Dietro il prezzo c’è di più

In questi giorni è abbastanza comune leggere commenti sul fatto che il calo del prezzo del petrolio è un bene per le imprese e i consumatori italiani, commenti accompagnati dal malcontento perché tale calo di prezzo non è riflesso nel prezzo finale alla pompa di benzina.

Non è mia intenzione entrare nel dettaglio spinto del perché l’equazione diminuzione grezzo=diminuzione prezzo è sbagliata, però almeno per sommi capi proviamo a fare un po’ di divulgazione:

  • Il trasporto si paga a tonnellata, indipendentemente dal prezzo del petrolio. Con i costi di assicurazione (ricordate i pirati?) che salgono sempre il costo del carburante per la navigazione (peraltro acquistato molti mesi prima con contratti semestrali o annuali) non si traduce in risparmio
  • La raffinazione costa al litro/kg, anch’essa indipendente dal prezzo del petrolio. Le raffinerie hanno avuto costi enormi di infrastrutture negli ultimi anni per adeguarsi a normative sempre più stringenti sull’inquinamento (meno male) e certo non hanno motivo di abbassare i prezzi anche quando sono di proprietà della casa petrolifera
  • Dalla raffineria il prodotto raffinato raggiunge (con altre navi più piccole, il cui costo è di nuovo indipendente dal costo del prodotto iniziale) i depositi dove costituisce le scorte del paese (per legge, 90 giorni di consumi) e questi depositi hanno costi indipendenti non solo indipendenti dal prezzo del prodotto ma addirittura correlati negativamente in periodo di discesa dei prezzi (quando esce dal deposito vale meno di quando ci è entrato).
  • I costi finali per andare dal deposito al distributore sono anch’essi al litro/kg.

Riassunto: il prezzo del prodotto grezzo costituisce mediamente (varia tra leggero o pesante) il 30% del costo del prodotto finito. Se quindi il petrolio diminuisce del 25%, il prezzo della benzina alla pompa diminuisce del 7,5%.

Passiamo ora alla parte più grave per il paese, quella dove le analisi troppo semplici possono produrre gravi danni di sottovalutazione dell’impatto della riduzione del prezzo del petrolio sul nostro paese.

A Firenze, S. Donato Milanese, Merate, Genova, Marina di Massa, Milano, Ravenna, Monfalcone e altre città hanno sede le centinaia di aziende che lavorano nel mondo dell’ Oil&Gas direttamente o come sub-fornitori e e contribuiscono a quella cifra di cui tutti si beano guardano “export macchinari”. Andate in una di queste città e parlate con i dipendenti delle aziende di cui sopra: sentirete che sono tutti molto preoccupati per il calo del petrolio.

Le aziende petrolifere hanno infatti dei “prezzi barriera” che sono applicati (internamente o nel contratto con il fornitore) agli acquisti di apparecchi e/o servizi. La prima barriera è per l’acquisto di apparecchiature complete (CAPital EXpenditure o CAPEX), la seconda per l’acquisto di servizi di manutenzione e relativi materiali (OPerating EXpenditure o OPEX) e la terza la sospensione totale. Quando viene raggiunto uno dei prezzi-barriera si attivano le procedure per sospendere o annullare uno o più ordini con i fornitori.

CAPEX

Petrobras assegnò il progetto P-56 nel 2007 quando il petrolio costava USD 90/barile dopo avere aspettato a lungo, chiedendo ai fornitori di aggiornare le offerte più volte, a causa delle preoccupazioni indotte del trend crescente dell’acciaio Inox, riferimento per le costruzioni offshore e quindi inserito come variabile nei contratti. Il numero di progetti di produzione di Gas Naturale Liquefatto (GNL in italiano o LNG nelle notizie internazionali) che sono stati cancellati è ingente e tra questi solo alcuni erano in competizione con lo Shale Gas americano e per ciascuno di essi sono decine le aziende italiane che hanno visto cancellare ordinativi importanti che non potranno essere sostituiti da altro perché nella quasi totalità dei casi sono aziende mono-mercato per la grande specializzazione richiesta e quindi resteranno in grave difficoltà fino a che il petrolio non torna oltre gli USD85 al barile. L’indotto italiano è quello che soffre maggiormente nel caso di annullamento degli ordini CAPEX perché non dispone di introiti dalla manutenzione e spesso ha solo 2-3 clienti e rimane quindi molto sofferente in questi casi.

OPEX

Quando non ci sono le risorse finanziarie per nuovi progetti è il momento di fare rendere al meglio quelli esistenti ed investire nel miglioramento dell’efficienza mediante manutenzione o piccole innovazioni, quelle attività che vengono generalmente definite Service. Le grandi aziende hanno sempre una divisione Service al proprio interno ed è questa che aiuta a bilanciare i periodi nei quali la vendita di macchinari nuovi langue, ma bilanciare vuole dire ridurre in parte gli effetti negativi, non certo annullarli. Nonostante i margini molto più elevati del Service (circa doppi di quelli dei macchinari nuovi per ragioni di maggiori costi e minore utilizzo) l’importo degli ordini è sempre di almeno un ordine di grandezza rispetto a quelli dei macchinari nuovi e quindi il fatturato dell’azienda ne risente in modo evidente.

SITUAZIONE ATTUALE

I livelli di prezzo ai quali sta scendendo il greggio sono però addirittura inferiori, per alcune major, a quelli della barriera OPEX e questo vuole dire la sospensione di qualsiasi ordine e l’esecuzione della semplice manutenzione straordinaria e con personale interno in caso di guasto. Se da un lato questo aumenta l’obsolescenza e permette poi una più veloce ripresa del CAPEX dopo che la crisi è passata, dall’altro colpisce duramente il mercato delle risorse umane che infatti nel mondo dell’ Oil&Gas sono una delle fonti di maggiore minaccia per l’età media molto sopra i 50 anni e il mancato ricambio dovuto ad una serie di fattori che, con buona pace dei suoi nemici, nulla hanno a che fare con l’articolo 18 e quindi non verranno rimossi con la sua eliminazione.

Gli effetti del calo del prezzo del petrolio si ripercuotono quindi negativamente su moltissime aziende italiane e l’effetto pratico (la mancanza del fatturato) è visibile solo dopo 9-12 mesi dall’evento. Questa è una delle ragioni per le quali chi analizza i dati dell’export italiano dovrebbe avere molta maggiore conoscenza del settore industriale in modo che la paternità delle variazioni riscontrate sia correttamente attribuita.

 

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Pubblicato da Carlo Muzzarelli

Nelle vene petrolio, gas e inchiostro, è socio fondatore di WeRISK e rappresenta l'Italia nelle commissioni ISO Gestione dei rischio e Valutazione delle conformità. Dal 1996 sconfigge ROI, NPV e l’equazione rischio=pericolo in progetti di ogni dimensione attorno al globo.

20 Risposte a “Dietro il prezzo c’è di più”

  1. Sulla differenza fra prezzi del petrolio e della benzina aggiungerei anche, tra le ragioni non evidenti ad un’occhiata veloce, che il prezzo del petrolio è in dollari, mentre quello della benzina lo vediamo in euro, e negli ultimi mesi -mentre il petrolio calava- il mercato dei cambi è andato in una direzione molto chiara.

    1. Commento molto giusto Andrea ma sempre riferito solo a poco più del 50% del prezzo: il greggio più i costi noleggio nave dai giacimenti. I costi di raffinazione per i prodotti destinati a ITA sono al 90% in Euro e così quelli di bettoline e cisterne quindi sul prezzo finale la variazione dovuta al cambio Eur/USD rimane sempre non così forte per le stesse ragioni

  2. Mi fai tornare in mente Max Gazzé “Chiedo venia trovo un po’ esagerato pagare tre volte un litro di benzina// sentirsi ridire con sorrisi di rame che sono costretti dal mercato dei cambi// ma andate a cagare voi e le vostre bugie” (La favola di Adamo ed Eva)

  3. Nel frattempo in USA il prezzo del gallone e’ passato da 3,7 $ a 2,4 $ per la cronaca in linea col prezzo del petrolio.
    Anche le azioni petrolifere hanno perso di pari passo ma apple continua a segnare nuovi record.
    😉

    1. Time flies and so do facts… Tutti i costi per il mercato USA sono in USD e nel loro caso i costi di raffinazione non sono aumentati perché le loro normative anti-inquinamento e simili sono molto più arretrate delle nostre. A questo va aggiunto che in USA ormai non importano più greggio e quindi il loro prezzo se lo fanno da soli. Questo permette una leva competitiva che noi in UE non abbiamo.

  4. Si certamente, ovvio….
    Metterei pero’ da parte le norme anti inquinamento valutando le accise tutte italiane forse.
    Comunque ora con 50$ faccio il pieno
    🙂

  5. Appunto, conveniamo entrambi che in Italia c’e’ qualcosa che non funziona…

    Fermo restando che nella panda ci sta poca benzina 🙂

  6. Qui sono piombata in un altro mondo. Accidenti a te, Bimbo Alieno! 🙂 (ho una giapponese Time Flies, sono una crucca)

  7. Time Flies: un 4000 serve solo a “tirar su figa” dalle mie parti. Ma io mi accontento della tua panda. Ci sta anche il cane.

  8. Tanta roba il Wrangler 😀
    Io ho una Lancia Delta 2.0 Mjet, 57 litri di serbatoio. Al distributore dietro casa il pieno completo costa 82 euro, ma in inverno colgo l’occasione dei fine settimana in montagna per farla in Francia 🙂

  9. Però, quando si sale, il prezzo della benzina viene “aggiustato” molto più velocemente e molto più che proporzionalmente.

    Il motivo risiede in parte sulla tipologia di contratti di acquisto e le modalità di stoccaggio/processo e in parte per un naturale meccanismo di psicologia umana 😉

    Cmq complimenti per il post.
    La situazione è proprio quella descritta.

    D’altra parte i dati IEA fanno vedere che lo shale ha prodotto almento un 1 mln/barili di surplus rispetto alla domanda…ma a costi elevati (il famoso “picco” che paradossalmente esiste oggi più che mai…ma è difficile far arrivare il messaggio).

    Il prezzo risalirà quando questo surplus sarà distrutto.

    Il tempo è una variabile importante.
    Più a lungo si ritarderà il recupero del surplus (e la caduta delle imprese che lavorano a basso price crunch) e più sarà dolorosa la risalita dato che il sistema sarà sempre più impreparato a rilanciare gli investimenti.

    sinbad

    Ps. visto l’expertise, ha da consigliare una fonte accessibile sul web sullo stoccaggio a mare (sui tanker) del greggio? Sarebbe molto interessante averlo in questo momento. grz

    1. Ciao sinbad: grazie per l’interessante nota e il commento positivo.
      L’unica fonte della quale mi fido ciecamente sulle flotte è http://www.koenig-cie.de .
      Se hai un account Twitter ti suggerisco di contattare @gianlucac1 che è sicuramente un esperto di trading mentre io lo sono solo di macchinari.

  10. Cari auguri agli italiani………….

    How Italy lost “La Dolce Vita” – from The Financial Time (Dec 5 ’14)

    by Simon Kuper

    You walk around Reggio Emilia and you think: this is paradise. Here, on a sun-dappled autumnal morning, was the paceless, impeccable life of a northern Italian provincial town. Well-dressed locals swarmed through ancient piazzas.
    But it was an illusion of paradise. That morning, the locals were swarming to Reggio’s giant open-air clothes market where prices started at 50 cents. New shoes cost €6. While Italy sinks, people keep up appearances.
    “Crisis” isn’t the word for Italy any more, says the British historian of Italy, John Foot. A “crisis” ends, whereas Italy just keeps declining, like almost no other developed country since 1945. Real incomes are now lower than 15 years ago. Over three visits to northern Italy this autumn, I’ve tried to understand how ceaseless decay changes the way a country lives.
    The “lost generation” of young Italians suffers most. They sit chatting on the steps of Bologna Cathedral, reluctant to spend €1 on a perfect espresso in a café. Italy’s demographic pyramid functions as follows: the old have nice pensions, the middle-aged are unsackable and the young fight for temporary contracts. A common situation: a highly educated young Italian performs menial tasks for a less qualified older boss, often for free.
    “It’s not like you can have life plans like having a baby or buying a house,” says Marianna Albini, a young writer. “If you have a contract for six months, you wonder if you should join the gym. What’s a career?” she laughs. But the new dispensation has upsides, she says. If you have no chance of a career, staying late in the office is pointless. Instead, younger Italians seek fulfilment outside work, in personal projects like blogs or evenings with friends, says Albini.
    Another solution: forfeit the good Italian life and emigrate. A banker’s wife told me of a recent party for Milan’s elite where almost everybody seemed to have sent their children abroad. When even the elite flees, there’s a problem.
    Many southern Italians are desperate. Transfers from the north have been slashed. But in northern families, hardship typically remains limited. Italian families have relatively little private debt. Many own their homes outright. Grandpa has his pension. Because few people are now having babies, families are dying out, which diminishes the need to save. So northern families slowly consume their wealth, and even the young get their share. Some 37-year-olds still live with their parents, in their childhood bedrooms, the generations clamped in a perverse unequal alliance. In one of Elena Ferrante’s novels, a woman wears her dead mother’s underwear, “much mended and with ancient elastic that showed here and there through the torn seams”. You wish this were only a metaphor.
    Older Italians often dismiss young people as “big babies” who won’t grow up. The writer Giuliano da Empoli told me that in fact it’s the older generation – incarnated by Silvio Berlusconi – whose shortsighted teenage self-gratification created today’s mess. Younger Italians, says Da Empoli, need great maturity to navigate the mess.
    Most young people don’t want much, says Gianni Riotta, a senior Italian journalist: just the simple Italian life of good food and drink, and a seaside holiday in summer. That’s the sogno italiano, or “Italian dream”, to borrow the slogan of a Reggio ice-cream parlour. Even an unambitious job for life used to buy you that. But young people cannot get jobs for life.
    The consequence: hopelessness. In an extreme version of the western condition, many Italians seem to believe in nothing any more. Reggio Emilia, for instance, has segued from communism to indifference. Disincanto, “disenchantment”, is Da Empoli’s national diagnosis. In Tommaso Pellizzari’s latest novel, a new nihilistic leader exhorts Italians: “Ask not what your country can do for you. It can do nothing, nothing at all.” The historian Paul Ginsborg, grappling for positives in Italy’s past 20 years, says that at least democracy hasn’t collapsed.
     . . . 
    Political passions are so exhausted that even Italy’s eternal right-versus-left domestic “cold war” has wound down. Not long ago, Berlusconi’s rants against “communists” still excited some rightists. Now, a hedge-fund manager so rightwing that he once supported South African apartheid confided to me that he’d voted for the centre-left prime minister Matteo Renzi.
    Renzi, famously, is 39, which in gerontocratic Italy is almost like being 14. Instead of waiting his turn for ever, he enacted a fantasy of young Italians: elbow aside the geriatrics and take over. Now he just needs to save Italy.
    The country has one last great asset: the Italian quality of life. “What is the hipster movement?” Erik Jones, of the Johns Hopkins School of Advanced International Studies in Bologna, asked me over another wonderful lunch. “Hipsters celebrate the excellence of everyday life. The Italians are the original hipsters in that respect.”
    Increasingly, they are flogging Italian living to foreigners. Pellizzari took me to the vast Milanese branch of the food market Eataly. Here’s a plausible future: Italy as Eataly, a food hall with some museums attached, a staging-post for Asian tour groups. Italy can undoubtedly do better than that but nobody I spoke to could quite see how.

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