L’economia è una scienza?

Che l’economia non sia un scienza sperimentale in senso stretto è noto da oltre 200 anni. Non è possibile fare esperimenti “in vitro” tanto per vedere come reagirebbe l’economia se si variassero certi parametri invece di altri, e l’alternativa sarebbe tentare di farlo nella realtà, a rischio di un po’ di macelleria sociale.
È questo il motivo fondamentale che ha condotto i primi economisti a riflettere sui metodi aperti al teorico per studiare questa scienza sociale. Tanto che la prima riflessione economica tocca argomenti importanti per la filosofia della scienza, e in particolare l’epistemologia, la sua branca dedicata all’analisi della conoscibilità dei fenomeni e ai metodi per farne efficace ricerca.
John Stuart Mill delineò un approccio speculativo che continua a influenzare (malgrado i suoi quasi 200 anni e i progressi di statistica e matematica) il modo in cui il pensiero economico viene elaborato e prende forma. Mill partì dalla considerazione che vi sono molteplici correlazioni e influenze reciproche fra fattori transeunti che rendono difficile capire le relazioni che governano l’economia, rendendo arduo l’approccio tipico delle scienze empiriche: raccogliere una gran mole di dati dalle osservazioni e poi dedurne una teoria.
Il confronto che Mill aveva in testa era con le grandi scienze della fisica e della astronomia, costruite su leggi universali e eterne, mentre è chiaro che quelle che governano i nostri sistemi socio-economici siano alla meglio transitorie, per cui secondo la sua opinione l’economia è destinata ad essere una scienza inesatta.
Mill risolse questo dilemma dell’economista aprendo ad un criterio metodologico che è tutt’ora utilizzato: gli economisti possono accedere direttamente alle cause dei fenomeni che stanno analizzando attraverso l’introspezione, cioè mettersi nei panni di un soggetto economico reale e chiedersi come e  perchè agirebbe in un determinato modo per raggiungere un certo obiettivo.
L’introspezione diventa un surrogato dell’esperimento controllato, e gli effetti ottenuti con tale “esperimento mentale” saranno poi confrontati con i dati reali. Da questo approccio discendono due considerazioni importanti.
La prima è che, secondo Mill, le assunzioni fatte sono corrette per il semplice fatto di essere prodotti dell’introspezione; lo step di verifica serve solo a capire se si sia trascurato un qualche ulteriore particolare. Poco è detto sulla verifica ex post della congruità delle assunzioni iniziali e la loro eventuale modifica.
E questo mi ricorda molto una vecchia battuta:

“se una idea funziona nella pratica, l’economista si chiede se funziona anche in teoria”

In secondo luogo, la metodologia milliana prevede di studiare le possibili cause suddividendole in categorie, analizzandole separatamente,e alla fine sommarne i risultati. Si ritiene cioè che, individuate le molteplici e anche differenti cause di un fenomeno economico (domanda/offerta, fattori geopolitici, andamento dei tassi di un’asset alternativo, etc..), si possa “sviscerare” una specie di “effetto puro” che ciascuna ha sul fenomeno studiato, tenendo ferme le altre (regola del ceteris paribus).
Non è allora un caso che la prevalenza dei modelli economici sia del tipo additivo sopra descritto, cioè ipotizzano relazioni lineari fra le variabili in gioco, del tipo: Y= aX +bZ -cR
L’additività ha il pregio di semplificarci la vita, ma siamo sicuri che le basi su cui è assunta siano così realistiche? C’è chi afferma che l’ipotesi sia meno restrittiva di quanto si pensi, io un pò di scetticismo lo conservo.

Soffermiamoci ora al primo punto. Mill non entra nel merito della verifica ex post della fondatezza delle assunzioni fatte, lasciando l’impressione che non sia fondamentale: importante è che il modello interpreti adeguatamente la realtà.
Non deve allora sorprenderci se gli economisti classici (quelli c.d. Marginalisti), della Sintesi neoclassica, neowalrasiani e monetaristi ci presentino modelli basati su assunzioni e ipotesi che non esiteremmo a definire irreali: concorrenza perfetta, agenti perfettamente razionali, onniscenti, massimizzatori dell’utilità individuale in barba a altruismo, incertezza, avversione al rischio e asimmetrie informative, ciliegina sulla torta prezzi flessibilissimi.
Ma quanta semplificazione e astrazione è lecita per rispettare il mandato epistemologico che la teoria sia un efficace e coerente strumento conoscitivo della realtà? Questa è la domanda cardine di questo primo articolo.
La filosofia della scienza chiama Strumentalismo le posizioni intellettuali di questo genere, in contrapposizione a quelle del Realismo. Per i primi non è importante che le ipotesi e le assunzioni del modello possano essere irreali, l’importante è l’utilizzabilità del modello e il suo potere predittivo del fenomeno studiato.
La storia ci fornisce diversi esempi di strumentalisti e realisti. Osiander, vescovo imprestato alla scienza, scrisse nel 1543 una famosa prefazione alla celeberrima opera di Copernico sui moti delle orbite celesti. Il prelato però cavalcò la nuova scienza celeste ma tenendo i piedi ben saldi su due staffe, presentandola come un utile e semplice strumento di calcolo (per la determinazione precisa delle date per la Pasqua e anche per la semina), ma sottolinenando che essa non avesse nulla a che fare con la vera struttura del sistema solare, che era e rimaneva geocentrica e tolemaica come i testi sacri sancivano. Forse fu solo più furbo del realista Galileo, perchè non deve essere stato facile essere scienziati nel Medioevo e pure nel Rinascimento, stretti fra il fuoco per la ricerca della verità e i fuochi della Verità, nel senso di quelli appiccati dall’Inquisizione.
Qualche secolo dopo, Einstein era realista per quanto riguardava la teoria della relatività, riteneva che veramente il suo modello imitasse il reale comportamento dell’universo. Eppure non riusciva a spiegarne alcuni misteri. Vi riusciva invece una teoria che a lui non garbava granchè, la meccanica quantistica, teoria che Einstein accettava/usava come utile strumento per capire certi fenomeni, benchè fosse in cuor suo restio a credere che l’universo fosse veramente così. Famosa fu la sua obiezione rivolta a Niels Bohr: “Dio non gioca a dadi”.
Anche in economia esiste la distinzione, e il relativo dibattito, accidenti! eccome che esiste (e qui anche un altro).
Friedman è il più classico degli esempi di teorico strumentalista, contrapposto a Keynes per esempio, che avrebbe scommesso la testa sulla vera verità del suo modello. In un saggio sulla metodologia della ricerca in economia il futuro nobel della scuola di Chicago presentò numerosi argomenti in sostegno della teoria secondo la quale la validità di un modello economico è tanto migliore quanto più è buono il suo potere predittivo, limitatamente al fenomeno studiato, ed è ininfluente quanto siano realistiche le assunzioni fatte.
E se guardiamo a certe assunzioni dei modelli classici e monetaristi non facciamo fatica a credergli. Eppure i modelli monetaristi funzionarono eccome, addirittura soppiantarono quelli keynesiani. Un economista classico sarebbe probabilmente pronto ad ammettere l’irrealtà di queste assunzioni, ma ritiene altresì che un modello economico troppo realistico sia anche troppo complicato e, paradossalmente, inutile a spiegare la realtà. La posizione di Friedman è sulla linea di quella analoga assunta 120 anni prima da Mill.

Cosa è possibile dire sulla diatriba “realismo/complessità vs strumentalismo/semplicità”? Molti modelli diventano arditi nel cercare relazioni complesse, realistiche e robuste con diverse variabili, ma come temeva Friedman diventano spesso poco maneggevoli e paradossalmente si “amortizzano presto”: dopo un pò non sembrano più in grado di prevedere nulla, suffragando la tesi popolare che gli economisti, secondo la definizione di M.Twain siano

CIT coloro che domani ti sapranno dire perchè la loro previsione di ieri oggi non si sia avverata END CIT

Pur senza venir espressamente menzionato, recentissimamente questo argomento è stato toccato nel dibattito che ha diviso O.Blanchard, P.Krugman, B.DeLong e altri sulla efficacia e utilizzabilità dei modelli econometrici DSGE. Senza approfondire, si tratta di modelli basati su una serie di forti, realistiche assunzioni circa il comportamento microeconomico degli agenti. Peccato che dopo venti anni di tentativi di sviluppo, alcuni ricercatori ne stiano svelando i limiti, che sono proprio quelli sopra accennati: la semplicità, l’utilizzabilità e il potere predittivo.
D’altro cantosi può anche essere strumentalisti ma non “ingenuamente”. Una storiella scritta dall’econometrista Haveelmo ci può aiutare a capire perchè: se sedessimo in macchina al posto del passegero, presto dedurremo una teoria che lega la velocità con la pressione che il piede dell’autista esercita sull’acceleratore. Questa nostra teoria ci permetterà di capire e prevedere molti fenomeni che accadranno durante il viaggio. Tuttavia non è un modello efficace: appena il motore, di cui ignoriamo tutto, si ingrippa, la relazione pedale-velocità sparisce, malgrado il conducente continui a premerlo a fondo… Insomma, pensate di stare in macchina con Draghi, Kuroda e la Yellen al volante.
Perciò avere una teoria che preveda il futuro non è sufficiente a garantire che io possa efficacemente intervenire nell’economia: devo avere comunque una profonda conoscenza dei fenomeni causali, basata su relazioni statisticamente robuste.

In conclusione, la complessità e il realismo delle assunzioni vanno bene, sono apprezzabili logicamente e esteticamente, ma poco maneggiabili dalla nostra matematica e dalla nostra capacità di gestire fenomeni intricatissimi e addirittura mutevoli nel tempo, quindi alimentano i dubbi. Tanto che il povero economista si trova a dover spesso “mettere le mani avanti” e frenare gli entusiasmi sulle sue capacità oracolari.
Il presidente USA H.Truman, per quanto digiuno di economia, se ne rendeva conto e per celia usava dire che gli sarebbe tanto piaciuto conoscere un economista con un braccio solo in modo da non sentirsi dire tutte le sante volte: “da un lato…..ma dall’altro”.
Anche a W.Churchill viene attribuita una battuta ai danni del buon John Maynard Keynes:

CIT se metti due economisti in una stanza avrai due opinioni, a meno che uno dei due sia Lord Keynes, nel qual caso ne avrai tre END CIT

Dall’altro lato la semplicità delle assunzioni è gradevole per il suo vantaggio divulgativo, di poter arrivare a molti e non solo a specialisti. Eppure anch’essa presenta da questo punto di vista dei rischi: benchè potenzialmente possa donarci modelli chiari e predittivi, rischia di alimentare le faziosità. Se ricapitoliamo quanto visto finora, diventa chiaro: se l’introspezione è la metodologia alla base della sperimentabilità della scienza economica, e la verifica ex post delle assunzioni così fatte è tanto più ininfluente quanto maggiore è la capacità predittiva del modello, allora è intuitivo capire che le assunzioni da cui si parte possono essere, e spesso sono, dedotte da pregiudizi del teorico (qui va inteso come pre-giudizio, fuori da ogni connotazione morale negativa).
Noi sappiamo quale è la fede che muove un economista classico: la fiducia che i mercati funzionino bene, che esista cioè una “mano invisibile” che pareggia le differenze, e che la proprietà privata e la libera iniziativa lavorino per essa, se lasciate fare. Il fatto, invece, che tali sciagurate differenze e attriti esistano, e addirittura persistano, sembra non significare per nulla che i mercati siano naturalmente non concorrenziali, bensì che esistano frizioni da eliminare che ne impediscono il naturale comportamento. Alla faccia della fede.
Ma anche un keynesiano della Sintesi è mosso da una incrollabile fede: che le relazioni che legano mercati purtroppo imperfetti e inefficenti siano tuttavia stabili, robuste e determinabili. Se così non fosse le sue ricette di demand management rischierebbero di essere a volte oculate altre volte arbitrarie.
Mi cadono frequentemente le braccia nel vedere con quale foga certi fan dell’economia brandiscono come armi di distruzione (dell’interlocutore) i modelli che par loro di aver capito, quando invece ne ignorano le assunzioni e le ipotesi. Ecco perchè faccio tanta attenzione e sono così tacchente nell’evidenziarle. Ma le estreme conclusioni di questo ragionamento le vedremo nel terzo articolo, la prossima volta faremo una chiaccherata con Karl Popper per sapere da lui se noi economisti siamo o no veri scienziati.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

10 Risposte a “L’economia è una scienza?”

  1. Molto interessante, la questione è decisamente attuale. In Italia ci troviamo in un momento in cui sia il governo che il parlamento ignorano come funziona una banca, ignorano cioè completamente la creazione di moneta (provvista) che la banca effettua dal nulla (DE NOVO) prima di fare un prestito (o altre spese…). D’altra parte il problema era ignorato anche dai tribunali fino a pochissimo tempo fa (vedi l’ordinanza recente del tribunale di Bolzano). Ignorare che le banche, anziché intermediari, siano fabbriche di moneta, cosa che non è evidente dalla conbtabilità bancaria, è un grave errore che induce ancor oggi, nel 3000, ad affermare – senza nemmeno sorridere – che le banche possano “fallire” .

    1. Sig.Saba, Le rispondo non per cortesia ma perchè trovo biasimevole il suo tentativo di trovare spazio per Lei, il suo blog sovranista e le vostre teorie su PianoInclinato.
      Il suo commento è totalmente off topic, e neppure sforzandomi riesco a trovare un collegamento con una qualunque frase da me qui scritta.
      La sua visione del meccanismo di creazione di moneta bancaria mi è estranea e la “linea editoriale” di questo blog la respinge.
      Trovi altri modi per farsi pubblicità che non coinvolgano questo blog e non ne stravolgano “pro domo sua” i contenuti.

      1. Caro “beneathsurface”, direi che perlomeno ho il coraggio di mettere la faccia dove metto bocca, al contrario di chi – vergognandosi preventivamente – ricorre ai nickname, ma pazienza. Ce n’era davvero motivo. Per quanto riguarda la pubblicizzazione di un blog sovranista, credo che anche qui si tratti di una svista tropicale. Esattamente come per la questione della creazione monetaria che, oltreché essere affermata da KPMG, buonultima, lo era già prima da Banca d’Inghilterra (il caro collega Michael Kumhof), dal Fondo Monetario Internazionale, da Standard & Poors, e da altri, tra cui il Prof.Richard Werner e il Prof.Antonino Galloni, allievo di Caffè. Ovviamente capisco di aver sbagliato “piano” e di aver peccato di sopravvalutazione nei confronti del vostro blog condito con vaghe e malriposte pretese accademiche. Vi lascio nel vostro brodo e buona continuazione.

        1. Tradotto per gli altri lettori: se l’autore del capitolo non capisce il legame tra il fatto che le banche non sono intermediarie, che la creazione del denaro non è neutrale, e che è proprio sottovalutando – o meglio, non considerando assolutamente – nei modelli questi fatti, non sia puntuale col fatto che i modelli sono irrilevanti nella realtà, è meglio che si legga l’ultimo paper di Paul Romer, almeno per far finta di aver capito di cosa parla.

          1. Sig.Saba, lo pseudonimo è una necessità in quanto quando ho iniziato questa attività di blogging scrivevo anche pezzi in “conflitto di interessi” con l’istituto dove lavoro.
            Il suo originario commento non è “off topic” bensì “particolarissimo”?
            Va bene, se a Lei piace vederlo così.. Continuo a ritenere il mio dubbio lecito: Lei non faceva alcun riferimento alla irrealtà (o eccessiva semplificazione) delle assunzioni dei modelli economici, bensì dava la fondata impressione di scagliarsi contro la politica e le sue scelte, citando noti fatti di cronaca, dalle cui beghe di fazione o partito mi piace tenere questa mia rubrica ben lontana.
            E’ inoltre notevole come un articolo possa essere interessante al primo commento, e l’autore un perfetto idiota al secondo. Si faccia un esame di coscienza e valuti se “per caso” non ha dato una impressione fuorviante del suo intervento scegliendo l’argomento e le motivazioni che Lei adduce, specialmente essendo nota la Sua attività.
            Saluti.

      2. Personalmente ritengo, invece, l’intervento del sig. Saba utilissimo alla comprensione di quanto esposto nell’articolo. Si parla di fede, di faziosita’ e di incertezza nella applicazione di modelli utili a prevedere il legame tra azione e reazione di determinate manovre.
        Ma sul “mercato” della comunicazione economica grazie a queste incertezze, nel tempo abbiamo assistito al proliferare di proposte semplicistiche (facilmente confutabili) che regalano visioni cartesiane.
        Come in ogni economia, questa offerta funziona perché c’è la domanda di un pubblico pronto a incanalare la rabbia per un presente difficile e un futuro nebuloso. La strategia è quella di “spiegare” meccanismi semplici, di facile attuazione, che se applicati di colpo garantirebbero benefici per tutti. Scienza insomma; e forse ci troviamo al limite della magia.
        Il pubblico accetta l’assioma e quindi il giochino diventa quello di individuare un nemico che consciamente non vuole applicare le “Regole” per tenere tutti in ostaggio.

        Anzi, questi post, permettono di introdurre una riflessione non esplicita nell’articolo: ma chi è l’economista? Forse, oggi sempre più, il problema è che l’economia è diventata argomento da bar da alternare al calciomercato.

        Cordialita’

        1. Caro Guffanti, Lei correttamente nota che negli articoli non è esplicita la definizione dell’economia e relativo dibattito. Ci sono alcune definizioni nella storia del pensiero, e sono stato un pò a lambiccarmi sui vari concetti, ma mi rendevo man mano conto che inserendoli nella trattazione l’avrei resa ancor più astratta di quanto non potesse già dare l’impressione. A malincuore ma con decisione l’ho evitata.
          La questione non è però inutile o secondaria e due episodi mi stanno convincendo che potrei in futuro tornare sull’argomento. Ma ora sarebbe prematuro che io ne scriva qualcosa .

          Sul secondo punto, quello relativo all’intervento del sig. Saba, ribadisco quanto ho scritto nella mia seconda replica: il primo commento di Saba, ne sono ancora convinto, voleva ottenere spazio per le sue teorie sfruttando PianoInclinato. Se qualcuno avesse ancora dubbi che la mia reazione sia stata esagerata, si cerchi su Youtube uno dei video degli interventi di Saba a qualche assemblea bancaria e mi dica.
          Tuttavia, la controreplica di Saba mi spinge comunque a dare una risposta perchè genera nel lettore l’impressione che i modelli tradizionali siano “strumentalisticamente” sempliciotti e inadeguati a rappresentare la realtà, in confronto ai suoi che sarebbero realistici.
          Secondo la sua teoria, le banche creerebbero una moneta legale DAL NULLA. Attenzione che questa idea è paragonabile solo tangenzialmente a quella di “moneta endogena” proprio a causa della creatio ex nihilo.
          Poichè è creata dal nulla, allora da un punto di vista contabile la partita “prestiti verso clientela” andrebbe pareggiata con una voce “sopravvenienze attive” in conto economico. Questo genererebbe più utili (ogni anno si parlerebbe di centinaia di miliardi a banca), più gettito fiscale e una solidità bancaria maggiore.
          Saba non si rende conto che, se anche avesse ragione, il suo modello non cambierebbe alcunchè nei modelli esplicativi dei mercati del credito e dei depositi perchè la propensione bancaria a erogare credito e quella del pubblico a detenere depositi continuerebbero a essere influenzate dalle solite variabili: prospettive economiche reali, tassi di interesse di varia natura e scadenza, aspettative di inflazione, solvibilità degli emittenti e dei prenditori, eccetera. Anzi, se il suo modello fosse reale genererebbe l’anomalia di rendere del tutto irresponsabili le banche nella erogazione del credito (più di quanto non lo siano già).
          Perciò i vecchi modelli non sono sempliciotti per nulla. Pertanto il modello di Saba è rindondante per quanto riguarda l’economia e si limita ad una proposta contabile, sulla quale si possono avere per altro molti dubbi di liceità, e mi limito a qualche esempio: nel mondo reale come fanno le banche a diventare insolventi e andare in shortage di capitale se da brave maghette possono creare moneta dal nulla? Inoltre come è possibile che questo accada dato che da decenni accumulerebbero a capitale utili non dichiarati? Perchè la fuga dei depositi dovrebbe essere allora un problema (vedi Grecia)? Infine Saba ci deve spiegare che fine farebbe il meccanismo di moltiplicatore depositi/prestiti e a cosa serva e perchè abbia senso esistere il mercato interbancario e quello della base monetaria, e cosa per lui sia il processo di trasformazione delle maturities, che è tipico della attività bancaria.
          Saba ha cercato secondo me uno spazio per sè, dato che altrove si restringono. Non sono solito rispondere in toni così stizzosi, ma il dubbio è lecito e dopo essermi confrontato con Andrea ho deciso di intervenire e chiarire i confini del dialogo.

          1. Questa è senz’altro una risposta più sensata e chiarisce quali sono le domande dell’autore. Prima di tutto, io non ho elaborato un MIO modello, ma mi limito ad usare il MINSY di Steve Keen, l’unico che conosco che contempla la creazione di moneta ed i relativi flussi. Per una trattazione completa sul problema della macroeconomia moderna, si veda Paul Romer, della Banca Mondiale, qui: Economist Paul Romer on why macroeconomists are ‘totally off base’ http://www.marketplace.org/2016/10/07/economy/economist-paul-romer-why-macroeconomists-are-totally-base
            Per quanto riguarda il mio spazio, normalmente mi accontento di commentare sul Financial Times ed in inglese. Ma questa volta jho fatto una eccezione giusto perché ci tengo rimanga evidente che, ancor oggi, chi piglia fischi per fiaschi non si arrende, e lo motivo. Errare humanum est… Quindi, addìo.

  2. Salve, potreste approfondire per favore il paragrafo:

    «Ma anche un keynesiano della Sintesi è mosso da una incrollabile fede: che le relazioni che legano mercati purtroppo imperfetti e inefficenti siano tuttavia stabili, robuste e determinabili. Se così non fosse le sue ricette di demand management rischierebbero di essere a volte oculate altre volte arbitrarie.»

    Cosa si intende?

    1. Caro Vitalij, Le rispondo volentieri. Fra i vari esempi ne scelgo due macroscopici e attuali, l’esogenità dell’offerta di moneta e il processo inflazionistico implicito nella curva di Phillips neoclassica.
      Come è noto il modello ISLM sviluppato da Hicks & Co. suppone che l’offerta di base monetaria sia sotto il pieno controllo delle Autorità di emissione (in verità non è possibile già asserirlo se il paese è aperto agli scambi con l’estero). Inoltre suppone che il meccanismo per cui la base monetaria si amplifica in moneta (il c.d. processo del moltiplicatore) sia fisso e determinabile esattamente. In altri termini i coefficienti che compongono il moltiplicatore sono costanti oppure – alla meglio – dati e noti esogenamente. La cronaca economica degli ultimi anni ci dimostra che così non è: la BCE pompa base monetaria ma non crescono adeguatamente/proporzionalmente i crediti bensì esplodono le riserve libere bancarie presso la stessa BCE.
      L’endogenità della moneta è un campo di studi noto da oltre 30 anni grazie alle analisi della scuola post keynesiana. Il processo moltiplicativo dipende crucialmente dal comportamento delle banche, dalla loro propensione al credito, dalla loro percezione del rischio e dalle scelte degli operatori economici in merito alla allocazione delle risorse fra strumenti finanziari concorrenti. Tutte cose che NON si possono supporre indipendenti dal comportamento dell’economia e quindi devono essere rese endogene alle equazioni che determinano il modello stesso.
      Il punto fragile delle raccomandazioni di demand management neoclassiche sta proprio nel presupporre che il mercato bancario e finanziario rimanga sempre uguale e le sue propensioni e percezioni sempre costanti.
      Sulla curva di Phillips avevo già scritto qui e in fondo all’articolo troverà il mio solito “angolo impertinente” con un appunto tecnico sulla irrealtà delle assunzioni alla base della riformulazione che Solow e Samuelson fecero della curva di Phillips.
      Diciamo che, col senno del poi, Lipsey aveva ragione nel consigliare prudenza nel maneggiare la curva ai fini di demand management, perché la teoria che vi sta dietro considera omogenei i vari settori produttivi dell’economia e i relativi impiegati, senza considerare diversità nelle produttività marginali (di lavoro e capitale) e la tecnologia impiegata. Certi settori possono rispondere alle sollecitazioni in maniera più veloce, altri più lenta col rischio di surriscaldarne alcuni e intiepidirne altri, ma senza poter discriminare su quali siano (o possano essere) a maggior valore aggiunto per l’economia considerata nel suo complesso.
      RingraziandoLa per il suo intervento, Le auguro buona lettura con la seconda parte dei tre articoli sull’argomento, che è in corso di pubblicazione.

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