Colson Whitehead e l’umanità sotterranea che prevale sul male

Colson Whitehead

L’autore di oggi ha vinto ben due Pulitzer per la narrativa ed è l’unico romanziere ad aver conseguito questo risultato con due romanzi consecutivi; anche se noi delle #LettureInclinate non siamo inclini (scusate il gioco di parole) a privilegiare gli autori solo per il numero di premi vinti (non parliamo poi del Nobel per la Letteratura…), beh, non ci pare un risultato trascurabile.

Colson Whitehead è nato a New York nel 1969 ed il primo Pulitzer l’ha vinto col romanzo di cui trattiamo oggi, scritto nel 2016, e cioè La Ferrovia Sotterranea (BIGSUR, 2017, pagine 376, Euro 14,90); su questo libro, il New York Times ha scritto che

“con la sua pubblicazione, Whitehead, che si era accomodato nella sua nicchia di strambo autore con eclettiche preoccupazioni, è diventato un’icona letteraria”.

Vediamo di inquadrare un attimo quest’uomo afroamericano, dai lunghi dreadlock neri, dal “sorriso acuto e disarmante” (sempre il Times): si tratta di un “giovane”, che arriva sull’onda lunga di una generazione di grandi narratori, come Jay Mcinerney (1955), Jonathan Franzen (1959), David Foster Wallace (1962), Michael Chabon (1963), a loro volta eredi di altri mostri sacri, come Paul Auster (1947) o tutti i grandissimi nati negli anni Trenta (da Roth a De Lillo, da Talese a Updike).

Colson Whitehead ha già scritto otto romanzi, oltre a due opere non-fiction e, come abbiamo visto, La Ferrovia Sotterranea si colloca ad un punto di svolta della sua carriera, la quale si caratterizza per una notevole versatilità: il nostro ama ambientare le sue storie nella città, agli Hamptons, nella società di oggi, ma non disdegna, come vedremo, di mettersi a studiare e cambiare completamente lo scenario, raccontando, in maniera romanzata, pezzi di storia americana (lo ha fatto anche con l’altro Pultizer, I Ragazzi della Nickel).

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E’ così che nasce La Ferrovia Sotterranea: Colson affronta un tema che naturalmente, da afro-americano, gli sta a cuore e lo fa con un taglio attento, da cronista e da storico, che ricorda il genere non-fiction novel (come quelli scritti da Truman Capote e Gay Talese); per raccontare l’avventura di due schiavi, Cora e Caesar, la loro fuga in piena epoca schiavista per il Sud degli Stati e la rete di abolizionisti che volevano sabotare lo schiavismo sudista, Whitehead inventa una ferrovia sotterranea, un espediente narrativo totalmente fictional, che però gli consente di farci assistere a qualcosa di davvero originale: un viaggio nei vari Stati americani e nel diverso modo con cui ognuno ha affrontato l’orrore dello schiavismo, dai tentativi di integrazione della Carolina del Sud alle esecuzioni di piazza della Carolina del Nord.

La storia parte dalla piantagione dei Randall, in Georgia, dove conosciamo Cora, la protagonista assoluta di questo racconto, figlia di Mabel, che a un certo punto era riuscita davvero a fuggire, lasciando la figlia con un senso di abbandono, come se non bastasse la sua condizione. Qui incontriamo i due fratelli Randall, i padroni della piantagione, inizialmente separata in due parti, uno più violento dell’altro, e conosciamo le abitudini degli schiavi, la casupola dove Cora vive con altre donne (l’Hob), il piccolo appezzamento, qualche metro, dove la ragazza fa crescere degli ortaggi (unico suo avere).

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Whitehead usa uno stile narrativo piano, realistico, come fosse un reportage asettico, ma poi, improvvisamente, ci fa sprofondare nell’orrore. Ecco un esempio, quando i Randall sentono i loro schiavi intenti ad una festa e vi si recano:

“I fratelli Randall, usciti dalla casa padronale, erano lì in mezzo a loro. Gli schiavi si fecero da parte, calcolando quale distanza rappresentasse la giusta proporzione di paura e rispetto. […] James somigliava alla madre, grossa come un barile e altrettanto rigida nel contegno, mentre Terrance aveva preso dal padre, alto e col viso da rapace, sempre sul punto di avventarsi sulla preda”.

I due sono alticci, hanno bevuto; Cora, la nostra protagonista, annota:

“Cora cercò il viso di Caesar nella folla, non lo trovò. L’ultima volta che i due fratelli erano comparsi insieme nella parte settentrionale della piantagione lui non c’era ancora. Conveniva tenerle bene a mente, le varie lezioni che si imparavano in quelle circostanze. Quando i Randall si avventuravano fra gli alloggi degli schiavi succedeva sempre qualcosa. Presto o tardi. Una cosa nuova, che non potevi prevedere finché non ti capitava fra capo e collo”.

La narrazione procede:

“James non rivolgeva mai la parola ai suoi negri, che erano stati allevati a suon di frusta a continuare a lavorare anche in sua presenza.”

E Terrance? Eccolo, ed ecco l’incedere del racconto verso il male:

“Quelle del fratello si accontentava di guardarle, mentre fra le donne della propria metà brucava con grande appetito. <<Mi piace assaggiare le mie prugne>>, diceva Terrance aggirandosi fra le capanne per vedere cosa stuzzicava le sue voglie. Violava i vincoli di affetto, a volta facendo visita alle coppie di schiavi la prima notte di nozze per mostrare al marito come ottemperare ai suoi doveri coniugali. Assaggiava le prugne, ne rompeva la pelle, lasciava il segno”.

Ma procediamo. Un ragazzino fra gli schiavi macchia la camicia candida di Terrance e capita quel che potrete immaginare; e forse qui, già dopo cinquanta pagine di questa storia, siamo in grado di distillarne il senso poetico, che in fondo riguarda anche oggi tutti i neri d’America: la difesa della loro umanità.

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Cora fa da scudo al ragazzo (Chester), si immola, la sua umanità prevale:

“Aveva visto uomini impiccati agli alberi e lasciati in pasto agli avvoltoi e ai corvi. Donne scarnificate fino all’osso dal gatto a nove code. Corpi vivi e morti bruciati sul rogo. Piedi tagliati per impedire la fuga e mani tagliate per porre fine ai furti […] Quella sera la sensazione le scese di nuovo sul cuore. Si impadronì di lei, e prima che la sua parte schiava potesse riagguantare la parte umana Cora era già china sopra il corpo del bambino a fargli da scudo”.

LA PERVASIVITA’ DEL MALE

La presenza del male, del dolore, della tortura, della sofferenza è una specie di filo conduttore di questo romanzo: è quel male necessario a liberarsi, a diventare uomini e donne, e non oggetti, o “cucciolate che si vendevano come il pane”.

Seguiamo quindi Cora nel suo viaggio verso la libertà, la storia diventa avventurosa, siamo spesso on the road: lei arriva ad un certo punto ad integrarsi in una città (senza nome) della Carolina del Sud, dove c’erano leggi più permissive, ha un alloggio, un impiego, ma poi deve riprendere la sua fuga dal terrificante Ridgeway, il cacciatore di schiavi dei Randall, che andava a riacciuffare le “proprietà” dei suoi committenti.

Allora Cora riprende l’ideale treno sotterraneo e arriva a nascondersi in una soffitta in Carolina del Nord, dove, da uno spiraglio nelle assi, assiste al terrore puro, alle esecuzioni per strada, ai rastrellamenti e alle violenze più gratuite.

Colson Whithead non fa sconti e la sua storia ci racconta una parte importante della storia americana di quel tempo. “Ho deciso di non aderire alla storia, ma alla verità” ha dichiarato il nostro in questa intervista. Ecco, la verità: anche se la verità è orrore, è giusto comunque saperla.

Per chi volesse il libro è disponibile anche in versione audiolibro oppure potete guardare la serie TV tratta dal libro

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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