Ancora su Alessandro Piperno, e la colpa di vivere

Alessandro Piperno

Esistono libri che hanno un’intensità e una ricchezza che le circa millecinquecento parole di questa rubrica non riescono a descrivere compiutamente: spesso ci sarebbe molto altro da dire, e questa volta cediamo alla tentazione con questo “sequel” della recensione dell’ultimo romanzo di Alessandro Piperno, che si chiudeva con un post scriptum con il quale ci eravamo dati alcuni “compiti a casa”: ci riferivamo al tema dell’ebraismo, dell’essere ebrei, uno dei temi che connota questo bellissimo romanzo, insieme ai vari altri di cui già abbiamo parlato.

Ma, prima, qualche altro ulteriore elemento di riflessione su questo libro, che sta sedimentando in noi che lo abbiamo letto, che ci riflettiamo e ci confrontiamo sulle avventure del giovane protagonista, che racconta, dai suoi sessant’anni di uomo maturo, la sua complicata adolescenza negli anni Ottanta e l’articolata vicenda famigliare che lo ha coinvolto al tempo dei suoi sedici anni.

Lo abbiamo già detto, questo è un libro dalla struttura semplice, piana: è narrato in senso cronologico, senza particolari salti temporali (che invece, per esempio, rendevano parecchio complessa, per quanto mirabilmente risolta, la struttura narrativa de il Colibrì di Sandro Veronesi, anch’esso incentrato sulle vicissitudini di una famiglia).

Di Chi è La Colpa”, inoltre, è in prima persona, e quindi senza filtri: ci viene raccontato da chi era lì, o ricorda di esserci stato. Allo stesso tempo però la prosa è ricca, quasi debordante, ricca di sensazioni, di sentimenti, di divagazioni, di argomentazioni, ora sfrontate, talvolta sboccate, talaltra delicate, e mai banali e scontate.

E’ così che si compone un affresco potentissimo e profondissimo, dell’animo del narratore e degli altri personaggi che compongono questa vicenda, ed è questa ricchezza che ci resta, al di là della storia, tutto sommato, semplice.

L’ebraismo

Ma veniamo all’ebraismo, un tema che avevamo tralasciato nella prima parte di questa recensione.

Con la cena di Pesach a casa Sacerdoti, a un quarto del romanzo, il narratore (non possiamo chiamarlo per nome, perché questo nome non è dato sapere, a noi lettori) scopre il mondo dell’alta borghesia ebraico-romana, ci entra dopo che per tutta la sua vita ne era stato bandito (a causa della madre, respinta dalla sua famiglia per aver sposato un gentile).

C’è una scena di grande letteratura ed è quando, al funerale della madre del narratore, Francesca (sua cugina, con la quale aveva avuto un incontro hot nella camera di lei a New York) rivela di voler tornare in Israele, di voler fare l’Aliyah.

In una ventina di pagine molto intense, siamo a tre quarti del romanzo, Piperno ci porta dentro al grande tema dell’ebraismo: ci conduce nel dissidio fra ebrei della diaspora ed ebrei che vogliono tornare nella terra d’Israele, una disputa, diciamo, orizzontale, geografica, a cui se ne contrappone una, per proseguire nel paragone, di tipo verticale, dentro la società, degli ebrei romani (in questo caso) nella società romana: sul sentirsene parte integrante, ma anche un po’ estranea, o insoddisfatta, o non completamente accettata.

Francesca ed il narratore quindi si incontrano, non si vedono da alcuni mesi, dal loro incontro nella Grande Mela.

“Non ci sto pensando. Ci ho già pensato. Ho deciso”

dice lei. A cosa si riferisce? All’Aliyah per l’appunto: Francesca vuole tornare in Israele. E lui, anche se da poco rientrato nella famiglia ebraica, la prende malissimo:

“Ed eccola qui, la stronzata perfetta: l’Aliyah fa proprio al caso nostro. Esotica, romantica, velleitaria, egoista, come tutto ciò che mi riguarda”.

Il nostro narratore, esempio perfetto della difficoltà di ritrovarsi membro di una comunità che vorrebbe conservare la sua antica “diversità”, ma allo stesso tempo è totalmente integrata, dopo decine di generazioni in città, prosegue nell’antifona:

“Ora lo sapevo. Sapevo che questa storia dell’ebraismo non mi piaceva. Non faceva per me. Era una consorteria. Come tante altre, d’altronde. Vivere in Israele? E perché non in Groenlandia o in Papuasia? Cosa c’era in Israele che qui non c’era? Perché farla tanto lunga? Perché accalorarsi? Era un posto. Il mondo era pieno di posti. Ora sì che capivo quelli che manifestavano contro il violento sciovinismo sionista!”

E ancora:

“Se l’ebraismo non avesse tenacemente resistito ai mille agguati della Storia, estinguendosi come prima di lui tanti panteismi non meno pittoreschi, i miei nonni e mia madre non avrebbero sentito l’esigenza di distanziarsene (…) Se l’ebraismo non avesse rappresentato un irresistibile richiamo della foresta, mia madre non avrebbe avvertito l’esigenza di riprendere i rapporti con i Sacerdoti, di appianare dissapori pluriennali, di tornare a sognare una vita diversa…”

E, infine, il carico da undici:

“Se gli ebrei ossessionati dall’essere ebrei non si fossero messi in testa di colonizzare una terra su cui (parliamoci chiaro) non potevano accampare alcun serio diritto legale (…) adesso Francesca non sarebbe stata qui a farneticare dell’Aliyah e probabilmente avrebbe trovato modi più gustosi d’intrattenermi”.

Noi non possiamo qui – né vogliamo – prendere alcuna posizione su queste parole, che Piperno mette in bocca al suo protagonista e che, probabilmente, pensa egli stesso: vogliamo solo dire che queste venti pagine (che poi proseguono con un pianto liberatorio del nostro, non dimentichiamoci che siamo pur sempre al funerale di sua madre) lo inseriscono a pieno titolo – a nostro avviso – fra i grandi narratori che hanno scritto pagine memorabili su questi temi.

I richiami ad altri autori

Questo dissidio lo troviamo in Philip Roth, come già detto: basta leggere Operazione Shylock (Einaudi, 1998), per esempio, ricchissimo di ricostruzioni accurate dei sentimenti contrastanti che hanno caratterizzato gli ultimi cento anni di storia dell’ebraismo, anche prima dell’Olocausto, quando le comunità ebraiche europee iniziavano a emigrare

“per costruirsi in America, e in inglese, una nuova vita ed una nuova identità di ebrei”.

Ed anche Isaac B. Singer, per fare un altro nome, vive questo dissidio: lui, che dagli shtetl polacchi è passato alle mille luci di New York, che non disdegnò alcuni comportamenti libertini, fa dire ad un suo personaggio ne Il Ciarlatano:

“Quando gli ebrei si allontanano dalla Torah perdono tutto. Non dovrei dirlo, ma sull’ebreo moderno i nostri nemici hanno ragione. Tutto quello che dicono contro di noi è vero”.

E Michael Chabon? Ne “Il Sindacato dei poliziotti Yiddish”, si inventa Sitka, un’isola nei pressi dell’Alaska, un’altra Israele dove addirittura si parla l’antica lingua (morta) dei villaggi degli ebrei della diaspora, mentre Jonathan Safran Foer in Ogni Cosa è Illuminata va alla ricerca delle origini, dove c’erano gli shtetl distrutti e spazzati via dal disastro della Guerra e della shoah.

E ci pare importante citare Irène Némirovsky, integrata perfettamente nella borghesia della Parigi degli anni Venti, eppure, pochi anni dopo, deportata come apolide, senza un passaporto, dentro nel vortice della tragedia della Shoah.

In conclusione

A noi pare che il modo che Alessandro Piperno ha di affrontare questo tema inserisca questo romanzo in una grande tradizione di narratori di origini ebraiche, in cui questo suo contributo non sfigura affatto; e, con l’occasione, ci pare giusto ribadire che Di Chi è la Colpa è una grande romanzo, dove troviamo tante cose, tutte scritte benissimo: la “buona letteratura”, direbbe Mario Vargas Llosa.

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.