Banking-as-a-platform

Il dibattito sulla necessità di una transizione verso un nuovo modello di banking (e magari di banca) e di quale questo possa essere, è vivace e intenso come sempre avviene quando le questioni sono complesse. Per quanto le istanze di cambiamento siano coerenti con quelle di ogni altro settore dei servizi (tutti – nessuno escluso – necessariamente impattati dall’innovazione tecnologica), le azioni messe in campo dai nuovi player sembrano annullate dalla pervicace resilienza degli attuali protagonisti principali.

Ciò nonostante, considerazioni del tipo “il mondo degli intermediari finanziari sarebbe perfetto se…” non portano da nessuna parte perché davanti ai cambi di paradigma non c’è mai una direzione riconosciuta chiaramente come valida, nemmeno dai portatori di innovazione. Di conseguenza, non c’è la possibilità di “pianificare la migrazione” verso un nuovo sistema; occorre però gestire la costante pressione verso l’innovazione che proviene dal sistema (competitors + regulators) e del new normal richiesto dagli utenti.

In questo quadro, almeno per il momento, i nuovi player non sono riusciti a disintermediare il ruolo istituzionale delle banche. Complessivamente, i classici intermediari finanziari non sono (ancora) stati scavalcati e non c’è (ancora) un conseguente crollo dei costi – economici e non – di accesso al mercato. Stiamo piuttosto davanti al fatto che “Internet in realtà non ha eliminato gli intermediari, li ha solo cambiati”, come spiegavano French e Leyshon oltre dieci anni fa.

Forse quindi, si può parlare più appropriatamente di reintermediazione e lo stato dell’arte sembra davvero quello descritto da chi non crede che sia possibile una vera disruption, perlomeno non nell’accezione che se ne dà normalmente, quella di disruptive innovation così come teorizzata da Clayton Christensen:

A process by which a product or service takes root initially in simple applications at the bottom of a market and then relentlessly moves up market, eventually displacing established competitors.

(A proposito di Christensen: dopo quasi vent’anni dalla pubblicazione, c’è chi argomenta che la sua teoria non sia poi così praticamente utile…)

Non c’è una rottura del modello ma piuttosto una sua reinterpretazione nella quale il Fintech affianca l’industry tradizionale invece di disintermediarla o rimpiazzarla. Non posso a questo proposito non citare di nuovo Chris Skinner che sullo stato dell’arte non ha dubbi: “Fintech is changing nothing”.

Una nuova prospettiva

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Una delle critiche principali che gli incumbent muovono ai nuovi player è quella di essere molto bravi nello sviluppo di eccellenti interfacce utente per la gestione del rapporto con il cliente finale gestendo solo la parte più semplice e visibile del business, ignorando tutto il fardello di processi e procedure che rimangono dietro le quinte ma che costituiscono il vero “fare banca”.

La risposta, in sostanza, è che “da qualche parte bisogna pur iniziare” e che lo tsunami della disruption arriverà molto presto a colpire anche il core delle banche, difeso come un fortino perché – come scritto anche in questo post – il “fardello di processi e procedure” è l’unica barriera all’ingresso rimasta a dinosauri in via di estinzione.

Osservando lo stato dell’arte in maniera quanto più distaccata possibile, credo si possano individuare tre ostacoli che si frappongono ad una reale disruption del sistema:

  1. Le difficoltà tecniche che si incontrano nell’interfacciare tra loro nuove piattaforme, che lavorano peraltro nativamente con dati di flusso, con i sistemi legacy delle banche fondati, au contraire, su processi batch – che utilizzano quindi dati di stock – e architetture anni ’80. A questo si aggiunge l’enorme fardello dell’esigenza di essere compliant ad un numero sterminato di regole.
  2. Le responsabilità implicite che le banche – specialmente le più grandi – hanno nei confronti dei propri azionisti e stakeholder che, per vari motivi, preferiscono una crescita prevedibile (quando non l’utile certo a brevissimo termine) rispetto a percorsi di crescita a medio-lungo termine che comportano importantissimi investimenti su tematiche poco (o per niente) “comprensibili”.
  3. Le differenze culturali – spesso anche generazionali – che si vengono a creare quando si tenta una collaborazione tra soggetti (deliberatamente) conservativi e altri più snelli e con una concezione di “capitale di rischio” molto più aggressiva.

Come uscire da questo cul de sac? Magari passando da una competizione che sempre più assume gli aspetti di uno scontro, a una più interessante (per fornitori e clienti) forma di coopetizione, cioè quella competizione cooperativa che si instaura tra imprese concorrenti quando collaborano nella realizzazione di una specifica attività o fase del loro business. Risulta evidente che questa strategia acquista senso solo se consente ad entrambe le parti di condividere i costi comuni senza perdere il vantaggio competitivo individuale e questo, come osservabile, nell’industry finanziaria è obiettivo particolarmente complicato da raggiungere.

In questa prospettiva, la direzione da seguire pare essere tracciata dai tentativi di trasformare il core digitale delle banche da sistemi chiusi e malamente interfacciabili con l’esterno in piattaforme aperte anche a sviluppatori esterni, grazie all’introduzione dell’utilizzo di API.

Una API (Application Programming Interface – Interfaccia di Programmazione di un’Applicazione) è un insieme di procedure che permette a software diversi di comunicare e interagire tra loro, un’interfaccia aperta che consente, con relativa semplicità, di sviluppare applicazioni che fanno uso di uno o più componenti software di un sistema terzo rispetto al proprio. In estrema sintesi, e semplificando molto, il fornitore di un’applicazione (o di un processo o di una piattaforma) rende possibile l’accesso al proprio “prodotto” anche a sviluppatori terzi creando delle interfacce dinamiche (le API, appunto) pubbliche e documentate, che permettono a terzi di sviluppare altre applicazioni (o processi o piattaforme) basate, almeno in parte, sui contenuti elaborati dal fornitore.

L’utilizzo di API per interfacciarsi a una pluralità di sistemi è ormai di prassi comune in tutti gli ambiti dei servizi digitali: le piattaforme non hanno senso se fini a se stesse ma solo se interagiscono efficacemente con le altre, perché soltanto così si crea valore aggiunto per l’utente finale. Dato che non esistono due persone che abbiano gli stessi bisogni e interessi, l’utilizzo delle API consente, in un mondo di tecnologia di massa, di personalizzare il servizio per il singolo individuo.

E’ esattamente per questo motivo che questo approccio assume rilevanza anche nell’ambito della fornitura di servizi finanziari ma prima che gli istituti finanziari siano in grado di offrire un’esperienza di questo tipo, le banche e gli altri player istituzionali dovranno abbracciare un altro concetto: quello dell’architettura e delle piattaforme aperte. Un sistema basato sulle API presuppone, infatti, un’infrastruttura in grado di gestire dati di flusso di terzi, in entrata e in uscita, il tutto in un ambiente sicuro, protetto, regolato e documentato.

Di più: gli intermediari finanziari dovranno consentire ai clienti di condividere i loro dati con le soluzioni sviluppate da coloro che saranno più bravi ad intercettare – momento per momento – le necessità degli utenti, soggetti terzi che entreranno a far parte di un ecosistema dove i ruoli di cliente, partner e fornitore saranno meno definiti e fissi rispetto a quanto non avvenga adesso.

Le esigenze dei clienti crescono continuamente e per le istituzioni finanziarie diventa sempre più improbabile riuscire a soddisfarle tutte. I sistemi legacy datati e le altre “priorità concorrenti” limitano la velocità di risposta dei player tradizionali; questo vale soprattutto per le istituzioni più piccole, dove il costo può davvero diventare proibitivo.

Per questo, credo abbia senso il “movimento” che tra gli addetti ai lavori più evoluti sta prendendo piede: la creazione di uno standard di API tra diverse istituzioni finanziarie che consentono agli sviluppatori di terze parti di creare e integrare l’offerta di base dei servizi finanziari offerti dai player tradizionali. Da banking a banking-as-a-platform, appunto.

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Pubblicato da Simone Calamai

Da quindici anni si occupa di innovazione nel campo della distribuzione dei servizi finanziari. Appassionato di tecnologia, utilizza un Mac in attesa che esca il nuovo modello di ZX Spectrum. CEO @Fundstore ma su Piano Inclinato le opinioni sono tutte sue.

2 Risposte a “Banking-as-a-platform”

  1. Ho trovato interessantissimi tutti gli interventi di Calamai che da mesi sono intercettati da chi in banca vi lavora e si interessa di banking.
    Come finirà la storia non posso dirlo con precisione ma credo che sia sufficientemente chiara la direzione che il retail banking sta prendendo da anni (anche) in risposta a questo “nuovo che avanza”. Almeno in Italia il problema è avvertito come una competizione di costo è di intercettamento della clientela: le nuove piattaforme non hanno strutture fisiche né sportelli con tutti i conseguenti risparmi di struttura; entrano nel mercato sfruttando piattaforme tecnologiche di ultima generazione, mentre moltissime banche hanno ancora software prebellici; sfruttando anche il web e tutta una serie di dati sui clienti potenziali rinvenibili in rete, hanno potenzialmente tempi di risposta nettamente inferiori a quelli bancari.
    E se la competizione è di costo, le banche rispondono “razionalizzando”, cioèaaccordano sportelli, prepensionamento funzionari e impiegati di lunga e consolidata esperienza e smettendo di assumere (questo avviene già da un decennio per i maggiori gruppi bancari italiani, la perdita di conoscenze è un problema reale). Altra reazione è la “meccanizzazione dei processi”: l’impiegato inserisce la domanda del cliente ed è il computer a dire sì o no, èin pparecchi casi la sentenza è inappellabile. La perdita di professionalità dei retail bankers è un fatto che già si vede oggi con i nuovi direttori “in erba”, vere piaghe ignare di tutto ciò che non sia marketing. La filiale diventa un call center e smetterà di essere un centro di consulenza e servizi, i prodotti e i processi diventano altamente standardizzati e tanto nel retail Credit quanto nel retail investment i clienti saranno sempre più lasciati a sé stessi senza consulenza in un momento in cui prende piede la nuova normativa sulla Bank Resolution in caso di insolvenza.

    1. Analisi severa ma che condivido in gran parte. Ci sono tecnologie che consentono elevati gradi di flessibilità nell’ambito di una organizzazione più standardizzata dei processi. Per poterle governare però ci vuole consapevolezza tecnologica, un mindset difficilmente riscontrabile nell’ambito degli operatori tradizionali che spesso “meccanizzano” (cit.) invece di digitalizzare, con le conseguenze illustrate nel commento.
      Grazie per il contributo e per i complimenti.

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