Addio, Greta

La mattina dell’11 agosto del 1999 l’Europa Centrale vide la Luna oscurare completamente il Sole. Il giorno divenne all’improvviso buio e dell’astro solare non rimase che un allucinato, morente bagliore diffuso attorno al disco lunare.

Ultimo rampollo di una stirpe di noti mercanti d’arte milanesi che si tramandavano il mestiere sin dai primi del ‘900, Marco Galimberti era cresciuto respirando bellezza.

Suo padre aveva accumulato una fortuna durante il Ventennio ed il periodo della seconda guerra grazie a frequentazioni ed amicizie delle quali aveva smesso di vantarsi da tempo, ed approfittando di alcune situazioni francamente opache era entrato in possesso di varie opere d’arte del valore difficilmente stimabile. La famiglia Galimberti abitava in un’elegante villa d’epoca in stile liberty in piazza Amendola, a pochi passi dalla Fiera Campionaria di Milano ma in tutt’altra dimensione temporale. Oltrepassare il cancello in ferro decorato con motivi floreali, percorrere il lungo viale d’accesso ombreggiato da tigli  e ritrovarsi nel grande giardino, di fronte alla facciata rosa pallido, decorata con complicati virtuosismi in ferro battuto e piastrelle in ceramica dai vividi colori e scorgere le alte finestre a bovindo,  era un viaggio a ritroso nel tempo che proseguiva all’interno della dimora sontuosamente arredata.

Come capitava a molti figli della Milano “bene” da oltre un secolo, Marco aveva studiato al Collegio San Carlo, proprio di fronte a Santa Maria delle Grazie ed al Cenacolo. Con evidente disappunto di suo padre che sperava intendesse proseguire l’attività di famiglia, si era iscritto a Medicina e si era specializzato in chirurgia estetica: assuefatto a tanta statica perfezione, la sua ambizione era creare la bellezza ponendo rimedio agli errori dell’imprecisa natura. Quando aprì il suo studio volle ritornare nei luoghi cari alla sua adolescenza e trovò una dislocazione adeguata in un antico edificio in Corso Magenta, non lontano dal Collegio San Carlo. Per comodità, ma in realtà perché la convivenza con i genitori incominciava a pesargli, si trasferì in un lussuoso attico in Via Carducci, di fianco allo storico Bar Magenta.

Verso la fine degli anni ’90, in una Milano sfiancata dall’edonismo del decennio precedente e inzaccherata dal pantano di Tangentopoli, la decadenza si manifestava nell’esaltazione dell’esteriorità e dell’effimero, che assurgevano al rango di valori assoluti.

Il fatto che molte signore dell’alta ma anche della media borghesia si rivolgessero alla medicina estetica per correggere un involucro che non rispondeva (o non rispondeva più) a dei canoni estetici dettati dalla moda del momento fece la fortuna di Marco, che presto divenne molto popolare per i suoi interventi  effettuati con tecniche all’avanguardia.

Marco era un raffinato esteta alla ricerca delle proporzioni esatte e dell’armonia assoluta, nella vita come nella professione. Operava sulle fattezze delle pazienti stimolato dalla sfida di creare una perfezione che aveva potuto ammirare solo nelle opere d’arte, mai in natura, ma il più delle volte poteva solo adoperarsi per correggere la bruttezza o la vecchiaia. A quarant’anni era un solitario che aveva avuto molte relazioni superficiali e di breve durata, a parte una storia che era durata un po’ più a lungo. Aveva 35 anni quando presentò ai suoi Janet, una trentenne californiana dall’aspetto insignificante che aveva conosciuto durante un Congresso sulle ultime tecniche chirurgiche a Los Angeles. Janet era orfana e faceva la hostess al congresso; non avendo grandi prospettive per il futuro aveva subito accettato di seguire in Italia quel giovane ed affermato chirurgo. Marco le aveva subito proposto “qualche lieve ritocco” che lei aveva accettato (quando aveva visto l’attico dove avrebbe vissuto con Marco, aveva subito pensato che avrebbe fatto qualsiasi cosa per sistemarsi lì). Nel giro di un anno, la fisionomia di Janet era irriconoscibile al punto che la ragazza entrò in una profonda depressione perché non riusciva a convivere con l’estranea che vedeva allo specchio. Dal canto suo, Marco contemplava il risultato del suo lavoro e ne era soddisfatto dal punto di vista tecnico, ma quella bellezza artificiale pareva un bell’abito male indossato. Comunque, qualche mese dopo Janet se ne andò e non se ne seppe più nulla.

La mattina dell’11 agosto del ’99 Marco si trovava a Graz, capitale della Stiria, ultima delle tappe del viaggio in Austria che aveva programmato per le vacanze estive. Alloggiava all’Hotel Wiesler ed aveva assistito allo spettacolo dell’eclissi dalle grandi finestre della sua junior suite. Lo aveva trovato uno spettacolo inquietante, quell’oscurità improvvisa e fuori tempo lo aveva turbato e morbosamente attratto: provava la medesima torbida sensazione quando si trovava al cospetto di un volto irrimediabilmente brutto o deforme per qualche incidente o malattia. Era poi sceso al piano terra e si era accomodato al bar; leggeva distrattamente un giornale quando una voce gentile gli chiese se desiderava qualcosa. Marco alzò lo sguardo e si sentì mancare per qualche istante: aveva davanti agli occhi l’ideale di bellezza femminile che aveva a lungo e vanamente cercato di creare, in carne ed ossa.

La ragazza doveva avere poco più di vent’anni, aveva una figura alta ed atletica che in qualche modo ne imponeva la presenza. Il volto dall’ovale perfetto, leggermente triangolare – zigomi alti, grandi occhi blu ben distanziati, naso breve e sottile, bocca piccola e ben disegnata – era incorniciato da lunghi capelli castano chiaro raccolti in una voluminosa treccia. Ordinò un espresso e rimase a guardare la ragazza che si allontanava con passo elastico ed aggraziato. Decise subito che voleva quella ragazza, a qualunque costo.

Marco Galimberti era affascinante e colto, e si divertiva ad elaborare strategie con la medesima ostinata pazienza con la quale il ragno tesse la tela.  Incominciò a corteggiare la ragazza con discrezione, facendole recapitare all’indirizzo di casa (in un grande albergo con una buona mancia si possono ottenere molte cose) enormi mazzi di rose multicolori accompagnati da biglietti cortesi e nulla più. Poi, due giorni prima di partire, sul biglietto che accompagnava un’unica, superba rosa rossa, scrisse “sarei onorato di condividere con lei la mia ultima cena a Graz”.

La ragazza accettò, incuriosita dai modi di fare gentili e un po’ antiquati di quel celebre chirurgo estetico che operava in una clinica privata milanese (anche lei aveva preso qualche informazione). Cenarono in un accogliente ristorante in Mehlplatz, mantenendo la conversazione su toni educati e formali. Marco apprese che Greta aveva 23 anni ed era lituana, la sua famiglia viveva ancora a Vilnius. Lei si era diplomata al Conservatorio, suonava l’arpa, ed era emigrata in Austria perché sperava di poter entrare in contatto con qualche orchestra, ma era solo riuscita a trovare lavoro come cameriera, ed ora aveva un contratto stagionale  con L’Hotel Wiesler.

Rientrato a Milano, Marco prese a telefonarle sempre più spesso e continuò ad inviarle omaggi floreali accompagnati da biglietti che divenivano via via più confidenziali. Sapendo che il suo contratto con l’Hotel era prossimo alla scadenza, in ottobre Marco tornò  a Graz e le propose di trasferirsi a Milano: si disse certo di poterla aiutare ad ottenere un’audizione, e l’avrebbe ospitata volentieri nel suo appartamento.

Dopo qualche titubanza (in realtà più apparente che reale) Greta accettò, anche perché quell’uomo, tanto diverso dai suoi coetanei, incominciava a piacerle sul serio. Così, i primi di novembre si stabilì nell’attico in via Carducci, con Marco. Lo sedusse dopo appena un giorno e lui fece finta di lasciarsi sedurre, e nei mesi successivi spesso la contemplava con la stessa ammirazione appagata che leggeva negli occhi di suo padre quando si ritirava nello studio e si godeva la suggestione del possesso di tanti capolavori, cullato dalla voce dolorosa e potente di Maria Callas nell’Ave Maria di Schubert. Marco portava spesso Greta fuori a cena, ad eventi culturali e concerti, ed era sempre un poco infastidito dall’attenzione concupiscente che la sua compagna suscitava in qualsiasi maschio, come pure lo disturbavano le occhiate malevole delle altre donne. Lei invece non se ne curava affatto, e pareva che non fosse pienamente consapevole dell’effetto che la sua persona suscitava negli altri.

In realtà sembrava non essere affatto cosciente della sua bellezza, della quale non si curava. Marco era seccato e preoccupato da questa negligente incuria, e presto le impose rigidi e complicati rituali di cura della pelle, le proibì di stare troppo al sole e di fumare. Con garbata insistenza le insegnò a vestirsi e a parlare correttamente l’italiano. Per farle digerire queste forzature, le regalò un’arpa perché potesse esercitarsi. Nelle sere d’inverno, con la nebbia milanese che fluttuava evanescente e cotonosa fuori dalle finestre del salotto, la guardava suonare, rapito dalla grazia delle sue mani che si muovevano veloci sulle corde e dalla concentrazione che rendeva ancora più intrigante l’avvenenza del suo viso.

I genitori di Marco, per nulla incantati dalla bellezza di Greta, la trovavano inadeguata ed avevano ridotto al minimo i rapporti – già piuttosto logorati – con il figlio, aspettando semplicemente “che passasse anche questa, come tutte le altre”, come ebbe modo di dire la madre parlandone con il marito.

Era marzo quando Marco, attraverso il marito di una sua paziente, riuscì finalmente a procurare un’audizione a Greta. La ragazza era piuttosto brava, ed incominciò a suonare in un’orchestra filarmonica. Marco la vedeva sempre più entusiasta; si accorse di una certa distrazione nei suoi confronti, ma la attribuì all’impegno che Greta dedicava a prove ed esercitazioni per la preparazione del concerto che si sarebbe svolto in settembre a Stresa, sul Lago Maggiore, nell’ambito delle Settimane Musicali.

Arrivarono al Grand Hotel des Iles Borromées nel tardo pomeriggio di un venerdì, con il sole che scivolava nel lago circondato da un alone di luce dorata e leggermente appannata, la perfetta messa in scena dello spettacolo della stagione estiva che ha ormai speso tutto il suo splendore.

Sabato Greta fu impegnata con le prove: nel tardo pomeriggio l’orchestra si sarebbe esibita nel “ Prélude à l’après midi d’un faune” di Debussy. Marco passeggiò sul lungolago, passò a salutare un amico antiquario a Lesa, si annoiò un poco e si domandò se non fosse stato un errore favorire Greta nel suo progetto di suonare in un’orchestra. Temeva di averne perso il controllo, la trovava spesso irrequieta e nervosa, e aveva la sensazione di una lieve ma non trascurabile incrinatura.

Nell’auditorium del Palazzo dei Congressi il pubblico applaudì a lungo l’esibizione dell’orchestra. Alla fine del concerto Marco raggiunse il gruppo dei musicisti ma Greta non era con loro e non avevano visto dove fosse andata. Aspettò una decina di minuti e poi decise di tornare in albergo, forse Greta aveva deciso di aspettarlo là: ma la chiave della camera era ancora alla reception, pensò quindi di cercarla in giardino.

La ghiaia sottile scricchiolava sotto le sue scarpe, una leggera brezza portava con sé odore di lago, il suono morbido e vivace dello zampillo di qualche fontana, voci lontane.

Allora la vide.

Era seduta per terra, indossava ancora l’abito da sera con il quale aveva suonato, la schiena appoggiata al tronco di un grande salice, seminascosta dalla verde chioma cadente. Accanto a lei sedeva il primo flautista, un bel ragazzo bruno che Marco aveva già notato durante il concerto. Si parlavano sorridendo, le teste vicine, le ginocchia che si sfioravano, e tutto nel loro atteggiamento rivelava una profonda intimità.

Così Marco capì.

Si schiarì la voce, i due sobbalzarono, Scattarono in piedi contemporaneamente, Greta arrossì,

“oh, sei qui, stavo riprendendo fiato…”

guardò il ragazzo e poi seguì Marco, che si stava allontanando.

Ripartirono subito per Milano, la macchina filava veloce e rabbiosa nell’incerta luce crepuscolare  e Greta osservava il profilo immobile di Marco, cercando di tanto in tanto e senza alcun successo di avviare una qualsiasi conversazione. Giunti a casa, la ragazza infine si decise: lo affrontò sbarrandogli il passo e gli disse con voce ferma:

“Marco, devo parlarti”.

Ma lui le rivolse uno sguardo così stanco, e replicò:

“Lo so, ma non ora. Non stasera. Mi dirai tutto domani mattina”.

Si coricarono, Greta non si era stupita della reazione di Marco. Riuscì ad addormentarsi solo quando ebbe ben chiaro in mente il discorso – risolutivo – che gli avrebbe fatto l’indomani.

Marco attese che Greta si addormentasse, immobile e silenzioso accanto a lei. Quando sentì il suo respiro farsi più profondo e regolare, si sollevò con cautela su un gomito e stette a lungo a guardarla nel buio appena mitigato dal chiarore dei lampioni che filtrava dalle tapparelle. Cercò di imprimersi bene nella mente le proporzioni esatte del suo viso, la trasparenza della sua pelle, tutta quella vivida bellezza che lo aveva stregato. Chiuse gli occhi e cercò di immaginarsela, come se volesse essere sicuro di poterne conservare per sempre un ricordo nitido e veritiero, rievocabile in qualsiasi momento futuro.

Quando acquisì quest’ultima illusoria certezza, aprì piano il cassetto del comodino, estrasse la piccola Glock e mirò esattamente al centro di quello splendido volto: se non poteva possederla, non doveva rimanere nulla di quella bellezza. Lo sparo fece un discreto rumore, ma l’attico  era completamente insonorizzato ed occupava tutto l’ultimo piano della casa.

“Addio, Greta”,

mormorò a quello scempio.

Dopo aver fatto una lunga doccia, chiamò il 112. L’Ispettore Nannipieri, che si recò sul posto con due agenti, era abbastanza preparato a ciò che vide. Quello a cui era meno preparato erano le teste – e solo quelle – di tre giovani donne, rinvenute dai suoi uomini nel congelatore di proporzioni spropositate che si trovava in una stanza di disimpegno. Sui loro volti, linee e tratteggi effettuati con un pennarello, come a voler sottolineare errori e suggerire correzioni.

“L’orrido attende e sogna nella profondità, mentre la decadenza dilaga sulle brulicanti città dell’uomo” (Howard Phillips Lovecraft, “Il dominatore delle tenebre”)

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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