Economia italiana disarmata, Confindustria non alza i pollici

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Fin dai tempi degli antichi Romani il gesto del pollice in alto significa approvazione mentre il “pollice verso” segnala condanna. La coppia di leader di Confindustria, Giorgio Squinzi ed Aurelio Regina, da diversi giorni ha virato con decisione la direzione dei propri pollici, segnalando con enfasi crescente un giudizio a “pollice verso” per il governo di Enrico Letta e per lo stato in cui si trova l’economia italiana.

Pochi mesi fa Squinzi e Confindustria erano esplicitamente a fianco del governo nell’annunciare la prossima fine della recessione ed i prodromi della ripresa, ancorché debole.

Da quando però esiste concretamente l’opzione Renzi, sembra che le cose abbiano preso un’altra piega.

Ad esempio oggi Aurelio Regina, numero due di Confindustria, dalle pagine di Repubblica sgancia un bel siluro:

“Occorre una forte terapia d’urto. Non c’è più tempo per sperimentare, qui sta cambiando la struttura dell’economia: negli ultimi 5 anni abbiamo perso 9 punti di PIL, la ricchezza per abitante è diminuita del 12%, i consumi dell’8%, la produzione è scesa del 25% e la disoccupazione è più che raddoppiata. Serve una scossa, non un ampio progetto.

L’idea di scossa riguarda pochi punti, a partire dal taglio del cuneo fiscale, un intervento fondamentale vista la sua doppia valenza: alleggerisce il carico delle imprese e aumenta la busta paga dei dipendenti. Il rilancio degli investimenti pubblici: ci sono soldi già stanziati per opere cantierabili, cosa aspettiamo? Tutto questo è attuabile anche in tempi stretti e con poche risorse perché basta individuare le priorità. Se conosci il problema e non intervieni, o ti manca il coraggio o la leadership.

Per quanto riguarda Enrico Letta, noi non siamo pro o contro il suo governo, siamo solo molto preoccupati che si parli solo di rimpasto o cambio al vertice e non si capisca che qui, se non si procede con urgenze, rischiamo di perdere la nostra base industriale con conseguenze durissime sullo stato sociale”.

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Appare chiaro che sta aumentando l’irritazione per il temporeggiare continuo di un governo che punta tutto sul concetto di stabilità, e che viene sempre più facilmente percepita e descritta come semplice “inazione“. Un governo che non agisce per non perdere il già frastagliato supporto parlamentare, ma che così facendo non aiuta il Paese. Confindustria intravede la possibilità di un governo più forte, più interventista (e probabilmente anche più amico) e inizia a premere forte per il cambiamento.

Oggi Squinzi, durante il suo intervento in occasione del Mobility Conference 2014, ha sparato ancora:

“Confindustria ribadisce quotidianamente che la crisi, che ancora non ci abbandona, offre l’opportunità per un diverso tipo di sviluppo economico, più intelligente e sostenibile. Questo vale anche e soprattutto per il settore delle infrastrutture, dove le inefficienze sono strutturali e i ritardi, oggi più che mai, inaccettabili.

In Europa ricominciare a crescere si può, ma solo correggendo le strutturali inefficienze dei sistemi economici degli stati membri. L’Unione europea ha finalmente ridato all’industria il ruolo e la considerazione che le sono propri.  Ma promuovere l’industria significa mettere in condizione gli imprenditori di fare bene il loro lavoro, comprendendo e sostenendone le scelte di innovazione, modernizzazione e qualificazione”.

Parole molto dure che fanno seguito alle dichiarazioni di Livio Romano, Centro Studi di Confindustria, dei giorni scorsi:

“In Italia la politica industriale è tuttora assente. Ma per rimanere al passo degli altri, il Paese deve individuare le idee di cambiamento, nei bisogni della società e nelle tecnologie, e costruire intorno ad esse una strategia di intervento che, con un approccio di sistema, massimizzi le potenzialità del suo tessuto produttivo. L’evidenza internazionale non lascia dubbi: in tutte le principali economie avanzate esistono piani strategici, di medio-lungo periodo, a supporto dell’industria, che passano anche attraverso l’individuazione selettiva di aree di intervento ritenute chiave per la crescita.

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I principali strumenti a disposizione dell’intervento pubblico sono

  • il public procurement tecnologico
  • il finanziamento diretto della ricerca scientifica
  • la creazione di infrastrutture di supporto
  • la promozione della formazione tecnica e la regolamentazione.

In particolare, le best practice indicano che la certezza e la continuità nell’erogazione dei fondi, la loro condizionalità al raggiungimento di obiettivi intermedi, nonché la trasparenza nei criteri di assegnazione dei bandi pubblici e nella valutazione dei risultati sono elementi imprescindibili per una buona politica industriale. È inoltre necessario che la politica industriale sia condotta a livello nazionale, evitando quindi la dispersione e l’accavallamento delle iniziative tra gli organismi pubblici posti a vario livello nella gerarchia istituzionale”.

Il fuoco incrociato da Confindustria al governo trova supporto anche in Nomisma, che nei giorni scorsi ha commentato, con le parole del capo economista Sergio De Nardis, i dati Istat sul mercato del lavoro:

“I progetti di riforma per abbattere segmentazioni e rigidità del nostro mercato del lavoro rischiano di non dare i frutti attesi. Abbiamo bisogno di una decisa ripresa della domanda aggregata come precondizione per realizzare con successo le riforme strutturali.

La pubblicazione del dato Istat su occupati e disoccupati consente di tirare qualche consuntivo sul deterioramento del mercato del lavoro nell’ultima recessione: tra l’avvio della caduta produttiva nel secondo trimestre 2011 e il quarto trimestre 2013, quando presumibilmente il PIL è tornato a crescere, la flessione netta di occupati è stata di oltre 670mila. Dato il contemporaneo aumento demografico delle forze di lavoro, la crescita della disoccupazione è stata anche più forte e pari a 1,2 milioni di persone.

Queste dinamiche così negative non sono state determinate da un peggioramento nei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro, ma sono state interamente causate dal calo dell’attività produttiva indotta dalla contrazione senza precedenti della domanda interna. La caduta nei flussi netti di occupazione si spiega con la riduzione di posti di lavoro, divenuti scarsi e razionati. Di ciò si deve tenere conto nella definizione delle politiche per l’occupazione”.

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La soluzione? Chi ha le caratteristiche di presentare per l’Italia non solo delle manovre tampone di riaggiustamento, ma anche un progetto industriale di medio-lungo termine? Chi ha delle idee e l’energia di attuarle, travolgendo se necessario l’ordine precostituito delle sovrastrutture politiche esistenti? La risposta non esplicita per tutti è quella di far andare il rottamatore Matteo Renzi a Palazzo Chigi, ma qui si alza qualche sopracciglio.

L’ultima volta che l’Italia ha visto formarsi un governo espressione di una volontà popolare era il maggio del 2008. Quel governo cadde a novembre del 2011, sotto le pressioni dei mercati finanziari, mandati in agitazione in estate dalla perdita del rating AAA da parte degli USA. Il seguente governo tecnico e l’attuale governo di larghe intese rappresentano delle “gestioni di emergenza”, è molto discutibile che a Matteo Renzi -considerata la sua età ed il patrimonio di consenso politico di cui gode- convenga andare a Palazzo Chigi senza passare dal voto. Verrebbe presto accumunato dalla retorica dei suoi avversari politici a Monti e a Letta, in poche parole rischierebbe di bruciarsi.

E forse per alcuni dei suoi più animosi sostenitori del momento, il vero obiettivo è proprio trovare il modo di “bruciare” la sua scomoda candidatura.

Per trovare indicazioni esplicite, nomi inclusi, dobbiamo uscire dall’orbita di Confindustria e sentire -per esempio- gli economisti di Unicredit:

“L’Outlook 2014 prevede per l’Italia una crescita modesta del PIL dello 0,7% nell’anno in corso. Il mercato del lavoro è più indietro in termini di timing e ci attendiamo che la contrazione dell’occupazione continui nel 2014. Siamo più pessimisti, ma è proprio l’occupazione l’anello mancante per una ripresa.
In quest’ottica, il Jobs Act del segretario del Pd, Matteo Renzi, può essere senz’altro una strada per cercare di stabilizzare il lavoro con tutele progressive, eliminando la dualità che esiste tra il lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato. Inoltre, la riforma Fornero sulla flessibilità in entrata è stata solo abbozzata, pertanto si può fare di più. Inoltre, l’Italia deve puntare sulle liberalizzazioni e sul recupero della produttività”.

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Il candidato Renzi viene dunque invitato ad esporsi perché lo si possa colpire più facilmente o c’è davvero la convinzione che sia l’uomo giusto al momento, se non giusto, quantomeno opportuno?

Il solo nemico che Squinzi accetta di dichiarare apertamente è l’apparato burocratico. e cosa c’è di più renziano del desiderio di smantellare un apparato?:

“L’Italia è un Paese ormai da anni ostaggio di una burocrazia soffocante, che assorbe le energie vitali di imprese e cittadini e ne distoglie tempo e risorse da impieghi più produttivi. Attendere anni un’autorizzazione per avviare una nuova attività o per ampliare uno stabilimento vuol dire impedire a un’impresa di nascere e crescere, di creare nuovi posti di lavoro e contribuire al benessere di una comunità e del Paese. Vanno ridotti gli oneri burocratici nei settori più critici per chi fa impresa: lavoro e previdenza, salute e sicurezza sul lavoro, infrastrutture, beni culturali, ambiente, appalti, fisco. È un lavoro faticoso, sconosciuto ai più, che non finisce sulle prime pagine dei giornali, forse poco attraente, ma necessario se vogliamo avere un contesto concorrenziale con i nostri competitor.

Su ognuno di questi capitoli abbiamo elaborato negli anni proposte concrete. Molte continuano a fare la spola invano tra gli uffici ministeriali, bloccate da veti spesso immotivati e, quando li superano, finiscono per naufragare in Parlamento. È il caso del DDL di semplificazione adottato a giugno dal Governo e che da allora è fermo al Senato, o del DDL delega fiscale, che affronta i temi centrali della riduzione degli oneri e della certezza del diritto, che, nonostante le promesse, non è ancora diventato legge. Occorre fare di più.”

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Presidente Squinzi, riassumerebbe la sua posizione in una frase?

“L’auspicio è che tutti lavoriamo per invertire una rotta che, altrimenti, ci porterà prima alla deriva e poi al naufragio”.

Nella distanza fra questa dichiarazione ed i rassicuranti proclami di “ripresa in arrivo” di pochi mesi fa sta la dimensione della virata in corso. Una virata che, per motivi diversi, non fa dormire sonni tranquilli né ad Enrico Letta, né a Matteo Renzi, compagni di insonnia del crescente numero di italiani disarmati dalla Crisi e che hanno sempre meno voglia di dichiararsi a “pollice in su”.

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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

Una risposta a “Economia italiana disarmata, Confindustria non alza i pollici”

  1. Sottoscrivo. Poco importa chi attui il cambio di passo, Renzi, Caio o Sempronio. Parole d’ordine: cuneo fiscale, Irap, contratti non matrimoniali, giustizia civile, alleggerimento tasse sui mezzi di produzione.

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