Allevare unicorni in Meridione

Nelle ultime settimane è improvvisamente tornato centrale nell’agenda politica il dibattito sul Sud, ed è un tema che mi colpisce nel vivo.

Per quel poco tempo che ho potuto dedicare alla stampa, la discussione sulla questione mezzogiorno mi è parso fosse focalizzata su alcuni punti:

  • Utilizzo fondi europei,
  • Investimenti per le infrastrutture,
  • Banda larga,
  • Turismo

Tutto molto bello (cit.)

La sensazione è che poco, o almeno non abbastanza, si è parlato di quanto tecnologia, innovazione e start up possano diventare centrali nello sviluppo, in Italia e nel Sud.

Per questo scopo è fondamentale chiedersi come si possa formare un mercato del capitale di rischio in grado di accompagnare iniziative con questo profilo.

In un ragionamento precedente ho cercato di “leggere” l’azione tesa a favorire gli investimenti per la creazione di imprese innovative, evidenziando come per paradosso possa essere controproducente per un sano sviluppo del mercato;

Il nostro Venture Capital (molto in ritardo rispetto ai valori europei, per non parlare degli USA) non riesce ad avere casi di successo di grandi dimensioni (Unicorni, società con valutazioni > 1Bn);

Ciò crea un mercato che difficilmente si autoalimenta, a causa delle dinamiche di gestione del protafoglio e la distribuzione dei risultati.

Il Venture Capital può realmente diventare importante per la crescita, ed è evidente quanto la presenza di casi di successo sia importante.

Ed il dibattito sul Sud è una buona occasione per continuare il ragionamento.

Da tempo sto cercando di organizzare le idee su quali possono essere delle azioni pratiche, implementabili, cercando di evitare retorica inutile, sento la mancanza di approfondimenti specifici sul come fare.

Ma non è semplice aggiungere qualcosa ad una discussione già ampia, quindi ho deciso di limitarmi ad aggiungere il mio Cent sul tema focalizzando un obiettivo, ovvero come aumentare il volume e la qualità di startup innovative in italia e nel sud.

Abbiamo visto come il volume del dealflow è essenziale per creare le premesse di un mercato con storie di successo di grande dimensione.

Essenzialmente sono tre i punti chiave su cui credo si possa fare dei passi avanti (tre Cents):

  • Innovation Clusters– creare vantaggio competitivo, e sostenerlo
  • Fondi EU e Fondi regionali perscegliere meglio, non scegliere
  • Capital Gain– fiscalità premiante per rischio e tempo

Innovation Clusters

Il valore di un innovation cluster è facilmente comprensibile; è intutivo capire come possa influenzare grandezze economiche oggettive e misurabili come lavoro, reddito ed in generale PIL.

Ma non è solo questo: porta con se una dimensione mediatica e politica di enorme portata, che insiste su un orizzonte globale (l’unica dimensione che conta, e che ci è sfuggita ormai di mano); insomma è un driver di influenza culturale importante.

Quindi è altrettanto comprensibile, ed anche apprezzabile, l’intenzione di fare qualcosa perché questo succeda nel proprio paese, sia nella spinta “dal basso“, sia negli sforzi “dall’alto” di un governo.

La formula per la creazione di una nuova Silicon Valley  pare un po’ il sacro graal dello sviluppo economico.

Ma è tutt’altro che scontato sia possibile creare un innovation cluster che funzioni, ovvero che produca storie di successo su scala internazionale, quindi in grado di autoalimentarsi.

Le ricette non differiscono molto tra loro; i punti della questione sono riassumibili in una lista ormai consolidata di azioni

  • Costruire un grande, bellissimo e ben equipaggiato parco tecnologico
  • Renderlo accessibile a Laboratori di Ricerca e Centri Universitari, cercando di coordinarne gli sforzi
  • Incentivare l’attrazione di scienziati, aziende e clienti
  • Collegare l’Industria con consorzi specialistici e di fornitori specializzati
  • Proteggere la proprietà intellettuale e favorire il trasferimento tecnologico
  • Creare un business environment ed un quadro regolatorio favorevole

Tutti questi ingredienti mescolati in varie forme, con varie sfumature di programmi “dal basso” o “dall’alto”, “pianificati” o “liberi”, con più o meno interventi pubblici.

Non voglio entrare nel merito del tema investimenti pubblici e ricerca, sicuramente di investimenti pubblici ne servono, cercando di trovare un modo serio per non debordare nei soliti vizi italici; rimane che siamo in Italia, e qualsiasi cosa facciamo dobbiamo farla tenendo conto di vizi e virtù del nostro paese.

E’ vero che su questi pilastri ci sono storie di successo, ma nessuna che abbia avvicinato minimamente la velocità e la forza della Silicon Valley, che continua ad accelerare rispetto al resto del mondo.

Sono condizioni forse necessarie, ma certamente non sufficienti.

E’ lecito quindi chiedersi, che fare?

Qual è quel “quid”, quell’ingrediente che cambia il piatto, che può fare da catalizzatore?

La migliore risposta a questo problema è in un post molto efficace di Marc Andreessen (da dove ho tratto anche la lista precedente)

http://a16z.com/2014/06/20/what-it-will-take-to-create-the-next-great-silicon-valleys-plural/

In sintesi, il centro della questione è nelle regole: “Regulatory Arbitrage”, ovvero come creare un vantaggio competitivo, e sostenerlo.

Cito direttamente, difficile dirlo in modo più efficace:

“It’s already happening in places like Brazil, which are becoming known for being commercial drone-regulation friendly. It’s also happening in other domains, as genetic reporting companies like 23andme are forced to explore opportunities abroad, athletes go to places like Germany for biologic medicine, and even Japan considers slashing regulatory red tape to attract more drug R&D. But these examples are more reactive than proactive;

I’m arguing for cities, states and countries to more systematically consider and create their regulatory competitive advantage. (If you don’t know what that advantage is, the best place to start is with local universities. Have a special competency in materials science? Then begin there.)”

Insomma, la questione centrale sta nella possibilità di sperimentare veramente in modo libero e consapevole: creare un business environment che si alimenti della libertà da regole e lacciuoli (ed ovviamente burocrazie).

Per chi fa le regole si tratta di cambiare radicalmente modo di ragionare.

Meglio continuare a chiedersi se Uber è legale o meno, o prendere uno o più settori specifici, su cui abbiamo una tradizione tecnica, professionale ed accademica, e renderli liberi di evolversi in modo naturale?

Ci assumeremo dei rischi, forse, ma creeremo le premesse per cui potranno nascere nostre “uber” e saranno altri in futuro a crearsi problemi subendo l’ingresso di queste forze; è un percorso che non può essere fermato, tanto vale cavalcarlo, scegliendo quali onde sono quelle giuste per noi.

Aggiungo che quel punto di vista non è solo una expert opinion, ma è espressione profonda dello spirito del venture capitalist, ormai globale, che cerca di combattere la propria battaglia affrontando un rischio altissimo, e vede opportunità dove le iniziative possano trovare un terreno favorevole, fatto di regole, persone, competenze ed infrastrutture.

Insomma non serve una copia della Silicon Valley, ma serve l’Italian way in certi settori e/o in certe aree, proteggendo la piena libertà di sperimentazione con un impegno a lungo termine.

Mentre scrivo mi rendo conto che è da illusi solo pensare che in Italia siamo in grado di iniziare a ragionare su un approccio del genere. Ma è una bellissima illusione. Qualcuno ci crede? Iniziamo a stendere una lista.

Sarà una lista lunga, l’Italia è piena di energie da liberare. Sicuramente ci sarà da scontentare qualcuno.

L’esempio del crowdfunding è importante; abbiamo fatto passi enormi, va bene, ma di per se non è un settore in grado di attrarre investimenti, ci vuole la materia prima su cui investire; mentre sicuramente può diventare la miccia che fa esplodere settori lasciati liberi di evolvere.

Fondi EU e Fondi regionali

Questa storia per me inizia nel 2003, la prima volta che ho ragionato professionalmente su questo tema.

Come ho già detto in un vecchio post:

“Ho un forte dubbio sui veicoli regionali. Il vincolo “geografico” temo impatti negativamente in termini di qualità di selezione, creando situazioni di adverse selection locale. Poi moltiplica l’attività di valutazione e gestione (ci sono veramente competenze in giro da avere un team di valutazione per regione veramente di livello?) e poi i bassi importi dei programmi non penso permettono lo sviluppo di attività realmente impattanti.”

Le azioni possibili per l’impiego dei fondi comunitari sono prevalentamente legate alle aree del Sud, e si parla molto del fatto che questi programmi non siano partiti, non usando i fondi previsti.

Per impiegare i fondi europei (su tech tra gli altri obiettivi) si devono definire dei regolamenti per l’impiego, che una volta approvati possono attivarsi; in generale su tech si applicano diverse strutture, comunque sia sono una combinazione di loan, equity, e garanzie.

A mio avviso i loan (e quindi fondi di garanzia) non sono adatti al tech, creano dei vincoli di pianificazione troppo stringenti; a 18 mesi dal seed vai per un primo round, non stai certo a fare spiccioli di cassa distraendoti da sviluppo e scalabilità per pagare il loan.

Mi pare che questi meccanismi stiano convergendo verso prestiti e/o garanzie; i casi di veicoli regionali che fanno equity sono pochi.

Ed un fenomeno simile succede con veicoli di investimento su base nazionale, come il caso recente di Invitalia; questi veicoli possono permettersi di gestire in modo meno “stringente” creando della competizione fittizia.

In queste situazioni si rischia di finire a fare club deals, o a farsi le scarpe a vicenda portando in alto inutilmente le valutazioni.

Anche in precedenza erano state tentate cose del genere (fondi ex gare UMTS); co-investimenti in veicoli con fondi target geog./PMI Innovative, team dedicati e vincolo di investimento locale.

Ebbene sperando nel successo dell’ultima iniziativa, devo dire non è che ad oggi grandi successi se ne siano visti.

Comunque tutti i programmi hanno in comune una caratteristica: la selezione delle singole iniziative (centralizzata e/o spesso appaltata ad un “gestore” con dei vincoli).

Ebbene, credo che qui sia l’errore fondamentale; elenco di nuovo i dubbi espressi in precedenza:

  • Se quell’area è già “svantaggiata” (il Sud o l’Italia in generale per il settore), perché quel territorioper se dovrebbe riuscire a generare un flusso di iniziative interessante?
  • Se consideriamo la penuria di competenze del settore, avere 20 team (uno per regione) che si occupano di selezione ad un certo livello non è solo una chimera?
  • Team locali, o anche centrali, non rischiano adverse selection? nel piccolo delle loro area di influenza non andranno, naturalmente, sulle loro relazioni, rischiando di trasformarsi in una sorta di captured agency?
  • Lo scarso dealflow non crea diseconomie nella gestione del portafoglio di questi enti/veicoli?

Ma veniamo al punto; una delle domande che mi pongo da tempo è: non sarebbe più alto il volume potenziale se al volume generato in locale si aggiungessero iniziative esterne all’area stessa?

Certo, sembra banale, ma questo sicuramente è difficile con azioni differenti su investimento e promozione/attrazione, e con team dedicati all’investimento locale.

Insomma, è proprio necessario scegliere le singole iniziative?

Non è detto sia necessario scegliere le singole iniziative; perché non possono essere selezionati degli operatori, ed erogare con un meccanismo simile al FoF per i singoli investimenti?

Certo un meccanismo totalmente avulso dalla scelta non esiste; ma almeno si può scegliere in modo intelligente.

Questi, selezionati anche su base internazionale, non dovranno essere focalizzati su Italia o aree specifiche, ma su un “plafond” di operazioni, in certe aree e settori (ovviamente gli stessi dove sia stato costruito un vantaggio regolatorio), per un certo periodo.

I singoli investimenti, selezionate da loro stessi, potrebbero contare co-investimento da parte dello stato/regione.

Vediamo che forma potrebbe avere:

  • Un operatore selezionato aderisce ad un programma per investire X del proprio gestito in Area Y per una durata T
  • Per ciascun € investito l’investitore avrebbe diritto ad un co-investimento pari a nX € nella società oggetto
  • L’operatore gestisce la partecipazione congiunta, dove il rendimento del co-investimento pubblico ha un CAP (per es. il preferred)
  • La misura dovrebbe essere possibilmente “automatica”, tempi sono fondamentali
  • L’operatore potrebbe avere una forma di managemnt fee per la gestione della partecipazione

Ovviamente ci sarebbero regole molto rigide nella selezione degli operatori, ed anche “regole di ingaggio” con tempi, scadenze, aree, settori, plafond fissi o aggiornabili (meccanismo che premia la rapidità), posti in CDA, regole per disinvestimento etc etc; insomma normali vincoli di gestione (questo non è un progetto di regolamento, ma solo un ragionamento pubblico che spero possa aggiungere qualcosa).

Quindi in estrema sintesi l’idea è di applicare un processo di scelta “decentrato”, lasciando gli operatori decidere, senza bloccare gli impegni.

Vediamo alcuni vantaggi:

  • Il processo di selezione delle singole iniziative è fatto da operatori esperti
  • Il deal flow potenziale che può “arrivare” in un’area è moltiplicato per il numero di operatori coinvolti, quindi non solo generato dall’area stessa, ma sourcedanche possibilmente a livello internazionale
  • Si apre anche al rientro di cervelli e competenze, lanciando uno strumento (o una serie di strumenti) di scala globale;

Rimane valido il discorso su Innovation Clusters; tutti o parte dei punti sopra citati sono necessari ma non sufficienti;per coinvolgere operatori nazionali ed internazionali di valore ed avere storie di successo non bastano interlocutori che si accontentano della management fee e dall’equity “cheap”: servono interlocutori in grado di cogliere i vantaggi del “regulatory arbitrage” dell’area (o del Paese) che siamo stati in grado di “liberare” e mettere sul piatto.

Infatti i “plafond” allocati non pagando management fees se non sull’investito (o sul committment, ma almeno a valori inferiori al mercato, se non per la “share” ridotta della parte allocabile da noi), impattano poco o nulla sull’IRR (non erogato) e spingono l’attività di investimento.

Questo potrebbe migliorare strutturalmente il processo, e quindi il volume degli investimenti, evitando team di gestione che prevalentemente aspirano a gestire e non ai rendimenti (quindi non al carry).

Ciò ovviamente non è possibile quando vincoli dei capitali ad un fondo, la gestione costa ed è inevitabile pagare la fee, che col tempo e lo scarso dealflow impatta fortemente su IRR.

Inoltre un meccanismo così per un fondo evita il rischio di concentrare troppo l’attività verso il paese/area, vincolando tutto il funding; avendo ciascun operatore un’allocazione parziale su certi settori e certe aree si avrebbe un vantaggio nella diluizione del rischio (quindi compatibilità con politiche efficaci di gestione di portafoglio).

Come varia la probabilità di avere un unicorno in Italia, con maggior dealflow, maggiori operatori a selezionare con team più specializzati e track record, vantaggi regolatori, competenze internazionali nei deal, disponibilità di equity e obbligo di risultato per avere rendimenti?

Sicuramente ci sono alcuni svantaggi nel rinunciare a scegliere; il primo, non poter capitalizzare il potere di scelta.

Personalmente non lo ritengo uno svantaggio.

Insomma un meccanismo del genere riduce la distanza tra attrazione investimenti, promozione e sviluppo locale, aumentando i volumi del dealflow in gioco a tutto vantaggio del mercato.

Capital Gain

Su questo tema sarò molto sintetico, a breve proverò a sviluppare un minimo l’argomento in un post.

Riprendendo il discorso iniziato su Startup e (dis) incentivi:

  • Bisogna premiare l’upside di chi investe, e non difendere il downside
  • Incentivare il rischio di downside porta comportamenti opportunistici (disincentivo)

La fiscalità sul valore dell’equity di nuove imprese innovative va tutelata tenendo conto del rischio (alto) e del tempo (lungo) necessario perché il mark up si manifesti con un evento di liquidità.

Quindi in estrema sintesi meglio uno sconto forte su chi esce da una partecipazione dopo 3/5/7 anni (costo potenziale) avendo creato valore, rispetto ad uno sconto subito, che rischia di creare un disincentivo alla selezione.

Così i valori vanno in alto, ed il vantaggio diventa sostanziale, creando un reale potere di attrazione.

Insomma, mi rendo conto mi sono dilungato un po’, ma questi sono i miei tre cents su cui riflettere, sui cui potremmo sviluppare dei programmi che abbiano un impatto serio, e non solo al Sud.

Qualsiasi commento ben accetto, se non altro per stimolare un ragionamento pragmatico sul nostro futuro.

E se son Unicorni, galopperanno.

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Pubblicato da Peppe Tomei

Pragmatico pontificatore e battutista seriale, innovatore di mestiere e di passione; sopravvissuto alla bolla del '00 mentre esplorava California ed Israele, dopo qualche tempo nel Private Equity nostrano decide di rimettersi in gioco nel mondo Corporate, per coltivare il gusto del "fare", atterrando in modo stabile a Milano.

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