Educazione siberiana

In via di principio Russia e Cina sono partner ideali. Le economie e la demografia sono complementari, l’avversione verso gli Stati Uniti è comune, il nazionalismo cementa i loro interessi. La crisi russo-ucraina ha accelerato quest’attrazione reciproca. Le sanzioni hanno penalizzato Mosca e Pechino appare l’approdo più immediato per compensare la sua oggettiva sconfitta economica. Putin afferma con orgoglio che

“le relazioni tra i due paesi non sono state mai così buone”

reiterando che

“le sanzioni internazionali sono illegittime”.

Effettivamente sembrano lontani i tempi dei contrasti tra Russia e Cina, sul versante ideologico, territoriale e militare. Eppure, un’analisi anche poco superficiale di numeri e tendenze rileva alcune pieghe nel manto di ottimismo e di celebrazioni che seguono ogni forma di accordi. Sono due gli aspetti che emergono più netti: la coincidenza – da dimostrare – tra annunci e realizzazioni e la più forte posizione negoziale della Cina.

Colpita dalla recessione e dall’isolamento, la Russia non può rispondere con il suo obsoleto sistema industriale. Deve vendere i suoi gioielli di famiglia, cioè quanto la terra le ha donato: prodotti agricoli e minerali, in particolare gas e petrolio. La Cina è il cliente migliore: meno fortunata per dotazioni naturali, ha la necessità di nutrire una popolazione immensa e di soddisfare il suo appetito energetico. Gli scambi commerciali lo confermano: nel secondo trimestre 2015 l’export di tutti i prodotti agricoli (soprattutto olio di girasole e mangimi) è cresciuto del 33% in valore e dell’80% in volume. Certamente ha inciso la pesante svalutazione del rublo, anche se la dinamica complessiva segnala una contrazione dell’export russo verso la Cina del 23% nei primi 6 mesi di quest’anno. Altri indizi confermano che gli acquisti cinesi sono dettati da pura convenienza. È in declino la presenza di piccole aziende commerciali che cinesi che hanno investito in Russia (soltanto la 9^ destinazione delle merci cinesi), mentre aumenta la richiesta di acquisti di appezzamenti per coltivare con metodi cinesi la terra russa, un tema che certamente comporta gravi ripercussioni sulla concezione sacrale del suolo patrio.

In campo energetico sono stati siglati altri, numerosi accordi. La Gazprom e la CNPC (China National Petroleum Corporation) hanno firmato un MoU che continua la loro cooperazione strategica per i prossimi 5 anni. Un terzo progetto condurrà gas in Cina dall’isola di Sakhalin, dopo i primi 2 (chiamati entrambi Siberia Power) i cui lavori sono ancora in corso. Numerosi altri impegni futuri sono stati presi alla presenza di Putin e Xi Jin Ping, ma in effetti la realtà del presente sembra più pragmatica. La Cina ha investito in Russia lo scorso anno soltanto 1,3 miliardi di dollari. Pur ragguardevole rispetto agli anni precedenti (la Cina non ha mai superato i 450 milioni di dollari), la cifra è solo una frazione degli investimenti ricevuti dalla Russia (21 miliardi nel 2014, 69 l’anno precedente. Senza sorpresa i primi 3 luoghi di origine sono Cipro, Bahamas e le Isole Vergini Britanniche). È invece operativo il contratto tra Rosneft (il gigante statale del gas) e i clienti cinesi per l’impressionante quantità annua di 4 milioni di tonnellate. Evidentemente i bassi prezzi dell’energia ne suggeriscono gli acquisti piuttosto che insistere sugli investimenti nel settore, dispendiosi e dal futuro incerto. Il loro valore politico potrebbe essere comunque negoziato, perché la Russia ha ammesso per la prima volta di essere disposta a vendere operazioni upstream, dove la proprietà nazionale di gas e petrolio è più importante.

L’Estremo Oriente russo è dunque teatro di importanti novità socio-economiche: dal land grabbing al commercio di risorse. La Federazione ha il compito di far crescere un’area ricca ma inospitale e largamente spopolata. I suoi 5 milioni di abitanti, su un territorio sterminato, impallidiscono rispetto ai 100 milioni di Cinesi che vivono e premono al di là del confine. Il Cremlino cerca di attrarre i loro capitali, senza stravolgere l’identità del territorio. Tuttavia, conduce le trattative in condizioni di debolezza. Solo ora, dopo l’ennesimo rinvio, sembra imminente l’apertura della Tigre de Crystal, il lussuoso complesso con alberghi e casinò che ha attratto capitali internazionali. Vladivostok, il leggendario punto di arrivo della Transiberiana, dovrebbe essere una nuova capitale del gioco d’azzardo, compensando il declino di Macao, all’estremità meridionale della Cina. La Tigre de Cristal è la punta di lancia di una strategia russa per calamitare capitali internazionali, anche se l’iniziativa langue. Gli investitori non sono persuasi dal clima degli affari, dalla mancanze di infrastrutture. I finanziatori cinesi lamentano la lentezza decisionale e l’inefficienza burocratica. È un’accusa che può sembrare ironica se proviene dal pulpito cinese. Come spesso succede, proteste e dilazioni sono un’occasione per continuare le trattative a condizioni più favorevoli.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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