Dell’effimera sorte

Negli anni ’80 eravamo tenacemente aggrappati al singolo momento, bambini incapaci di immaginarsi adulti eppure illusi di essere immortali, votati alla ricerca del piacere e del benessere qui e ora, e mentre il debito pubblico in Italia cresceva a dismisura, le aspettative si tramutavano in pretese. Fu così facile confondere la leggerezza con la vacuità.

Mara si risvegliò di soprassalto e allungò il braccio verso l’altra metà del letto, ma trovò solo le lenzuola. Si volse verso il quadrante luminoso della sveglia sul comodino, vide che erano le 3,07 e in quell’istante sentì il tonfo attutito della porta d’ingresso che si chiudeva.

“Quelli come lui tornano sempre”.

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Pochi istanti dopo, sentì il fruscio lieve dell’acqua che scorreva nel bagno accanto alla camera da letto. Si girò dall’altra parte e si riaddormentò.

Saverio chiuse il rubinetto e rimase ancora alcuni minuti nella cabina della doccia, gli occhi chiusi, la fronte e i palmi delle mani appoggiati alle piastrelle, mentre l’acqua colava rapida e leggera dai capelli sulla nuca e lungo la schiena, lavando via tutto, come sempre. Si sdraiò accanto a Mara e la guardò per un istante, pensando che il suo viso nel sonno rivelava i segni di una maturità che stava declinando verso la vecchiezza. In fondo, avrebbe potuto essere sua madre.

Saverio era nato in un paesotto in provincia di Foggia, a una trentina di chilometri dal mare, ultimo di tre figli ed unico maschio. Abitavano in una casetta a ridosso della stazione ferroviaria: suo padre, uomo schivo e mite, faceva il casellante. Aveva quindici anni quando il padre finì sotto un treno, e non ebbe mai la certezza che si fosse trattato di una disgrazia (benché accadde in una buia sera di ottobre e fosse risaputo che l’uomo a volte beveva qualche bicchiere di troppo), perché ripensandoci non riusciva a ricordare un solo giorno in cui suo padre gli fosse apparso se non felice, almeno sereno. Al contrario, era costantemente assorto e distante per qualche rovello che lo distraeva e lo consumava.

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Ignorava che il cruccio che aveva eroso come un tarlo la mente ed il cuore del pover’uomo aveva iniziato il suo inarrestabile lavorio poco dopo la sua nascita, ed aveva a che fare proprio con lui. Non aveva mai dato importanza al fatto che non vi fosse alcuna somiglianza con il padre né con le due sorelle, tutt’altro che attraenti, e che anche i tratti materni fossero difficilmente ravvisabili nei suoi, a parte gli occhi chiari: in una famiglia di individui tarchiati e bruni Saverio era longilineo e biondo, ed era bello come si immagina che dovesse apparire uno dei Normanni che nell’XI secolo conquistarono l’Italia meridionale, lasciando evidenti tracce del loro passaggio nelle popolazioni future.

Ma suo padre si era spiegato questa differenza nell’unico modo possibile. E aveva incominciato a dormire in stazione.

Con il passare degli anni, Saverio aveva preso consapevolezza della sua prestanza  ed intuendone il potenziale era divenuto ambizioso: così, a 23 anni e con un inutile diploma di geometra in tasca decise di lasciare quella periferia del sud e un giorno di dicembre salì sul treno che lo avrebbe portato a Milano. Lasciò in lacrime la madre e le sorelle, più un certo numero di donne alle quali aveva allegramente divelto il cuore.

Trascorse i primi tempi  ospite di uno zio materno, in una periferia molto più brutta e più astiosa di quella che conosceva, ed odiò subito quella nebbia fredda e unta che nelle sere d’inverno inghiottiva interi isolati del Lorenteggio, facendogli perdere completamente il senso dell’orientamento. Dopo qualche mese di lavoro alla catena di montaggio della Breda, a Sesto San Giovanni, fu in grado di pagare l’affitto di un sottotetto buio e umido a Turro, uno di quelli che nessun milanese voleva, con il cesso privato ma sul pianerottolo appena fuori dalla porta di casa. Nemmeno l’architetto più fantasioso avrebbe potuto elevarlo al rango di mansarda, però sdraiato sul letto dal lucernario vedeva il cielo di Milano, che a volte gli sembrava persino bello.

Il sabato sera incominciò a girare per locali con alcuni compagni di lavoro suoi coetanei, che avevano capito subito che portarlo con loro avrebbe aumentato per tutti le possibilità di rimorchiare. Saverio stava al gioco ma si annoiava, perché potevano permettersi solo posti da sfigati e la Milano ottimista, liberata da qualsiasi zavorra ideologica e perciò liberatoria rimaneva lontana. Ciononostante, andò avanti così per qualche anno e durante tutto quel tempo non ebbe mai una ragazza fissa, perché non ne aveva ancora incontrata una che fuori dal letto gli potesse interessare ancora.

Fu nell’83 che arrivò finalmente il suo momento, ed accadde per il verificarsi di due eventi fondamentali ma fortuiti: il primo fu l’assunzione in SIP (la compagnia telefonica che nel ‘94 divenne Telecom) come tecnico addetto alla Centrale di Piazza della Repubblica, lavoro comodo e ben pagato che gli tolse dalla pelle l’odore di limatura di ferro della Breda e gli consentì di dismettere i panni da operaio per salire di un gradino nella scala sociale.

Il secondo, forse più determinante, fu l’incontro con Vittorio, che conobbe al bar di viale Tunisia dove si fermava a bere il caffè prima dell’inizio del turno di lavoro. Incominciarono con lo scambiare qualche banale commento sul tempo o sulla domenica calcistica, finché una mattina Saverio non lo vide con una reflex Asahi Pentax LX appesa al collo. Scoprì che era un fotografo professionista che condivideva lo studio con un socio e realizzava servizi in occasione di inaugurazioni ed eventi mondani, matrimoni compresi, ma solo quelli altolocati. A Vittorio piacque subito la spontanea raffinatezza dell’aspetto e dei modi di quel ragazzo e si offrì di insegnargli ad usare la macchina fotografica, con la prospettiva di aiutarlo (dietro compenso) nei servizi più impegnativi. Saverio accettò subito, immaginando le porte della città dove tutto era possibile che finalmente si spalancavano invitanti davanti a lui.

https://youtu.be/vqjNvvUvMv4

Vittorio era un affascinante cinquantenne irrequieto e leggermente paranoico, con una moglie giovane e costantemente sull’orlo della depressione a causa della  continua e palese infedeltà del consorte, che praticava il sesso con la medesima razionale ed insaziabile curiosità di uno scienziato, e che nel nuovo amico trovò il compagno ideale per le sue molte serate peregrine.

Saverio era sveglio e curioso, ed aveva da poco compiuto 26 anni quando fece la sua prima uscita come aiuto fotografo: si trattava di un matrimonio importante, e il pranzo si sarebbe svolto al Saint Georges Premier nel Parco della Villa Reale di Monza. Con grande divertimento di Vittorio, il ragazzo nel corso della giornata fu sfacciatamente preso di mira dalle amiche della sposa, variopinta accolita di stangone anoressiche mescolate a tondette con tacco alto e baricentro basso, tutte ugualmente affamate. Non furono da meno le madri, che giocavano la carta del messaggio sottinteso ma neanche tanto della ricerca della trasgressione, unita all’esibizione discreta del potere di acquisto.

“Dai retta, Saverio: punta alle madri, se ti vuoi sistemare. Con le figlie puoi sempre divertirti”,

fu il suggerimento dell’amico, che Saverio decise di seguire.

Un paio d’anni dopo il suo tenore di vita ne aveva decisamente guadagnato. Ridipinse l’angusto sottotetto, buttò i quattro mobili fatiscenti che vi aveva trovato e lo arredò in stile minimalista (nel senso che c’era poco, ma era tutto quello che si poteva permettere) e lo riconvertì in scannatoio forse un po’ esplicito, con una profusione di luci soffuse e un impianto stereo con altoparlanti da piano bar, ma d’altronde le sue ospiti, che certo non potevano portarselo a casa, una volta che avevano varcato quella soglia non cercavano né l’eleganza né lo stile. Eppure lui ne aveva da vendere, dell’una e dell’altro, anche quando esibiva il suo lato ferino, ed era anche per questo che era molto apprezzato.

Continuava a lavorare in Sip, non era mica un mantenuto: tuttavia, non disdegnava i numerosi regali delle sue danarose amanti: dalla giacca in cachemire al piccolo Rolex in acciaio, dall’accendino Cartier in argento ai week end a Nizza e a Montecarlo. Ogni tanto aveva bisogno di una boccata d’aria con una studentessa universitaria o con una commessa della Rinascente, ma erano sempre incontri senza seguito.

Capitò che a Vittorio fu commissionato il servizio per l’inaugurazione di un negozio di antiquariato in via Manzoni e il suo socio si era rotto una gamba sciando, così all’ultimo momento chiamò Saverio.

La proprietaria era un nome noto della buona borghesia milanese, ricca di famiglia e divorziata da un uomo più vecchio di lei e ancora più facoltoso, dal quale aveva avuto una figlia e una barca di soldi quando si erano lasciati. Saverio la individuò subito, per la tranquilla, controllata padronanza con la quale si aggirava tra i numerosi ospiti: alta e legnosa, impeccabile nell’abito di sartoria, una folta capigliatura bionda mortificata da un taglio squadrato che certo non giovava al viso arcigno ed innaturalmente abbronzato, nel quale spiccavano occhi piccoli, scuri ed attentissimi.

Mara smise di prestare attenzione ai complimenti dell’Avvocato Tardelli per la serata e volse lo sguardo verso l’angolo opposto del locale, dove il fotografo stava facendo una pausa e sorseggiava champagne rosé conversando con quello che doveva essere il suo collaboratore, considerata l’attrezzatura. E si distrasse definitivamente.

Mosse nella loro direzione, e guardando quel ragazzo alto ed aitante, la bella faccia dagli zigomi alti, i capelli biondi e ondulati pettinati all’indietro a scoprire la fronte alta, gli occhi ridenti del colore dei fiordalisi, provò l’identica sensazione che le suscitavano le sculture di Rodin: una voluttà assoluta, e una brama di possesso immediata.

Gli si avvicinò valutandolo e soppesandolo, notando che il dolcevita di cachemire e la giacca di pelle, come pure il Rolex al polso, erano di certo superiori alle sue possibilità: quindi, poteva essere che fosse in vendita. Cominciò così, da quella sera stessa, perché Mara non amava i preamboli e non era incline al trasversalismo.

Un mese dopo Saverio si trasferì nel lussuoso attico in via della Moscova: Mara era una donna libera, sua figlia viveva a Roma, e volle chiarire subito che non si sarebbe accontentata di qualche prestazione serale saltuaria. Per una questione di superficiale dignità, non volle lasciare il lavoro in SIP, e per motivi che nulla avevano a che fare con la dignità né con la prudenza seguitò di nascosto a pagare l’affitto del sottotetto in via Boiardo.

Iniziò così una vita ricca di eventi mondani e di vacanze in luoghi esotici e lontani. Saverio imparò in fretta a muoversi con disinvoltura in giacca e cravatta negli ambienti più esclusivi e quando si trovava in compagnia di persone colte ed informate aveva l’intelligenza di parlare poco ed ascoltare molto. Alcune volte gli capitava di guardare Mara, più vicina ai sessanta che ai cinquanta, e di considerare che nonostante i sapienti ritocchi, la dieta, il personal trainer ed i cosmetici per i quali non sarebbe bastato il suo intero stipendio, la sua pelle rivelava la cedevolezza che preannuncia la resa definitiva.  Dato che la donna era ferocemente realistica, dava per scontate le sue occasionali avventure e le considerava un prezzo equo da pagare. Del resto, lui aveva capito che doveva essere molto discreto, e di questo gli era grata. Dal canto suo, Saverio apprezzava quella vita agiata, festaiola ed effimera, che indossava come un bell’abito su misura, tanto che pareva fondersi con la sua pelle.

Per il suo trentesimo compleanno Mara gli regalò una Porsche 911 Coupé nera, e vedendo il volto contegnoso della donna ammorbidirsi in un sorriso intenerito dinanzi al suo fanciullesco stupore, assaporò una sensazione di cinica ebbrezza.

Non aveva più tempo per i servizi fotografici ma di tanto in tanto si vedeva ancora con Vittorio, che piantato dalla sua infelicissima moglie stava velocemente scivolando verso una pericolosa deriva.

Una mattina di gennaio, fermandosi nel solito bar in viale Tunisia per il caffè, si avvide subito della nuova barista: difficile non notarla, con quel vestitino sottile ed attillato che nascondeva poco della sua figura morbida e piena, tanto che si accorse molto dopo del viso grazioso e dell’espressione scaltra ed irriverente degli occhi castani, sui quali spioveva una frangetta corvina.

Un tardo pomeriggio di qualche settimana dopo passò davanti al bar e la vide che usciva, avviandosi verso la fermata del 5, camminando a testa bassa con il viso dentro il bavero di un cappottino troppo leggero per l’aria gelida dell’inverno milanese, che faceva lacrimare gli occhi e pizzicare le guance. Accostò al marciapiede e la chiamò:

“…scusa, non so se ti ricordi di me, ci vediamo tutte le mattine al bar…fa un freddo cane, se vuoi ti accompagno a casa”.

(..non so se ti ricordi di me. Come se mi potessi scordare di uno con una faccia così e una macchina così)

“…grazie”,

disse lei, e salì dopo una brevissima esitazione di circostanza.

Nina aveva 23 anni e si era trasferita a Milano dalla Gallura, dove la sua famiglia gestiva una modesta pensione con annesso bar.

“…ma ci campiamo a malapena, e io voglio una vita diversa. Intanto sto continuando a lavare tazze e bicchieri, ma prima o poi cambierà…”.

Abitava in un brutto caseggiato popolare all’Ortica, in un appartamento che divideva con un’amica e una volta arrivati rimasero a parlare in macchina: del mare che a Milano non c’era, dei ritmi così diversi da quelli di casa, dell’impaziente aspirazione di far parte della folla efficiente e produttiva che ogni giorno pareva correre verso una meta ben precisa.

Parlarono senza ascoltarsi davvero, perché troppo impegnati ad immaginarsi quello che prima o poi sarebbe successo, e che si verificò poco tempo dopo. Quella sera Saverio si convinse che il cielo di Milano, appeso al lucernario  come un manto morbido e scintillante, fosse davvero a portata di mano. La novità fu che una volta che Nina fu scesa dall’auto quando la riaccompagnò all’Ortica, incominciò subito a sentirne la mancanza.

Prese ad assentarsi dal lavoro nei giorni in cui lei era di riposo. Andavano a Como o sul Lago Maggiore, oppure si chiudevano nel sottotetto in via Boiardo. Prima di tornare da Mara, Saverio faceva dei lunghi giri in macchina per poter rientrare nel ruolo che doveva interpretare. Aveva confessato a Nina che non viveva solo e che non era ricco, e lei lo aveva ascoltato in silenzio, con un’espressione indecifrabile che lo aveva turbato. Poi però lo aveva abbracciato e lui non aveva sentito più null’altro che il suo odore ed il suo calore.

Una sera, radendosi davanti allo specchio del bagno, si rese conto che non ce la faceva a reggere il peso della sua anima sdoppiata, e doveva quindi fare una scelta: scelse Nina. Era finalmente innamorato e glielo avrebbe detto, con il suo stipendio e quello di lei potevano farcela, fortuna che non aveva mollato né il lavoro né il sottotetto. Era tutto così chiaro, così semplice. Si sentì in pace, e decise che poteva affrontare la serata al Savini organizzata da Mara con alcuni clienti facoltosi; domani avrebbe parlato con Nina, e poi sarebbe uscito per sempre dalla casa e dalla vita di Mara.

Raggiunsero la Galleria Vittorio Emanuele  da Piazza della Scala, entrarono al Savini e presero l’ascensore per la sala ristorante al primo piano. Un cameriere impeccabile li accompagnò al tavolo prenotato e pochi minuti dopo arrivarono i due ospiti, due industriali brianzoli che per gli omaggi natalizi a politici e funzionari vari avevano speso una fortuna nel negozio di antiquariato di Mara.

Il più giovane dei due, un ometto grassoccio sulla cinquantina afflitto da una calvizie precoce e maldestramente mascherata, era accompagnato da una giovane donna che esibiva con ammiccante fierezza. Il bel volto di Saverio si congelò in un’espressione di annichilita incredulità, mentre Nina gli porgeva la mano con un sorriso divertito e complice. Vi fu un brevissimo istante di sospensione che sfuggì a tutti, ma non a Mara, che capì i ritardi e i silenzi e tutto quanto c’era da capire.

Il giorno dopo era venerdì e Nina non era al lavoro. Saverio non provò nemmeno a cercarla a casa. Tornando all’attico di via della Moscova non trovò Mara ma lo accolse la domestica filippina, che per due anni lo aveva squadrato con muta ed evidente disapprovazione. Aprì la faccia larga in un sorriso soddisfatto e gli disse:

“Signora via fino a lunedì. Detto a me di preparare valige signor Saverio perché signore va via. Detto di lasciare chiavi di casa”.

La donna si godette per un attimo lo smarrimento di Saverio, poi sferrò l’attacco finale:

“…detto che può tenere la macchina. Detto…”

e tolse dalla tasca del grembiule un bigliettino spiegazzato:

“…considerare come liquida…zione. Io adesso prepara valigie”.

E così il bel Saverio, come in una partita al Monopoli, si ritrovò al punto di partenza, con qualche abito di classe ed un’auto che avrebbe venduto perché non poteva permettersi di mantenerla. Sarebbe tornato al suo sottotetto, al lavoro in SIP, qualche serata fuori, sentì distintamente il rumore di molte porte della Milano bene che gli si richiudevano in faccia. Forse non si erano mai nemmeno aperte del tutto.

Era certo di poter gestire la caduta, ma non quel dolore dilaniante che gli stava sgranocchiando pezzetti di cuore per sputarli fuori ridotti in poltiglia. E tutto per una stronza come lui.

https://youtu.be/IgmssC8r47I

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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