Australia: Terra promessa o terra di conquista?

Un semplice atto amministrativo, un provvedimento di routine del governo australiano ha acceso un dibattito che prescinde dal suo valore intrinseco. Pochi giorni fa l’Esecutivo ha deciso che la soglia di approvazione per l’acquisto di terreni da parte di stranieri sia abbassata da 240 a 15 mln di dollari australiani, cioè da 187 a 11,7 mln in valuta statunitense. Oltre questo valore, la vendita di terreni deve essere sottoposta al Foreign Investmente Review Board, emanazione del governo. In sostanza, Canberra vuole controllare le transazioni, assicurarsi della loro regolarità, impedire che convergano verso interessi ostili. Il timore è fondato e trova giustificazione nella fisionomia che l’ Australia ha e ha assunto negli ultimi anni. Il territorio è vasto e scarsamente popoloso (23 milioni di abitanti su un’estensione 26 volte più grande dell’Italia), soprattutto per la politica restrittiva adottata verso l’immigrazione. Il clima è tra i più secchi al mondo, l’acqua è una risorsa strategica, l’agricoltura un caposaldo delle attività produttive. La vendita di terreni è dunque un argomento di natura sociale, capace di toccare direttamente le corde dell’opinione pubblica. Sono forti 2 versanti del dibattito. Il primo è l’ancestrale rapporto con la terra, il bene primario che identifica il paese, la proprietà, la famiglia. Il secondo è la preoccupazione per l’uso delle risorse, della qualità del cibo, della sostenibilità delle coltivazioni, della violazione del rapporto con la natura.

I temi dibattuti vanno dunque oltre l’allarme contingente. In realtà più del 90% della terra è ancora in mani australiane – pubbliche o private – e le acquisizioni di terreni rappresentano soltanto una frazione irrilevante degli investimenti stranieri. Seppure raddoppiati tra il 2011 e il 2012, gli Fdi (foreign direct investments) nell‘Agricultural, Forestry and Fishing hanno raggiunto 1,3 mld $. La cifra praticamente scompare rispetto ai 230 mld nel settore minerario, agli 89 del manifatturiero e ai 70 del finanziario.

La motivazione reale del provvedimento va dunque cercata in altri ambiti, tra i quali prevale quello della stabilità politica. Il Governo conservatore di Tony Abbott è sempre più debole. In discesa nei sondaggi, rischia seriamente di riconsegnare il paese al Labour Party dopo una breve esperienza al governo. A stento è riuscito a superare un recente voto di fiducia. L’adozione di misure che colpiscano la mente prima ancora che il portafogli degli elettori è una soluzione a portata di mano. Il limite imposto agli acquisti di terra sembra infatti contrastare una presenza cinese che per l’ Australia è sempre più ingombrante. Tre paesi – Nuova Zelanda, USA e Cile – ne sono esenti.

Il provvedimento è dunque nei fatti un limite a Pechino, per questo stimola un dibattito forte. Da anni ormai la Cina è il principale partner commerciale dell’Australia (sia per l’import che per l’export), ma larghi settori dell’opinione pubblica e del governo considerano questa situazione come l’anticamera di una dipendenza mortale. La Cina ha effettivamente trainato l’economia australiana, ma la sovranità nazionale è stata negoziata, anche con la cessione di risorse minerarie e naturali. Ora il governo spinge sull’allarme perché sa che il timore dell’invasione cinese, della produzione di cibo adulterato sul proprio territorio, del saccheggio delle risorse è percepito in maniera diffusa. È ovviamente impossibile stabilire se la percezione sia in linea con la realtà; ma dagli antipodi ha origine un dibattitto strategico, perché riguarda tutti. Cosa fare del territorio, i limiti dello stato nazionale, la cessione di diritti per fini economici sono temi strategici, tra i tanti che l’ingombro della Cina ha costretto a trattare.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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