Argentina: un calcio ai debiti

Correva l’anno 2001, Lionel Messi era un ragazzino di 14 anni dalla salute precaria, quando lo Stato Argentino dichiarò il proprio default. Insolvente sul proprio debito pubblico. L’espressione drammatica di un problema radicato nel tempo.

Nel 1991 il Presidente Menem doveva arginare una galoppante inflazione, effetto della svalutazione progressiva del peso argentino. Il Paese, non riuscendo ad essere competitivo, aveva fatto della svalutazione e delle barriere protezionistiche le proprie armi per “stare al mondo“, uno strumento tanto efficace da spingere la politica a non promuovere alcun altro tipo di riforma. Svalutare, inflazionare e imporre con dazi i consumi locali allontanarono l’economia nazionale dalla competitività in un mondo sempre più “aperto”.

Venne così l’idea di adottare il “Washington Consensus” (la ricetta del FMI): privatizzazioni massicce e riforma del sistema pensionistico. A questo fu abbinato un altro “trucco” di tipo monetario: basta con la svalutazione, si passa al cambio fisso; con una moneta forte come il dollaro.
L’effetto fu inizialmente incoraggiante: investimenti esteri, crescita, rientro dell’inflazione (al 5% già nel 1994).
Tuttavia il ciclo macroeconomico degli Stati Uniti e quello dell’Argentina hanno ritmi ed esigenze ben diverse e le distorsioni provocate dall’ennesimo trucco monetario sono riemerse: nonostante il rapporto fra debito e PIL non fosse a livelli sconvolgenti (circa 60%) le casse pubbliche entrarono in crisi di liquidità, le riserve monetarie si esaurirono perché chiunque detenesse dei pesos cercava di cambiarli, alla pari, in dollari.

Quattro anni dopo aver dichiarato fallimento, siamo quindi nel 2005, l’Argentina fece una proposta “prendere o lasciare” ai suoi creditori: accettare un pacchetto di nuove obbligazioni a valore ridotto e durate allungate, spiegando che da quel momento lo Stato avrebbe pagato solo queste nuove obbligazioni e “dimenticato” le vecchie.

L’adesione dei risparmiatori privati fu massiccia, ma un pugno di testardi -prevalentemente hedge found– non ha accettato questa forma di ristrutturazione, ha preferito tenere i vecchi titoli cercando di far valere le proprie ragioni di creditori. E dopo anni di cause e appelli, la Corte Suprema americana è giunta a dar loro ragione: se l’Argentina vuole onorare i suoi debiti deve pagare tutto quello che è in essere, non può scegliere di pagare solo i detentori dei bond “ristrutturati”; secondo i giudici americani, il Governo di Buenos Aires non è autorizzato a pagare se prima non salda gli investitori degli hedge found (con tutti gli arretrati).

Ovviamente non è questione di poco conto, la differenza è notevole in termini economici: ci sono ancora 6,6 mld$ di bond non convertiti, secondo i dati del ministero dell’Economia argentino. E includendo gli interessi arretrati il totale stimato da Citigroup ammonta a 16,2 mld$, ovvero più della metà delle riserve valutarie del Paese e la prossima scadenza di pagamento è fra 3 giorni: il 30 giugno.

La decisione della Corte Suprema rischia di generare un pericoloso precedente: aderire alle ristrutturazioni parrebbe una scelta per gonzi. La parte dei “dritti” la fanno in particolare gli hedge found di Elliott Management Corp. e di Aurelius Capital Management Lp che hanno comprato titoli a bassissimo costo dopo il default del 2001. Le ricadute per tutti i soggetti che in futuro avranno problemi con i debiti emessi, e per chi li ha sottoscritti, potrebbero essere poco simpatiche.

La Presidenta argentina Kirchner è ovviamente preoccupata per gli effetti politici ed economici di un nuovo default. Per quanto preferirebbe non pagare gli investitori, lei e i suoi principali consiglieri pare abbiano capito i pericoli e le incertezze che un fallimento potrebbe creare e hanno provveduto oggi a depositare 1 mld$ per il pagamento delle scadenze del 30 giugno, confidando di trovare una qualche forma di accordo con i detentori dei titoli non convertiti, ai quali potrebbe arrivare una causa promossa dai “gabbati” sottoscrittori dei titoli ristrutturati, che si troverebbero altrimenti beffati da una nuova insolvenza.

Un intricato nodo di cause e sentenze degno di un Azzeccagarbugli di manzoniana memoria, utile a rammentare che la sovranità non è risolutiva dei problemi di un paese, se questo soffre di una economia inefficiente: per convincere gli investitori internazionali a continuare a prestare denaro l’Argentina non può danneggiare ulteriormente la propria precaria credibilità e deve trovare una strada per accontentare tutti.

Questa lunga storia ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, che la globalizzazione offre straordinarie occasioni di crescita e di riduzione della povertà, ma espone anche a potenziali shock: è un  moltiplicatore di crescita, ma anche di crisi. Gli artifici monetari, siano essi la svalutazione o l’abbandono dell’aggiustamento dei cambi, sono ammortizzatori di breve periodo. Le economie per funzionare necessitano di aggiustamenti strutturali, di accordi sociali basati su classi politiche e sindacali mature.

Le istituzioni finanziarie internazionali spesso sono viziate da ideologismo miope e per questo motivo spesso incapaci di far fronte ai loro stessi obiettivi: evitare le crisi finanziarie internazionali; riescono semmai meglio nell’esercizio di tamponarle, dopo che sono deflagrate. Il progetto dell’assetto produttivo di un Paese, per approfittare delle occasioni e per difendersi dagli shock prodotti dalla globalizzazione, è patrimonio della politica, non di quelle istituzioni finanziarie. Sono le decisioni politiche a determinare il sentiero di sviluppo di un Paese. E -soprattutto- sia le buone scelte che gli errori commessi “oggi” esprimono i loro effetti lontano nel tempo.

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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

7 Risposte a “Argentina: un calcio ai debiti”

  1. @Andrea Boda

    non credi che il trucco monetario come lo chiami tu sia stato messo in pratica anche nella vecchia Europa dove in sostanza le valute nazionali sono state agganciate ad una moneta forte come il marco, rinominato per l’occasione Euro?

  2. Un piacere ritrovarti, Luigiza.
    Aspettavo che questo articolo generasse questa domanda. La risposta è che mentre l’Argentina ha vincolato la propria moneta ad una valuta estera, basata su altre dinamiche e regolata da una banca centrale che non considerava l’Argentina come elemento su cui soppesare le decisioni, in Europa il progetto è molto diverso. Certo, potremmo discutere dei diversi equilibri e dei diversi pesi dei singoli paesi nella gestione collettiva della Comunità Europea, potremmo valutare criticamente la velocità del processo di unione anche politica ed economica, oltre che monetaria. Ma è indubbio che la scelta di unire i Paesi in un’area valutaria comune è uno step di un progetto di più ampio respiro e di ben altre ambizioni rispetto alle esigenze che mossero Menem nel 1991.

  3. Secondo me, Luigiza ha centrato il punto (e rimanda perfettamente alle mie frequentazioni argentine).
    Se il progetto europeo fosse stato dettato da una forte tensione ideale, prima dell’euro bisognava armonizzare: politica estera, difesa, sistemi fiscali.
    E lascio da parte la questione democratica laddove, ancora oggi, il sistema di governo è fortemente deficitario su questo aspetto (ho usato un eufemismo).
    Invece, si è preferito (chi?) iniziare dalla moneta e allargare i confini verso est in modo indefinito.
    Oggi, dire che il progetto europeo è più “alto” rispetto al caso argentino suona molto come quando si fanno le distinzioni tra scilipoti e i transfughi di sel.
    Bello…ma la sostanza è la stessa: si è intravista un enorme opportunità di guadagno a breve termine.
    Ormai la frittata è fatta.
    Almeno, come aspetto positivo, spero ci porteremo dietro da questa esperienza pluriennale una maggiore coscienza sull’importanza del controllo dei conti pubblici e dell’etica pubblica.
    Ma anche qui, se guardo l’Argentina, il panorama è disperante.
    Sinbad

  4. Cari luigiza e Bimbo Alieno,

    Europa come Argentina? No.

    L’Europa è differente, sa ammantare i suoi drammi di belle parole.

    1914-2014 cento anni di belle parole. Due guerre mondiali, una rivoluzione e almeno quattro guerre civili. Caduto il muro di Berlino ecco un bel disastro economico e sociale, queste sono le nostre credenziali.

    Settanta anni di comunismo, non produssero benefici nei paesi sotto il suo dominio, ma la sua minaccia e la paura del suo trionfo, produssero in Europa l’intermezzo del benessere e del welfare.

    Si doveva dimostrare che l’Europa era un sistema vincente e felice.

    Ora non è più necessario.

    Comunque “state sereni” … Europe …. “This time is different”.

  5. La storia è ulteriormente complicata dall’esistenza, nei “contratti” dei bond ristrutturati, di una clausola per cui i sottoscrittori di altri titoli non bailout non possono venir preferiti ai sottoscrittori di titoli ristrutturati, è questo che espone l’Argentina al rischio di dover pagare TUTTI contemporaneamente, ma forse anche no…
    La decisione del giudice newyorkese si basa sul fatto che quei titoli in mano agli hedge funds avvoltoio sono denominati in dollari usa e soggiaciono alla normativa americana, mentre tutti i bonds che si è riusciti a ristrutturare sono stati riportati sotto la legge argentina, x ovvie ragioni di sicurezza dellla casa rosada.
    Sapendo questo, forse Buenos Aires avrebbe potuto pensare un piano B x tempo, e invece…

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