The Boxer

 

Vito non capiva Milano.
Soprattutto non ne capiva la nebbia, il freddo grigiore che quel giorno di gennaio del 1972 li aveva accolti (come a voler subito mettere in chiaro che nulla sarebbe stato facile) quando erano scesi dal treno alla Stazione Centrale con le loro valigie.

Arrivavano da Peschici, un piccolo borgo sul Gargano.

La famiglia, composta dalla mamma Anna, dal papà Filippo e dal diciassettenne  Vito, aveva ottenuto l’assegnazione di un alloggio nelle case popolari del quartiere Gallaratese grazie all’aiuto di un parente facoltoso e bene introdotto in certi uffici pubblici.
Periferia di grandi isolati di edifici popolari, il comprensorio rappresentava uno dei tanti progetti sperimentali di edilizia economica milanese del periodo a cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta. Nato da un programma ambizioso che fu presto disatteso, divenne uno dei tanti “quartieri dormitorio” della periferia milanese, perlopiù popolato da immigrati provenienti dal sud dell’Italia.
Sempre in virtù delle conoscenze di quel parente, Vito ed il papà erano stati assunti allo stabilimento Alfa Romeo nella storica sede milanese del Portello , l’uno come operaio e l’altro come apprendista.
La mamma cercava di non darlo a vedere, ma pativa molto lo sradicamento da un ambito familiare popoloso ed avvolgente, costituito da nonni, zii e cugini che abitavano a poche decine di metri gli uni dagli altri ed insieme lavoravano: vivevano di pesca e di agricoltura, ma in quegli anni campare con queste risorse diveniva sempre più difficile, e molti giovani erano emigrati nelle grandi città del nord o all’estero in cerca di lavoro.
A Milano Anna si sentiva molto sola, e cercava di reagire alla malinconia quotidiana tirando ogni giorno a lucido il minuscolo appartamento e cucinando pietanze gustose per il pranzo in fabbrica dei due uomini e per la cena, che finalmente li avrebbe riuniti.

Era un lunedì qualunque di un aprile piovoso e freddo, un lunedì faticoso all’indomani di una inutile domenica trascorsa tra quattro mura che non si riesce, per quanto ci si sforzi, a considerare “casa”, perché “casa” è una dimora dell’anima ed è altrove.
La sirena aveva decretato la fine del turno mattutino, e Vito si era accomodato con il papà ad uno dei lunghi tavoli nella sala mensa dell’Alfa Romeo messa a disposizione degli operai, per consumare il pranzo preparato dalla mamma.
Sedevano accanto ai compagni di squadra di Filippo; Vito non legava con gli altri apprendisti perché era stato subito chiaro che il gruppo era diviso in due: da un lato alcuni ragazzi che arrivavano dalla Comasina e menavano vanto di far parte dell’omonima banda capeggiata da Renato Vallanzasca, dal lato opposto tutti gli altri, che ne subivano le angherie ed i ricatti, non osando nemmeno segnalarle ai capi reparto che spesso si giravano dall’altra parte perché non volevano grane.
Perciò, Vito stava alla larga: e tuttavia, ciò non era bastato ad evitargli di essere preso di mira.

Finito di pranzare, Vito si alzò per andare a gettare i rifiuti e per riporre gli scaldavivande nell’armadietto, negli adiacenti spogliatoi. Stava percorrendo il lungo corridoio quando Beppe, il capo del gruppetto della Comasina, che sedeva sul lato esterno della panca, allungò all’improvviso una gamba in mezzo al passaggio.
Vito non poté evitarla, e rovinò a terra con tutto quello che aveva in mano accompagnato da un gran rumore di stoviglie infrante e dalle fragorose risate del gruppetto della Comasina.
Vito era un ragazzo mite, ma mentre cadeva a terra sentì che una rabbia furibonda stava esplodendo in un tripudio di colori da qualche parte, tra cuore e cervello.

Successe a quel punto un fatto strano: perché lo scorrere del tempo all’improvviso rallentò e tutti i presenti, in un silenzio teso, incrinato solo dalle risate dell’autore dello sgarbo, videro Vito rialzarsi agilmente, fare un piccolo giro su se stesso, volare con un unico movimento fluido verso Beppe, caricare il braccio sinistro e colpirlo al volto con un diretto potente e preciso che lo scaraventò  sul pavimento dall’altro lato della panca.
Da lì il tempo riprese a scorrere normalmente, e fu un gran casino: Vito guardava incredulo Beppe che strillava, con le mani sul viso che si sporcavano del sangue che gli colava dal naso, il papà era balzato in piedi e spostava lo sguardo sgomento dal figlio al suo capo reparto, che aveva assistito a tutta la scena.
E siccome il signor Luigi, il capo reparto, era un brav’uomo che si sforzava di essere giusto, si avvicinò a Beppe, lo tirò in piedi senza troppi riguardi e gli disse:

tu, due giorni di punizione a casa, senza paga. A partire da subito!

poi, rivolto a Vito:

“ e tu, da me in ufficio!”.

Vito non ebbe il coraggio di guardare il papà, abbassò il capo e seguì il signor Luigi.
Entrati in ufficio, il signor Luigi guardò a lungo il ragazzo. Vito era alto e forte, e dimostrava più dei suoi diciassette anni: aveva iniziato da bambino ad uscire in barca a remi, a lavorare nell’orto di casa e nei campi di meloni gialli dei nonni e a fare lunghe nuotate nel mare trasparente di Peschici.
Infine, parlò:

“dove hai imparato a tirare pugni in quel modo? in ogni caso, quel bullo meritava una lezione, e ti aveva chiaramente provocato”.

Vito era confuso.  Si era aspettato una lavata di capo, una sospensione o anche peggio: non sapeva che il signor Luigi, oltre ad essere capo reparto, era da anni un appassionato di boxe e faceva l’allenatore proprio nella palestra dell’Alfa Romeo. La stessa dove anni addietro aveva mosso i suoi primi passi il grande Sandrino Lopopolo.

“io…non so, di solito non faccio a pugni, ma mi sono sentito umiliato e ho reagito d’istinto. Mi scusi tanto…”

Il signor Luigi lo guardò di nuovo, assorto in qualche suo pensiero.

“tu hai un dono che potrebbe cambiare la tua vita. Da domani, alla fine del turno di lavoro vieni a cercarmi in palestra: incominci a tirare di boxe. Magari ti piace”.

https://youtu.be/l3LFML_pxlY

Tirare di boxe: Vito non era sicuro che questa cosa gli interessasse davvero. La sera a cena ne parlò con i genitori e il papà si entusiasmò subito, gli sciorinò una sfilza di nomi di pugili tutti di umili origini, che erano diventati grandi campioni. E ricchi. E infine, non si poteva scontentare il caporeparto che era una brava persona. La mamma non era per nulla convinta, ma era abituata a non mettere in discussione le decisioni del marito.

E così, Vito iniziò ad allenarsi con il signor Luigi, tutti i giorni dopo il lavoro: cominciò con delle corse estenuanti al Parco Sempione, alternate a sessioni di pesi in palestra.

Dopo tre mesi, a Milano era scoppiata un’estate che senza il mare, i colori vividi ed i profumi fragranti del Gargano era priva di qualsiasi fascino e significava solo notti insonni per il caldo e asfalto che si faceva molle sotto le scarpe.   Fu allora che Vito affrontò per la prima volta sacco e punching ball, e presto il signor Luigi reputò che fosse pronto per salire sul ring.

Vito aveva appreso facilmente la tecnica; possedeva un’innata eleganza ed era veloce, nonostante rientrasse appieno nella categoria medi.  Si muoveva sul ring con le movenze aggraziate e con la fisicità di un ballerino ma aveva un diretto sinistro formidabile e colpendo il sacco sfogava tutta la sua delusione per una vita tanto diversa da quella che si era aspettato, e della quale inconsapevolmente si sentiva defraudato.
Se però si trovava ad allenarsi sul ring con un compagno stava molto sulla difensiva, nonostante gli incitamenti dell’allenatore: sembrava che avesse paura di colpire e faticava a guardare in volto l’avversario.

Eppure quel ragazzo era un talento naturale, il signor Luigi ne era certo. Quando alla fine dell’estate la  Doria, storica palestra cittadina di pugilato in via Mascagni, organizzò degli incontri per dilettanti aperti a tutte le palestre milanesi, reputò che per Vito fosse il momento giusto e lo iscrisse.
Appresa la notizia, il papà si emozionò e ne fu orgoglioso; la mamma continuava a pensare che non le piaceva che il figlio praticasse uno sport che considerava violento e insensato, ma come al solito tacque.
In cuor suo Vito la pensava come la mamma: nonostante tutti i discorsi che il signor Luigi gli faceva quotidianamente sulla nobile arte, lui faticava a colpire duro un poveraccio che non gli aveva fatto niente: non ne capiva il senso o non lo accettava, e nemmeno il pensiero di probabili guadagni era una motivazione sufficiente.
Il signor Luigi, che era un brav’uomo ma era anche capace di leggere l’animo umano, tutto questo lo aveva capito: ciononostante voleva levarsi la soddisfazione di vedere quel ragazzo impegnato in un combattimento vero, almeno una volta.  Così mise in atto un innocuo artificio.

La domenica mattina in cui si sarebbe svolto l’incontro, Vito fu più volte tentato di dire all’allenatore che voleva ritirarsi, ma non ebbe il coraggio di deludere lui e suo padre, che sedeva tra il pubblico. La mamma non aveva voluto venire.
Quando fu il suo turno, una voce all’altoparlante annunciò:

“ Palestra URSUS contro Palestra ALFA ROMEO, categoria medi”.

Il signor Luigi lo accompagnò sul ring dove lo preparò, gli ripeté alcune indicazioni di carattere tecnico e concluse dicendogli:

“io sono qua sotto, ascolta quello che ti dirò, se sarà necessario. E decidi se vuoi fare il pugile o la ballerina”.

Vito si sentiva la bocca asciutta, il paradenti gli dava fastidio ed il pubblico intorno al ring lo metteva in ansia e in imbarazzo: ma ormai era lì, e venne il momento di portarsi al centro del ring per incontrare il suo avversario.
….che, grazie alla piccola forzatura messa in atto dal signor Luigi, era Beppe, il quale si allenava alla Ursus di Viale Umbria.
I due ragazzi si guardarono con il medesimo stupore dipinto sul volto: Beppe era all’oscuro quanto Vito dell’accoppiata concordata tra i due rispettivi allenatori.
Poi, i due sfidanti si scambiarono il saluto e l’arbitro annunciò l’inizio del match.

La danza ebbe inizio, i due ragazzi incominciarono a saltellarsi attorno, studiandosi. Beppe partì con una strategia di disturbo, con una serie di jab poco incisivi, e tentò poi un diretto che Vito riuscì a schivare senza sforzo. Ebbe però modo di cogliere lo sguardo di Beppe, e vi lesse una ferocia sproporzionata, un odio devastante, una determinazione distruttiva.
Questa percezione lo  turbò e lo  distrasse, un gancio destro andò a segno e fece male. Vito finì al tappeto con le orecchie che ronzavano e un sapore ferrigno in bocca.

“uno, due, tre….”

Il pubblico faceva rumore, batteva i piedi, fischiava.

Vito si rialzò.   Fine del primo round. Beppe lo guardò sogghignando.

Nell’angolo, il signor Luigi fece quel che doveva in silenzio; prima di scendere dal ring guardò Vito e disse:

“ricorda: pugile o ballerina”.

Secondo round.
Beppe partì subito all’attacco avventandosi su Vito, che colse nei suoi occhi – ma in verità in tutto il suo corpo – un istinto omicida non più mediato da alcuna razionalità.
Fu allora che qualcosa scattò nella sua mente: forse fu semplicemente istinto di sopravvivenza, perché si rese conto che se oltre a pugile o ballerina ci poteva essere una terza scelta, il presupposto fondamentale era  scendere vivo da quel maledetto quadrato.
Sentì la voce del signor Luigi che urlava:

“alza la guardia! Allontanati e poi riparti in attacco!”

Gli diede retta. Vito era più rapido e più agile del suo avversario, ed era più intelligente. Soprattutto, non essendo condizionato da istinti brutali, poteva concentrarsi sulla tecnica.
Dopo un paio di finte, studiate per confondere Beppe, lo colpì con un micidiale diretto sinistro al quale l’avversario non era preparato e che lo atterrò come se fosse stato una bambola di pezza.
Dal pubblico si sollevò un boato mentre l’arbitro, inesorabilmente, contava, chino su Beppe che restava al tappeto privo di sensi.

“…nove…dieci. Vince per ko tecnico…”

Da lì in poi, Vito fu in balia degli eventi. Il gong decretò la fine del secondo round e anche del match.

L’arbitro si avvicinò a Vito e sollevandogli il braccio lo proclamò vincitore dell’incontro, e mentre il signor Luigi sorrideva soddisfatto, perché non si era sbagliato sul talento di quel ragazzo,  il papà scavalcò le corde e salì sul ring per abbracciarlo.

Vito continuò a lavorare all’Alfa Romeo, continuò a tirare di boxe con il signor Luigi ma non volle più partecipare a nessun incontro.

Il signor Luigi aveva avuto ragione, la boxe gli aveva cambiato la vita, poiché lo aveva reso consapevole del suo coraggio e delle sue risorse e  fiducioso che avrebbe saputo affrontare le sfide che la vita gli avrebbe proposto.

Si iscrisse ad una scuola serale, si diplomò in ragioneria e fu trasferito negli uffici amministrativi, nella nuova sede di Arese (la sede al Portello era nel frattempo stata dismessa). Si sposò ed ebbe due figli, e tutte le estati trascorreva le vacanze con la famiglia a Peschici.

Non si pentì mai di avere optato per la terza scelta, perché per nulla al mondo avrebbe più voluto leggere negli occhi di un uomo che gli stava di fronte la cattiveria ottusa che aveva visto negli occhi di Beppe.
Perché aveva anche capito che il mondo è pieno di Beppe, e non è il caso di affrontarli tutti.

https://youtu.be/M52rHg9sc80

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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