Una donna tutta sola

La signora Erminia volse leggermente il capo verso la luce che si riversava nella stanza dai vetri dell’alto finestrone.

Il sole stava tramontando in un’impalpabile foschia dorata che incendiava il color ruggine delle foglie dei platani nel viale, dei quali riusciva ad intravvedere alcuni rami. Si sentì improvvisamente rasserenata: era ormai ora di andare, ed era pronta.
Diede uno sguardo a sua figlia, la quale se ne stava seduta da diverse ore accanto al letto in quella camera d’ospedale: leggeva, tranquilla e indifferente alla morte che aleggiava lì attorno.
L’anziana madre emise un lungo rantolo, e sentì il fiato farsi sempre più corto e faticoso. Sua figlia si era alzata e la osservava con espressione imperturbabile.
Aveva fatto quel che aveva potuto, la signora Erminia, era ora che Betta si arrangiasse: fu questo il suo ultimo, rassegnato pensiero.

Betta fu distratta dalla lettura nella quale era assorta da una specie di lungo raschio che aveva interrotto il respiro stanco ma regolare della madre e si alzò, appoggiandosi alle sbarre protettive del letto. Osservò il volto rinsecchito, i radi capelli bianchi, gli occhi infossati e chiusi, e assistette alla sua rapida dipartita con la distaccata curiosità con la quale quando era bambina era solita fissare lo sguardo sui pesci rossi che boccheggiavano dibattendosi debolmente per qualche istante prima di rimanere immoti sul ripiano del lavandino, quando toglieva l’acqua dalla boccia di vetro.
Si rese allora conto che era morta, e che questa era una condizione definitiva.
Suonò il campanello per chiamare l’infermiera, e pensando alla vecchia casa nella quale ora sarebbe rimasta sola ebbe una leggera vertigine.

La signora Erminia ed il signor Gilberto si erano spesso interrogati su dove e come avessero sbagliato con quella figlia: perché nel corso degli anni, vedendola crescere, avevano dovuto prendere atto del fatto che qualcosa in lei non andava.
Betta era arrivata ad allietare la vita dei coniugi Scotti quando oramai erano rassegnati a mettersi il cuore in pace: amata e vezzeggiata sin da subito come se fosse un immeritato dono del cielo, e già questo fu probabilmente un errore. Divenne presto una bimba graziosa e sana ma introversa e malmostosa, sempre con le lacrime in tasca ed il broncio a portata di mano. Non amava giocare con i suoi coetanei e trascorreva intere giornate chiusa nella sua cameretta.
I genitori si preoccuparono allorché si accorsero che discorreva sovente con un’amichetta immaginaria che chiamava Lea: il medico di famiglia consigliò agli affranti genitori uno psicologo, il quale tuttavia li tranquillizzò spiegando che si trattava di un fenomeno assai frequente e tutt’altro che preoccupante, segno anzi di fervida immaginazione e di volontà di relazionarsi, e destinato comunque a risolversi con la crescita. Li invitò  a favorire i contatti con altri bambini, cosa che si impegnarono senz’altro a fare, con scarsissimi risultati.

Gli anni sfuggirono via veloci, e Betta seguitò a sostenere lunghe conversazioni con un immaginario interlocutore: la signora Erminia poteva udirla parlottare dietro la porta chiusa della sua stanza, dove non vi era alcun apparecchio telefonico, quindi non potevano esservi dubbi sul fatto che parlasse da sola. Dapprima aveva pensato che studiasse ad alta voce, ma le era bastato sostare con l’orecchio appiccicato all’uscio per rendersi conto che non era così.

Betta faticò a prendere il diploma in ragioneria, e fu grazie alle conoscenze del padre, proprietario di un piccolo ma redditizio negozio di oreficeria in via Paolo Sarpi, che fu poi assunta come contabile negli uffici amministrativi della compagnia telefonica allora denominata SIP, in piazza della Repubblica.
Erano i frenetici, ingordi anni ’80, e il primo sabato che la ragazza, ormai ventenne, annunciò che sarebbe andata a ballare con alcune colleghe, la madre ritenne di doverle fare un imbarazzato discorsetto, al quale quella diede ascolto con la consueta espressione distrattamente annoiata dipinta sul volto piatto dalla carnagione pallida, e il cui senso era grosso modo “cerca di non buttarti via con il primo venuto”.

Molto tempo dopo, ripensando a quelle parole, alla signora Erminia era capitato di considerare che con quella raccomandazione non aveva certo inteso che la figlia dovesse conservarsi integra per la tomba: perché a trent’anni passati da un pezzo non vi era evidenza, né ombra, né sospetto non solo di un fidanzato, ma nemmeno di qualche amorazzo passeggero.
Le serate in sala da ballo con le colleghe del resto erano state velocemente accantonate e sostituite con una lunga, ininterrotta serie di sabati sera solitari al cinema.

Betta veniva generalmente definita come una ragazza “giudiziosa”, il che in un certo senso corrispondeva al vero. Il “giudizio” era infatti il parametro costante ed inappellabile che regolava le sue interazioni con gli altri, rendendole di fatto pressoché nulle: poiché il termine andava inteso non nella popolare accezione di “buon senso” o addirittura “morigeratezza”, ma bensì nel significato di “valutazione”, e l’autostima alimentata dai genitori e sorretta da una condizione sociale di modesto privilegio finiva col generare una severa quanto presuntuosa arroganza.
Di conseguenza, lo splendido isolamento di Betta era sostanzialmente attribuibile al fatto che nessuno di coloro che conosceva fosse alla sua altezza.

In quanto alle esperienze amorose, va detto che nel breve periodo nel quale aveva girato reggendo un bicchiere di cocktail colorato di blu nella penombra del Primadonna, discoteca situata in via Verri, le era capitato di invaghirsi di un tipo belloccio, sedicente studente universitario, il quale una sera si era offerto di accompagnarla a casa. Quando si erano appartati in un angolo buio Betta aveva sentito il sangue martellarle imperioso le tempie, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per spegnere quel languore bollente che le faceva sudare anche le mani. Il preliminare che spense all’istante qualsiasi bollore fu una frase mormorata nel buio dal tizio:

“…lo sai perché mi piacciono le bruttine? Perché per farsi perdonare di solito sono bravissime…quindi forza, fammi vedere cosa sai fare…”

Sfortunatamente, era disarmata.
Si ritrasse all’istante e gli chiese in tono gelido di accompagnarla immediatamente a casa: cosa che lo spudorato cafone non ebbe la compiacenza di fare, preferendo mollarla in via Mac Mahon da dove se la fece a piedi fino a dove abitava, in via Cenisio. Camminando trovò il modo di elaborare l’umiliazione patita metabolizzandola velocemente e relegandola in un angolo buio della mente.
Una volta a casa, si spogliò e si pose dinanzi al lungo specchio fissato all’anta dell’armadio: vi si rifletteva l’immagine di una ragazza alta, non proprio in carne ma di ossatura massiccia, la pelle bianchissima, il seno scarso, il punto vita indefinito sopra il ventre morbidamente tondeggiante, le gambe dalle ginocchia e dalle caviglie grossolane, i corti capelli castani, il volto largo dal naso sottile e leggermente storto, gli occhi di un azzurro slavato, la fessura sottile e dritta della bocca, contratta in un’espressione di perenne scontento.

Bruttina.

Ma Betta si era da tempo costruita attorno una solida corazza, e ciò che vide – ciò che si convinse di vedere – fu una giovane donna alta dalle forme proporzionate, sebbene non tanto femminili, dagli occhi azzurri e dalla bella carnagione diafana, che oltretutto aveva buon gusto nel vestire e poteva permettersi di scegliere capi di un certo tono. Non era una qualunque, lei, e non si sarebbe accontentata di gente qualunque. Piuttosto, sola.

E difatti sola rimase, sempre più arroccata nella sua sdegnosa superbia, senza cedimenti di sorta, nel velato sconcerto di genitori e parenti i quali tuttavia, conoscendone la suscettibilità, si guardavano bene dall’interferire.

Nel frattempo le stagioni si succedettero con implacabile regolarità, il signor Gilberto vendette il negozio perché a settantacinque anni si era stufato di stare chiuso tutto il santo giorno tra quelle quattro mura mentre fuori la vita scorreva, e morì poco dopo.
Il tempo depositò una patina opaca sulla pelle lattiginosa di Betta, la cui figura aveva nel frattempo assunto un aspetto matronale.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Fu allora che smise di contemplarsi al grande specchio dell’armadio, preferendo guardarsi con gli occhi della mente e della fantasia, quest’ultima costantemente corroborata dai romanzi letti con avidità nell’intimità della sua stanza, e dai film, piacere solitario consumato nel buio dei suoi sabati sera.
Aveva quasi cinquant’anni quando si imbatté in Facebook, spinta dalla curiosità suscitata dai discorsi dei colleghi. Scoprì un universo virtuale nel quale era possibile interagire con degli estranei senza immischiarsene più di tanto, senza alcun investimento affettivo, del quale peraltro non era capace, persino senza alcuna umana solidarietà, e soprattutto con l’agio di fornire una proiezione di sé essenziale e mediata.
Intuì che avrebbe potuto inventarsi un’identità e una storia: di fatto, una vita parallela e alternativa. Molto più intrigante di qualsiasi amico immaginario, sebbene molto simile.

Dapprincipio ebbe una percezione chiara della linea di demarcazione che separava il livello reale da quello fittizio, ma a mano a mano che lavorava sulla costruzione del personaggio che voleva interpretare finì per avvicinare, stemperare ed amalgamare i due ruoli, fino a sovrapporre a quello veritiero quello inventato, ben più appagante.
La donna che prese forma e vita sulla pagina Facebook di Lea Milano era una quarantenne spigliata ed indipendente, single per scelta ma con una vita sentimentale turbolenta che traspariva da certe affermazioni velatamente allusive. In quanto all’aspetto, non fu difficile reperire in rete ritratti di giovani e avvenenti donne dai lunghi capelli biondi e pubblicare particolari delle fisionomie di tali illustri sconosciute, le quali ben difficilmente avrebbero potuto riconoscersi in quei ritagli.

Scelse oculatamente le “amicizie” evitando i gruppi e dopo lunga ed attenta osservazione del contenuto di molti profili: ne considerò per lo più l’aspetto e l’età, individuando uomini e donne più o meno attraenti tra i quaranta e i cinquant’anni, la professione dichiarata, privilegiando quelle socialmente più qualificanti, l’interesse per il cinema e per le letture, argomenti sui quali poteva disquisire con cognizione di causa.
Il vuoto delle sue serate venne presto colmato e dissimulato da gradevoli conversazioni intrattenute con perfetti sconosciuti che si insinuarono nel suo quotidiano dandogli finalmente un senso compiuto, e coltivando tali conoscenze andò rafforzandosi sempre più il legame tra Betta ed il suo alter ego: fino a quando i due ruoli non si sovrapposero del tutto e quest’ultimo finì per prevalere.

La signora Erminia, sebbene ormai anziana e malandata, con la primitiva sensibilità delle madri aveva indistintamente percepito la singolare metamorfosi interiore della figlia e non aveva saputo decidere se rallegrarsene o preoccuparsene: benché fosse sempre sola e non frequentasse nessuno, e seguitasse a trascorrere le vacanze estive nella vecchia casa di Sanremo nella quale ormai andava da sola, aveva notato il suo atteggiamento più sicuro, quasi baldanzoso, e non si spiegava affatto il sorrisetto che talvolta aleggiava sul suo volto pallido. Se ne andò senza aver potuto risolvere il dilemma, ed infine rasserenata dal pensiero di non doversene più preoccupare.

Cadeva una pioggia fine e fredda il giorno in cui la signora Erminia fu seppellita al cimitero di Musocco. Betta osservò la bara di legno lucido che veniva calata nella fossa e si sforzò di ricordare il volto di sua madre quando era giovane e la sera si chinava su di lei per il bacio della buona notte: ma non vi riuscì. Si chiese quanto ci avrebbe messo il suo corpo a deteriorarsi lordando il raso color panna che foderava la bara, e mentre le prime palate di terra cadevano con un lieve fruscio sulla cassa pensò all’inutile spreco di quel mogano lucido e di quegli ottoni.

Salutati i parenti e gli amici che avevano partecipato alle esequie, ritornò all’austero appartamento in via Cenisio, quartiere Bullona, al terzo ed ultimo piano di un immobile d’epoca dalle finestre alte e strette, con le persiane in legno grigio che spiccavano sulla facciata tinteggiata in un caldo rosa salmone.
Aprì la pesante porta blindata e si guardò attorno: col tempo forse avrebbe fatto qualche cambiamento.
Entrò in cucina, aprì il frigorifero, e si rese conto di non sapere nemmeno per quanto dovesse bollire un uovo per divenire sodo: ma era una giovane donna intraprendente e dinamica, in qualche modo si sarebbe arrangiata.

Nei giorni successivi si scrollò di dosso con evidente fastidio il sottinteso compatimento dei colleghi, i quali ripresero presto a girarle alla larga.

Continuò a fare la solita vita e la morte della madre non entrò affatto nel suo mondo virtuale: in fondo, non riguardava quella persona, ma un’altra che ormai era sempre più inconsistente. Si era lasciata crescere i capelli e un giorno decise di schiarirli; modificò anche il suo modo di vestire, scegliendo un abbigliamento più colorato e meno classico, sostituì i mocassini e le ballerine con una serie di scarpe col tacco, tanto che le colleghe tra di loro spettegolarono sul fatto che dovesse avere finalmente un fidanzato.

Mancava poco a Natale quando uno degli amici di Facebook organizzò un evento coinvolgendo Betta ed alcune persone con le quali entrambi erano in contatto. Quando ricevette l’invito a “La cena per farli incontrare”, ne fu atterrita.
Quei profili divenivano ad un tratto persone reali, acquisivano spessore, corpo sangue e odore, e le veniva chiesto di uscire allo scoperto.
I due ruoli si scomposero bruscamente con uno strappo doloroso e Betta prese coscienza della fragilità della sua finzione.
Declinare l’invito? La relazione tra quelle persone si sarebbe trasferita su un altro livello, dal quale lei sarebbe stata esclusa, e nulla sarebbe più stato come prima.
Aderì all’evento, non avendo la minima idea di cosa avrebbe fatto.

Sono colorati e fin troppo festosi i Navigli nel periodo natalizio, ma in fondo durante tutto l’anno, da quando gli innumerevoli piccoli e grandi locali son diventati di moda e lungo queste sponde è sempre festa. Le case di ringhiera sono state ristrutturate insieme ai loro bei cortili e tinteggiate in colori pastello, la Darsena e il Vicolo dei Lavandai recuperati e lustrati e l’acqua scura del Naviglio scorre nel mezzo mormorando le sue storie, ed è tutto molto bello, certo, ma la languida, pervasiva malinconia che avvolgeva una volta certi vicoli e certi anfratti e che aveva qualcosa di magico è andata perduta: ora è tutto impudicamente luminoso ed accogliente.

Fuori aleggiava una nebbia impalpabile e luminescente e Betta era quasi decisa a non andare all’appuntamento ma poi le venne in mente che anche gli altri potevano aver barato, e si risolse ad uscire: perlomeno, avrebbe dato un’occhiata.
Si fece lasciare dal taxi in via Vigevano e proseguì a piedi per via Corsico.
Dopo tutto quel tergiversare era in ritardo e gli altri dovevano essere già arrivati. Passò davanti alla vetrina a fianco dell’ingresso del “28 Posti” e riconobbe subito le cinque persone sedute al tavolo sul fondo: perché erano esattamente come apparivano nelle foto, erano reali, esistevano davvero, vivevano nel mondo concreto e si raccontavano in un luogo virtuale.
Betta ristette ancora per qualche istante sul marciapiede, indecisa.
Poi, si voltò e si incamminò verso il Naviglio Grande: una donna tutta sola, intrappolata nell’alterigia con la quale da sempre cercava di negare la sua profonda insicurezza.
Era sabato sera, rifletté che faceva ancora in tempo a mangiare un panino da qualche parte e andare al cinema, come al solito. Entrò in un bar affollato e tremava, come se camminando l’umidità della nebbia le fosse entrata dentro, raggelandola a poco a poco.
Non c’era un tavolo libero ma non se ne curò, tutto quel vociare e quella mescolanza di profumi e di afrori le comunicava una piacevole sensazione di calore, e ordinò il panino aspettandolo al banco, issandosi sull’alto sgabello.

“…che serataccia umida”,

disse l’uomo prendendo posto accanto a lei, e Betta pensò che era una frase davvero banale ma si voltò e ne osservò il volto maturo, i folti capelli brizzolati e le mani forti dal dorso un poco screpolato. Lui sorrise, ed era un sorriso gentile che stampò una fitta ragnatela di rughe attorno agli occhi scuri, e quando le tese la mano

“…piacere, mi chiamo Armando”,

Betta abbandonò la sua in quella stretta ruvida e vigorosa, e all’improvviso pensò alla sua grande casa vuota e alla sua vita vuota e al peso schiacciante della sua fragilità. Udì distintamente lo schianto del crollo del castello di carte nel quale si era barricata e comprese che non era in grado di sopportare tutto ciò da sola. Così, dopo una breve esitazione rispose

“…piacere, io sono…Betta”.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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