giuliano pensava al se stesso che pochi minuti prima era entrato nello studio del medico al quale si era rivolto per quel fastidioso mal di stomaco che lo tormentava da qualche mese, certo di sentirsi liquidare con la solita predica sullo stress e sul suo stile di vita affannoso. A quarant’anni anni era litografo responsabile del reparto offset di una stamperia specializzata nella realizzazione di pubblicazioni d’arte e tutti i giorni  da Via Vincenzo Monti, dove abitava, prendeva il tram fino in piazzale Cadorna e poi l’autobus fino a Cinisello, dove aveva sede l’azienda. Un buon lavoro, di responsabilità ma pagato bene, anche se doveva fare un sacco di straordinari.

Ragazzone prestante dotato di un certo fascino grezzo, era un fanatico della forma fisica e appena poteva si precipitava in palestra o a correre in qualche parco cittadino, oppure inforcava la bicicletta da corsa e si spostava in Brianza. Mai fumato, mai bevuto, attento al peso, alimentazione sana.

Si alzò di scatto dalla sedia e mormorò alla faccia professionalmente esterrefatta del medico una cosa qualunque, forse

“…ci devo pensare, le farò sapere”,

comunque qualcosa di totalmente inadeguato alla circostanza.

Uscì su via Francesco Sforza e si accorse che fuori era ancora primavera, dopotutto, e i vicini Giardini della Guastalla, nei quali si infilò senza una ragione precisa, erano colorati e opulenti, perché come tutti gli anni dopo il letargo invernale la vita ribolliva prepotente. Camminò a lungo, finché la perfetta simmetria dello stile da giardino all’italiana dell’antico parco pubblico milanese, la placida imponenza della peschiera barocca  e la sobria bellezza del tempietto neoclassico del Cagnola calmarono un poco il tumulto che aveva nell’animo. Sedette su una panchina al riparo di un grande tiglio, che nel giro di un mese sarebbe fiorito e nelle ore più fresche della giornata avrebbe saturato l’aria con il suo profumo denso e dolce.

Tra un mese sarebbe incominciata la sua ultima estate.

Il vecchio sulla panchina accanto più che seduto appariva accartocciato e guardava davanti a sé con gli occhi opachi e vacui di chi ha non ha più desideri né curiosità. Ma quello, almeno, aveva avuto il tempo di tutta una vita per prepararsi all’inevitabile dipartita, non era stato preso alla sprovvista e con largo anticipo: insomma, lui pur senza pensarci compiutamente si era convinto che sarebbe invecchiato accanto e insieme a Carla, la sua compagna, o senza Carla, magari ad un certo punto si sarebbe comprato un cane visto che non poteva contare sulla compagnia dei figli che non aveva, ma in ogni caso sarebbe invecchiato.

Invece ora doveva rivedere i suoi piani, come quando certe domeniche mattine d’estate caricava la bici in macchina all’alba e partiva da Viale Monza con gli amici per salire fino a Colle Brianza e a metà strada un improvviso temporale li costringeva a tornare indietro. Solo che ora non avrebbe potuto tornare indietro.

Pensò al consiglio del medico, ricoverarsi subito e incominciare con le chemio: così avrebbe incominciato a morire subito, un po’ per giorno e abbastanza in fretta, ne aveva visti altri, purtroppo. La seconda opzione era aggrapparsi alla sua solita vita quotidiana, fatta di lavoro – Carla – madre (il padre se ne era andato che lui era bambino) – bici – corsa al parco più qualche cinema e ogni tanto cena con gli amici, e far finta di niente, finché fosse stato possibile.

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E ad un tratto i suoi giorni gli apparvero scialbi, e dovette ammettere una volta per tutte che per indolenza si era sempre accontentato. Da ragazzo aveva scelto il classico perché gli era parso il più facile, ma poi non sapeva che fare con quel diploma e non se l’era sentita di proseguire gli studi, così aveva incominciato come apprendista litografo nell’azienda dove lavorava tuttora. Non era proprio quello che aveva sognato (perché sognava, sognava moltissimo) ma dopo qualche anno aveva incominciato a guadagnare bene e così non aveva avuto voglia di tentare altre strade. Dopo una serie di storie così e così, aveva incontrato Carla, brava ragazza benestante e molto volitiva che piaceva tanto a sua madre e che aveva a poco a poco imposto la sua comoda, rassicurante presenza. I sentimenti che provava per lei non erano propriamente profondi, tanto che non era sempre stato fedele, ma quando avevano incominciato a frequentarsi aveva già trentaquattro anni, era stufo di vivere con la mamma, tanto amorevole ma anche leggermente ingerente  ed incominciava ad avere il sospetto che non avrebbe mai incontrato il grande amore, perché forse non era destino e basta. Così un bel giorno si era trasferito a casa sua e per questioni di ordine pratico e per pigrizia anche le sue scappatelle si erano diradate.

Ora ripensò a tutti i viaggi che avrebbe voluto fare ma costavano molto e non c’era abbastanza tempo, all’Aston Martin usata che non aveva mai comprato perché era solo un capriccio, al cappotto di cachemire che aveva indossato pochissimo per non sciuparlo, a quella ragazza alla quale non aveva più telefonato, alla gente che aveva ascoltato distrattamente, al tempo che gli era scivolato addosso senza lasciare ricordi, in una lunga serie di giornate tutte uguali, che era peggio di qualsiasi rimpianto. E ora che sapeva di avere una scadenza, come una qualsiasi merce deteriorabile, prese a considerare le cose da una diversa prospettiva.

Mentre il vecchio sulla panchina accanto riportava faticosamente in posizione più o meno eretta la sua persona strapazzata dagli anni e gli rivolgeva un saluto amichevole, come se avessero amabilmente conversato fino a quel momento, decise cosa avrebbe fatto del tempo che gli rimaneva. Non era nemmeno mai stato a Parigi: avrebbe incominciato da lì.

“Carla, non ho nessuna intenzione di martirizzarmi per qualche mese in più da infermo, morirò a modo mio. E tanto per essere chiari, non ti avrei mai sposata, perché ti voglio un gran bene ma l’amore è un’altra cosa, e in fondo ho sempre sperato che un giorno o l’altro avrei potuto incontrarlo. Quindi me ne vado, e finisce qui, oggi”.

Gli dispiaceva parlarle in quel modo, ma quando nei suoi occhi lesse la compassione e la benevola comprensione di chi pensa che uno che ha appena saputo che ha i giorni contati come un formaggino non è tanto lucido e non sa quello che dice, perciò bisogna lasciarlo dire e non prenderlo sul serio, provò una profonda irritazione che annullò qualsiasi senso di colpa.

Con sua madre andò più o meno allo stesso modo e alla fine, esasperato da tanta razionale indulgenza, disse:

“Ah, un’ultima cosa: non voglio che un signore in abito lungo dica scemenze davanti alla mia bara né che mi mangino i vermi. Quindi, funerale laico e poi una bella fiammata”.

Andò molto meglio con il vecchio Commendator Pizzi, il proprietario della stamperia: un padrone illuminato che conosceva i suoi dipendenti uno per uno e che pensava che se vuoi la loro dedizione, devi pagarli adeguatamente e trattarli bene. Si commosse e lo abbracciò senza dire nulla, pregandolo solo di non esitare a rivolgersi a lui per qualsiasi cosa. Giuliano diede le dimissioni, nel giro di pochi giorni gli furono accreditate tutte le sue competenze e il Commendator Pizzi gli fece avere un generoso assegno personale a titolo di ringraziamento per gli anni di preziosa collaborazione: e toccò a Giuliano commuoversi, per una stima e per un affetto ben superiori alle sue aspettative.

Gli ultimi giorni a casa di Carla furono pesanti ed il commiato da sua madre fu penoso, ma finalmente arrivò il giorno della partenza.

Parigi a metà maggio era esattamente come se l’era immaginata, profumata, viva e fascinosa. Aveva prenotato una junior suite in un grande albergo d’epoca vicino alla Gare de Saint Lazare, non era più il caso di risparmiare. Rispolverò il suo francese scolastico e, guida alla mano, per qualche giorno fece il turista diligente e curioso, poi cercò di entrare nello spirito parigino girando per le strade, passeggiando lungo la Senna, osservando gli impiegati che nella pausa pranzo mangiavano un panino e leggevano seduti su una panchina nel Jardin des Tuileries.

Gli parve di riuscire a prendere le distanze da se stesso e dalla sua storia – era come se stesse vivendo la vita di un altro da un’altra parte, in un certo senso.

Quel parco era talmente bello e lui si sentiva così bene, nonostante tutto, che un giorno invece di pranzare decise di andare a correre proprio lì. Andava come un treno, regolava la respirazione e teneva un buon ritmo, ma all’improvviso un dolore alla milza lo costrinse a fermarsi e ad accasciarsi sulla prima panchina, soffiando come un mantice, mentre il sudore gli colava negli occhi appannandogli la vista. Si diede mentalmente del cretino, perché per quanto in forma a quarant’anni, dopo un mese di inattività e con un cancro forse non si dovrebbe correre così.

Non aveva minimamente fatto caso alla donna che sedeva all’altra estremità della panca e che ora lo guardava incuriosita scostandosi i lunghi capelli ramati da un viso pieno di lentiggini.

“…si sente bene?”

“…tutto ok, grazie. Sono solo un po’ fuori allenamento. Ma come ha capito che sono italiano?”,

disse Giuliano, accorgendosi che la donna aveva un occhio verde e l’altro azzurro, e molte rughe sottili intorno ad entrambi. Lei sorrise e a lui sembrò che il sole fosse uscito dalla nuvola che lo aveva offuscato.

“Non credo che siano molti i parigini che posseggono una maglietta con il logo “Milano Fitness piazzale Cadorna”.

Si sentì definitivamente cretino, ma non gliene importava nulla.

Si presentarono e Giuliano invitò Margherita a cena:

“te lo devo: se fossi stato in pericolo, avresti potuto salvarmi la vita, in fondo”,

e lei sorrise ancora, non potendo cogliere appieno il significato di quella frase:

“perché no?”.

Cenarono in un bistrot tra Bastille e la Gare de Lyon consigliato dalla sorella di lei, che aveva sposato un parigino e si era trasferita da Milano dieci anni prima. Nel corso della cena scoprirono che abitavano a poche centinaia di metri e risero del fatto che avevano dovuto andare a Parigi per incontrarsi. La donna gli raccontò che la ditta presso la quale era impiegata e che arrancava ormai da troppo tempo aveva infine chiuso e lei a quarant’anni si era ritrovata sola, poiché l’anno prima si era separata, e senza lavoro, in un momento in cui i segnali di ripresa li vedevano solo certi inguaribili ottimisti. Così aveva deciso di raggiungere la sorella a Parigi, perché suo cognato aveva una ditta di autotrasporti che andava bene e aveva aperto un ufficio amministrativo in centro, dove avrebbe incominciato a lavorare in luglio.

“Intanto, ho lasciato l’appartamento dove ero in affitto e sto da mia sorella, ma sto cercando una sistemazione, naturalmente. Parigi è ospitale e meravigliosa,  ma qui mi sono davvero  resa conto di essere milanese, capisci? E sarà sempre così”.

Capiva, eccome: guardava il suo viso mobile e le mani che agitava spesso con grazia vivace ed era come se la conoscesse da sempre. Moriva dalla voglia di dirle la verità, ma in quel momento non ci credeva nemmeno lui o forse non voleva crederci, Milano era lontana e tutta la sua vita di prima era remota, e così tacque. Le confidò che anche lui si era separato da poco, che aveva una montagna di ferie arretrate e dato che gli avevano diagnosticato una sindrome da stress si era preso tre mesi di vacanza.

Dopo quella sera si incontrarono tutti i giorni e girarono in lungo e in largo per la città, mescolandosi alla folla e fermandosi ad ascoltare ognuno dei molti musicisti di strada che incontravano. Erano davanti al Sacré Coeur, un tardo pomeriggio di giugno, faceva caldo e la luce ammorbidita del sole calante avvolgeva Montmartre e la moltitudine che la popolava. A metà della scalinata un ragazzo giovane e biondo suonava una chitarra collegata ad un enorme amplificatore, e cantava:

“Hey Jude, don’t make it bad, take a sad song and make it better, remember to let her into your heart, then you can start to make it better…”,

e le loro mani si trovarono e si strinsero, e quello fu l’inizio.

“Io non so se sono pronta per una storia, Giuliano: forse, alla fine della tua vacanza di te non vorrò sapere più nulla”.

(Un’altra scadenza).

“Va bene”,

assentì lui, che si ricordò che quella cosa perfetta che stavano vivendo sarebbe finita davvero e comunque.

Margherita aveva incominciato a lavorare e aveva trovato un piccolo appartamento in un vecchio stabile sulla Rive Gauche di proprietà di un’eccentrica e decrepita ex modella, ex pittrice, ex un sacco di altre cose che chissà perché l’aveva presa in simpatia e le aveva proposto un affitto che non era una rapina. Lui l’aveva aiutata ad imbiancarlo e a trasportarvi le sue cose e aveva finito col trasferirsi lì.

I giorni passavano veloci e facili e lui malediceva il destino beffardo che gli aveva consegnato il grande amore troppo tardi. Intanto, gli era persino passato il mal di stomaco, e ad ogni risveglio cercava invano, da qualche parte nel suo corpo, le avvisaglie del male che avanzava.

Era una mattina afosa di agosto, Margherita era appena uscita e lui, in mutande davanti alla grande porta finestra del tinello, sorbiva un caffè osservando il piccolo battello che solcava le acque placide della Senna, quando il telefono  posato sul tavolo della cucina prese a vibrare. Invece di rispondere, guardò l’orologio:

“Le otto e mezza. Mia madre che piange o Carla che si ostina a non capire. No, grazie. Non a quest’ora”.

Finì di fare colazione, rifece il letto, si preparò per uscire. Era già sull’uscio quando prese il cellulare e lesse sul display “Rossetti Sergio, Dr”. Lo pervase una sensazione di sgomento, sottile ma paralizzante.

“…sì, sono Giuliano Mari, ho visto ora la sua chiamata…”

“…signor Mari, eccola…io mi scuso infinitamente, ma ci siamo accorti solo ieri che per un errore del laboratorio l’esito degli esami che ci hanno consegnato non era il suo…insomma, signor Mari: lei ha solo una banalissima ulcera gastrica. Passi da me quando può per la prescrizione del caso e…mi scusi ancora, il responsabile del laboratorio è già stato rimosso dall’incarico”.

Vertigini, fauci secche, gambe molli. Dovette sedersi per terra.

“Ecco, adesso che mi hanno appena restituito la mia vecchiaia finisce che ci resto secco per l’emozione”.

Poi passò. Allora considerò che in due mesi a Parigi aveva speso una fortuna e che non aveva più un lavoro: però aveva tempo. Doveva chiamare subito sua madre, e poi trovare le parole per convincere Margherita che sarebbe stato per sempre, perché tutto quel tempo ormai apparteneva anche a lei.

 

 

 

 

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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