Amici, nemici o semplici conoscenti?

Riguardo l’impatto dell’innovazione tecnologica nei servizi finanziari, negli ultimi mesi, sulla Rete, si è sviluppato un dibattito che oppone, in sostanza, due posizioni apparentemente simili ma in realtà assai diverse:

© Bonvi / Eredi Bonvicini
© Bonvi / Eredi Bonvicini
  1. I Radicali: chi crede nella disruption totale. Nuovi modelli di business con nuovi protagonisti e conseguente eclissi – o comunque perdita della leadership – degli attuali player. La completa rivoluzione.
  2. I Conservatori: chi pensa che l’industria grazie a questa spinta dal basso ma che i nuovi player giocheranno il doppio ruolo del concorrente e del fornitore degli attori tradizionali con questi ultimi che saranno in grado di adattarsi al cambiamento mantenendo pressoché intatta la loro leadership. La naturale evoluzione.

(Gli appellativi sono miei e utilizzati solo ai fini della sintesi, ci mancherebbe altro!)

Apro una parentesi: ci sarebbe anche un’altra posizione, ancora più conservatrice, secondo la quale le istituzioni finanziarie sono in grado motu proprio di riprogettare e aggiornare le loro interazioni con i clienti, con una revisione autonoma dei loro modelli di front, middle e back office. Questo restrittivo punto di vista è sposato da coloro che credono che i nuovi player (le startup) siano destinati a fallire la propria missione di diventare primattori rimanendo tuttalpiù fornitori di tecnologia a basso costo per gli operatori storici che quindi potranno solo migliorare il loro livello di servizio rafforzando il monopolio.

Questa posizione – che in alcuni dibattiti viene richiamata come “modello ibrido” (in sintesi: va bene il cambiamento ma non esageriamo) – è portata avanti, con sempre maggiore difficoltà, da esponenti del sistema attuale. Già oggi è smentita dai fatti, semplicemente osservando cosa sta accadendo nel settore dei pagamenti (Paypal, ApplePay, …: la lista è infinita), della gestione del risparmio (robo-advisory, piattaforme B2C self-service) e del credito, vero core delle banche (blockchain, smart contracts, marketplace B2B). Citando a questo proposito un intervento di Carlo Alberto Carnevale Maffè (@carloalberto), sarebbe come chiedere a un tacchino quale debba essere il menu del pranzo del Giorno del ringraziamento: “Direi ibrido: pesce e verdure!”.

Come risulta evidente, questo punto di vista è già sorpassato dalla realtà dei fatti e quindi… parentesi chiusa!

Ritornando alle due posizioni contrapposte, l’analisi del confronto è interessante e si presta a molte considerazioni. Volendo provare a sintetizzare, le tesi portate avanti dai due contendenti sono:

Secondo i Radicali

  • Alle banche manca un vero commitment al paradigma digitale. Cercano di adattarsi intervenendo sui canali di distribuzione, spesso peraltro senza le necessarie competenze, senza capire che non è una battaglia tra prodotti o caratteristiche dei prodotti, non si parla di un nuovo aspetto da applicare a un vecchio modello ma di un vero e proprio ripensamento dei fondamentali. L’esempio più citato, anche perché più evidente, è quello dei sistemi di pagamento, dove a livello globale non c’è stata una sola banca che abbia guidato il cambiamento. Gli innovatori sono stati Paypal, Apple, Dwolla e, recentemente, Facebook (per non citare il fenomeno Bitcoin). Le banche hanno temporeggiato, cercando di capire cosa stava succedendo e quale avrebbe potuto essere il loro ROI. I disruptors, semplicemente, sono passati alla fase di esecuzione costringendo le banche ad adeguarsi (v. Apple Pay).
  • Nel cuore dell’industria tradizionale dei servizi finanziari è radicata un’avversione al rischio industriale. Perché investire su qualcosa di (apparentemente) diverso quando c’è già un business redditizio? E’ esattamente l’approccio opposto di quello delle startup.
  • Il modello di banca universale (che offre quindi una pluralità di servizi finanziari) è destinato a tramontare perché ci sono (e ci saranno sempre più) operatori specializzati nei vari settori in grado di servire meglio gli interessi del cliente (logica del “Il totale è maggiore della somma delle sue parti”).

Secondo i Conservatori

  • L’intero settore dei servizi finanziari e del banking in particolare è soggetto a un gigantesco insieme di obblighi, regole e leggi che di fatto costituisce una insormontabile barriera all’ingresso dei disrutptor (sull’inadeguatezza degli attuali sistemi di compliance rispetto alle istanze delle tecnologie, vedi ad esempio questo articolo).
  • Tutti i nuovi attori si sono focalizzati sulla user experience ma ignorano il vero problema che c’è nel “fare una banca”: la gestione dei sistemi centrali e delle regole – spesso antiquate ma reali – che li governano.
  • I fenomeni finora osservati riguardano settori dell’industria con scarsa marginalità; le banche quindi avrebbero scientemente lasciato campo libero alla concorrenza (!).

Per una dimostrazione plastica del confronto, potete far riferimento qui, con Brett King il fondatore di Moven da una parte e Michal Panowicz di mBank dall’altra.

Chi ha ragione? Entrambi. O nessuno. Ad esempio, riguardo il ruolo di “lama a doppio taglio” esercitato da regole e compliance è perfetto questo estratto da un tweetstorm di Marc Andreessen (@pmarca):

Il banking tra dieci o venti anni sarà completamente diverso da come è adesso. Ci saranno nuovi attori che si muoveranno in un contesto completamente nuovo. Ma la transizione va gestita. E le banche, anche solo considerando l’ultimo mezzo secolo, hanno dato prova di resilienza come forse nessuna altra industria.

Forse le prime vittime saranno le piccole o piccolissime realtà locali e regionali che non hanno sufficienti risorse e capacità da dirottare nell’innovazione. In ogni caso, anche le realtà che saranno più aperte al cambiamento, avranno enormi difficoltà a cambiare il proprio status quo a causa del fardello della “memoria storica” aziendale, dei farraginosi processi interni, dell’età media del top management e degli azionisti (da questo punto di vista il Fintech ha un vantaggio enorme e innegabile).

Non sarà un’ecatombe: questo è chiaro. L’intricatissimo insieme di leggi, norme e regolamenti che circonda e penetra tutto il sistema pone un freno formidabile e si evolverà comunque più lentamente di quanto le esigenze della clientela non stiano già richiedendo.

Per questo, l’avvento della disruption portata dal Fintech non sarà legata ad una killer app o ad un singolo evento facilmente identificabile ma avrà piuttosto l’effetto di un’onda lunga, portatrice di una continua ed estenuante pressione verso l’innovazione che formerà nuovi comportamenti dei clienti, nuovi modelli di business e, infine, una nuova struttura dell’intero settore dei servizi finanziari.

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Pubblicato da Simone Calamai

Da quindici anni si occupa di innovazione nel campo della distribuzione dei servizi finanziari. Appassionato di tecnologia, utilizza un Mac in attesa che esca il nuovo modello di ZX Spectrum. CEO @Fundstore ma su Piano Inclinato le opinioni sono tutte sue.

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