911 – Chiamata di emergenza

Questa è la storia di un canuto detective che ha restituito pistola e distintivo per il quiescente piacere del barbecue in famiglia.

Tutto cominciò a New York, la mia cittá. Ci fu un periodo che fare il poliziotto aveva un certo richiamo sulle ragazze, e a me che le donne facevano e fanno impazzire, sembrò naturale arruolarmi. A Little Italy dove sono nato, sfoggiai la mia divisa da blue angel passeggiando per le vie del quartiere; le ragazze si affacciavano alla finestra, chiassose e lusinghiere. Gina mi rivolse un sorriso ammiccante; la sera stessa facemmo l’amore nel retrobottega del cugino barbiere tra scatole di brillantina ed asciugamani profumati.

Il primo incarico importante nel distretto del Bronx. Mi assegnarono una collega di pattuglia, Gloria. Era simpatica, aveva un carattere allegro e nervi d’acciaio, nel quartiere i bambini l’adoravano nonostante avesse arrestato i loro genitori; quando eravamo in giro a perlustrare, le spruzzavano acqua dagli idranti o la sbeffeggiavano solo per farsi rincorrere e placcare come nel rugby.

© Leonard Freed, A policewoman plays with local kids in Harlem, 1978

Di giorno il lavoro era difficile, la notte un vero incubo: iniziava sempre con una telefonata al 911: Uomo, di colore, trent’anni circa, sospetta overdose, è un’emergenza, mandate un’ambulanza

© Michael Penn
Philadelphia 471 by Michael Penn ©

L’uomo giaceva supino sul pianerottolo, la maglietta alzata, il braccio scoperto, i segni inequivocabili di una iniezione di eroina. Circoscrivemmo l’edificio per i rilievi della scientifica. Stavo esaminando la scena del crimine quando Gloria sussurrò:

Dannazione! E’ Luther

Luther il pusher più bastardo della zona, un criminale senza scrupoli che aveva sulla coscienza tante giovani vite. Ci guardammo di scatto: omicidio.  Era ufficialmente scoppiata la guerra tra bande.

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© Leonard Freed, NYC 1972. Death from overdose in Harlem

Il coroner confermò la nostra intuizione, si trattava infatti di un assassinio. I sospetti si concentrarono dapprima su Cyrus, un potente trafficante di stupefacenti, in seguito su Michelle, una sua ex che gestiva un malfamato coffee shop nella 125esima strada.

Cominciammo i pedinamenti e lunghi appostamenti in auto mentre ci ingozzavamo di confessioni inconfessabili, ciambelle alla crema e caffè bollente.

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© Robert Frank, Coffee shop

Non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da Michelle. Aveva qualcosa di magnetico ed inafferrabile: era dolce, sensuale, misteriosa. Quando andammo a prenderla, alle 4 del mattino, lei era in piedi dietro il bancone a scaldare sandwich, si girò lentamente verso di noi e non oppose resistenza; confessò subito quella vendetta maturata nel tunnel buio del crack. Luther le aveva distrutto ogni speranza trasformandola in una succube remissiva. Quando l’accompagnai in cella, mi chiese candidamente di portarle una Bibbia, voleva iniziare a leggere come mai aveva desiderato.

Avrei mille storie da raccontare per tutti gli anni passati a contrastare la delinquenza, e forse un giorno chissà, scriverò un memoriale sui “guerrieri della notte” quelli veri, ma nessun ricordo fu più scioccante di quello vissuto in un tranquillo giorno di settembre, quando impotente assistetti al più grande degli orrori piombare improvviso sulla quiete cittadina e sul mondo intero.

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9/11 by Matt Weber, 2001 ©

Da allora non ascolto più notiziari, l’erba cresce alta nel mio giardino.

https://www.youtube.com/watch?v=OYebjH9fts0

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Pubblicato da Daniela Pepe

Anima migrante, laureata in economia. Lasciò tutto per l'America viaggiando in Transiberiana. Vive a Roma ma il suo cuore è a Tel Aviv

5 Risposte a “911 – Chiamata di emergenza”

  1. Coltivo il ricordo diversi eventi nella mia vita dopo i quali e per effetto dei quali niente fu mai più come prima. Quasi tutti personali, ma qualcuno anche pubblico.
    Milano, 12 dicembre 1969. Periodo economicamente non facile per la mia famiglia, lasciato San Siro abitavamo in un brutto quartiere della periferia nord. Frequentavo la seconda media in un istituto di suore, l’anno in cui gli americani sbarcarono sulla luna.
    Nel pomeriggio avevamo doposcuola e le lezioni di applicazioni tecniche, ore noiosissime nelle quali le suore tentavano (invano, per quel che mi riguarda) di insegnarci a cucire, a ricamare, a lavorare all’uncinetto e a maglia. A me venivano male anche le sciarpe.
    Alle cinque del pomeriggio suonava la campanella ed ero finalmente libera di tornare a casa a fare i cruciverba insieme al nonno Berto. Il nonno mi aspettava fuori da scuola, come sempre, tornammo a casa con l’autobus e ci fermammo dal salumiere sotto casa. A quel tempo non c’era internet, ma in qualche modo sotterraneo e misterioso le notizie importanti si diffondevano, anche se più lentamente. Erano ormai le 17,30, buio come è buio a dicembre, quasi Natale.
    In negozio due persone dicevano al salumiere che era successo qualcosa alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, pareva che fosse scoppiata una caldaia, era saltato in aria tutto e la Banca era piena di gente, come tutti i venerdì pomeriggio, perché gli agricoltori aspettavano la chiusura della loro Borsa-mercato per recarsi in Banca, e la Banca prolungava perciò l’orario di apertura.
    Ero stata spesso in quella filiale con papà, ex impiegato della Banca Commerciale, che lì aveva un paio di amici che talvolta andava a salutare. Ricordavo bene il cerchio perfetto della sala principale, con il bancone semicircolare sovrastato dalla cupola a vetri, e in quel momento non pensai alle persone, ma a quella bella sala devastata dallo scoppio.
    Mamma lavorava in via Giulini, e quando arrivo (in ritardo) ci spiegò che alle 7, usciti dall’ufficio, lei e alcuni colleghi erano confluiti in piazza Fontana per capire cos’era successo, con quello scoppio che aveva fatto tremare i vetri fino in via Dante. E raccontò, mentre lacrime silenziose le scendevano lungo le guance e finivano sulla borsetta che continuava a stringere a sé, che la polizia diceva che era stata una bomba, e che non avevano ancora transennato la piazza e c’erano sangue e pezzetti di gente sui muri. Disse proprio “pezzetti di gente”. Ovunque. E brandelli di abiti e di scarpe e di borse. Erano agricoltori, era brava gente che lavorava, perché?, diceva la mamma.
    Dopo quel giorno, Milano non fu mai più come prima, e nemmeno noi milanesi. Non ci sentimmo più al sicuro, capimmo che non bastava essere onesti e rigare dritto per non essere presi di mira. In qualche modo, la vita divenne più complicata.
    Fu uno strano Natale, quello del 1969. Le suore ci fecero pregare molto:ma io, che già allora dubitavo molto, non ho mai pregato. Ho continuato a vedere quella bella sala devastata e i muri imbrattati del sangue di gente che non c’entrava niente. Di qualunque cosa si trattasse.

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