Il feticismo dell’origine della merce

In Italia l’immagine della Cina – nel significato più ampio dato all’espressione – è tra le peggiori al mondo. Soffre di un indubbio deterioramento complessivo del giudizio su quel paese, sempre più avvertito come una minaccia piuttosto che un’opportunità. La speranza che suscitava lascia ora il posto al timore che incute. Queste valutazioni italiane sono generali ma non generiche, semplici ma non semplicistiche. Vengono regolarmente confermate da studi internazionali (con PEW tra i più autorevoli) che rilevano come la crisi iniziata nel 2007 – per la sua lunghezza e la sua incisività – abbia sollecitato l’individuazione di responsabili o colpevoli. Sia nel grande pubblico, incline a lamentare “l’invasione di prodotti cinesi”, sia nelle analisi più approfondite, le merci dal gigante asiatico hanno assunto un’immagine deleteria. Sono capaci di soddisfare bisogni immediati e allo stesso tempo di incarnare i germi del declino industriale per il paese che le acquista. Gli stessi studi sottolineano l’indisponibilità della Cina a un ruolo subordinato nell’arena planetaria, un’ostinata inclinazione a perseguire i propri interessi che la rende refrattaria alle lusinghe o alle minacce internazionali. Il crescente distacco si deve a molte ragioni: dal timore delle dimensioni della Cina al suo atavico nazionalismo, dalla concorrenza sleale alla violazione dei diritti umani.

Nel nostro paese la critica assume un aspetto aggiuntivo, imperniato sulla qualità dei prodotti cinesi. Non si tratta soltanto della tradizionale valutazione economica – “basso valore aggiunto, basso costo unitario” – quanto dello scarso valore associato al Made in China. La composizione dell’import cinese in Italia è molto vasta, tuttavia la percezione dell’opinione pubblica è rimasta legata ai beni di consumo che non ispirano affidabilità e non sottintendono durabilità. Un ulteriore elemento negativo è dato dalla copia e dalla contraffazione che spesso avvengono proprio ai danni della produzione italiana più costosa e sofisticata. La condanna si inasprisce quando si converte nel timore per la salute. Imperdonabili sono considerate le adulterazioni alimentari, la diffusione di medicinali falsi o di sistemi di sicurezza contraffatti.

Un’altra peculiarità è radicata in Italia: l’identificazione tra il territorio e la qualità di un prodotto. All’estremo opposto dei giocattoli cinesi si trovano la meccanica tedesca, i profumi francesi, lo yogurt greco, l’IT della Silicon Valley. Non è necessario certificarne la validità, così come per molti prodotti italiani. Per essi la garanzia è il luogo di produzione. Si è disposti a pagare un premium price per averli, per la certezza della loro affidabilità. Negli Stati Uniti la sicurezza dell’acquisto è offerta dal produttore e dal commerciante; qualsiasi difetto viene immediatamente riparato o compensato. In Italia questi meccanismi sono sconosciuti e dunque ci si affida a sicurezze meno scientifiche ma più tradizionali come l’origine delle merci.

Tuttavia, affidarne il giudizio alla loro provenienza è giusto o fuorviante? È un postulato o una possibilità? Conferma le certezze o stimola finalmente delle riflessioni? Per rispondere agli interrogativi è necessario alzare l’asticella dei dubbi, è appropriato avventurarsi nella complessità della globalizzazione.

La Cina dal 2009 è il maggior esportatore mondiale di merci, dopo aver scalzato dalla supremazia prima gli Stati Uniti e poi la Germania. Laddove si aggiunga l’export di Hong Kong (analogo a quello italiano, in 8a posizione), Pechino registrerebbe un valore pressoché doppio rispetto a Washington e Berlino. È un’altra perla nella collana dei successi economici che hanno condotto la Cina fuori dal sottosviluppo. Colpisce non tanto la prima posizione (coerente con la demografia del paese) quanto la velocità messa in atto per raggiungerla. In circa trent’anni la Cina ha infranto tutti i record che la sfida economica le poneva, creando contemporaneamente ammirazione, rispetto, preoccupazione, allarme.

Questi stessi sentimenti sono sintetizzati da uno sguardo anche superficiale ai consumi di prodotti cinesi. Da una parte essi sono apprezzati per il rapporto qualità/prezzo, dall’altra sono teoricamente rifiutati per la loro reputazione. Sono affollati gli empori gestiti da cinesi e altrove sempre più visibili sono le insegne che avvisano i clienti che i prodotti esposti sono italiani (e comunque non cinesi). Questa contraddizione potrebbe essere relegata alla cronaca quotidiana se non celasse una preoccupazione ben più grave: la minaccia – associata appunto alle merci cinesi – recata all’occupazione. Se le importazioni dalla Grande Muraglia sono imbattibili nei prezzi, oggettivamente pongono ostacoli insormontabili alla produzione nazionale. Se inoltre sono il frutto di sfruttamento incontrollato della manodopera, di violazione delle norme ambientali, di sussidi di Stato, allora la concorrenza non è più leale, supera i confini delle norme internazionali, richiede azioni di difesa. Pur se questa interpretazione si fonda su elementi oggettivi, mostra un’eccessiva semplificazione. Per correggerla, un dubbio emerge prepotente: le merci cinesi sono effettivamente cinesi?

La conferma sarebbe una tautologia sterile: è cinese tutto ciò che proviene dalla Cina. Eppure i numeri, nella loro spietatezza, suggeriscono interpretazioni non unilaterali. Circa la metà delle esportazioni cinesi in valore deriva da investimenti di multinazionali. La quota ha addirittura sfiorato il 60% nel 2006. Da molti anni la Cina è il magnete più potente di FDI, Foreign direct investment. Nelle decisioni di massimizzare i profitti societari, i Consigli di amministrazione sono attratti da una miscela imbattibile che la Cina può offrire: un costo ridotto dei fattori di produzione, un’eccellente rete infrastrutturale, un mercato interno vasto e in crescita. Negli ultimi anni la convenienza a investire in Cina è mutata. Il paese ha valicato la tradizionale connotazione economica di compressione dei consumi e di valorizzazione delle vendite all’estero[sociallocker].[/sociallocker]

Il passaggio obbligato è stato l’accento sugli investimenti, sia interni che esteri, un’inedita, almeno nella sue dimensioni, investment-led growth. Ora il Dragone è attraente non solo per i bassi salari, quanto per la sua abilità a concorrere alla creazione di valore su scala globale.

Della Cina viene proiettata un’immagine coerente e dirompente: la fabbrica del mondo. È un titanico opificio dove si produce tutto a prezzi accessibili e con qualità crescente. Il suo territorio è radicalmente cambiato. Appare ora un immenso capannone industriale, dove i contadini sono diventati operai, i cittadini consumatori, e il tempo si misura con i cronometri e non con l’arco quotidiano del sole. È dunque senza dubbio cinese ciò che viene prima prodotto e poi esportato dalla Cina? «The Economist» – certamente una pubblicazione non filo-cinese – dà una risposta complessa e argomentata. Porta ad esempio un Apple iPad del 2010, nel quale la produzione entro la Grande Muraglia valeva soltanto pochi punti percentuali del totale. I costi di approvvigionamento e produzione (ai quali vanno ovviamente aggiunti quelli di progettazione e di distribuzione sotto forma di profitti) vengono imputati alla Cina, proprio perché lì hanno luogo l’assemblaggio e successivamente Il Dragone è attraente non solo per i bassi salari, quanto per la sua abilità a concorrere alla creazione di valore su scala globale. l’esportazione. Se il costo di un iPad è di 275 Usd, il contributo cinese è di soli 10 Usd. Tutti gli iPad hanno concorso per un valore di 4 miliardi nell’immenso deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Cina, ma se si tiene conto del solo valore aggiunto sul suolo cinese, il passivo si riduce a soli 150 milioni di Usd.

Il dubbio contabile conduce ad approdi politici. Esiste l’invasione di merci cinesi che comprime reddito e occupazione nei paesi destinatari? Se è questa la realtà (e i numeri per l’Italia convergono pur confusamente verso questa direzione), è corretto incolpare un paese oppure la spiegazione va cercata in ambiti più articolati? Inoltre: è giusto individuare responsabilità? In un contesto che ha favorito la caduta delle barriere, non si ritrova l’ideologia dominante che vede ogni ostacolo al movimento di risorse come una flessione della ricchezza socialmente prodotta, come un disturbo al libero dispiegamento delle forze produttive? Paradossalmente è proprio Pechino a invocare il liberismo per espandere i mercati di destinazione. La sua difesa è lineare: la Cina è la fabbrica del mondo perché le è stato chiesto di assumere quel ruolo. Senza gli investimenti delle multinazionali e il consenso dei governi, non avrebbe potuto farlo. Ciò ovviamente non l’assolve dal disprezzo delle regole, dalla discriminazione verso le aziende straniere, dalla violazione degli standard ambientali e sindacali. Tuttavia, anche la posizione più critica nei confronti della Cina non scioglie l’interrogativo iniziale: quale bandiera nazionale apporre sulle merci cinesi?

La legislazione italiana ha assorbito questo dubbio, consentendo la lavorazione all’estero di prodotti nazionali e la re-importazione in Italia con diritti doganali limitati al valore aggiunto oltre confine. È il caso del “traffico di perfezionamento passivo” che consente di usufruire dei bassi costi di produzione fuori dall’UE e di mantenere l’etichetta Made in Italy sui prodotti finiti, purché essi contemplino una percentuale fissata di valore aggiunto in Italia. I casi tipici di questa sinergia riguardano prevalentemente i settori maturi – tessile, abbigliamento, calzature, pelletteria – che sono ad alta intensità di lavoro e trovano dunque vantaggiosa la delocalizzazione verso paesi emergenti. Se lo scrutinio delle merci si sposta sul versante sociale, le sorprese raddoppiano. Un’impostazione dialogante sostiene che per arginare il flusso dei rifugiati verso l’Europa sia opportuno creare condizioni migliori di lavoro nei paesi più poveri. Se è la differenza di reddito a scatenare le migrazioni, è quindi necessario sconfiggere il sottosviluppo con le armi economiche a disposizione, a iniziare dagli investimenti. Tuttavia i prodotti dell’industria locale ambiscono direttamente ai mercati europei, dove le produzioni nazionali soffrono la concorrenza dei bassi costi al di là dei confini. Per non far muovere le persone, si producono merci che a loro volta si dirigono verso la stessa direzione. Tornano frequenti le misure di protezione, richieste proprio dagli stessi ambienti che avevano accettato la globalizzazione nella sua versione squisitamente economica e liberista.

Se permane l’impostazione tradizionale – se cioè è il territorio a determinare l’origine sia contabile che percettiva – è necessario sciogliere altri dubbi sorti negli ultimi anni. L’imprenditoria cinese è una delle più attive tra quelle straniere, tradizionalmente legata alla ristorazione e al commercio. Le lanterne rosse ne rappresentano la sintesi più visibile nelle città. Anche la produzione è comunque ora una sua attività importante. A Prato, i lavoratori cinesi hanno prima assimilato l’antica lavorazione di filati e tessuti – i cascami – e poi hanno innervato la città di confezioni tessili. Molte di queste sono state poi esportate, prevalentemente nei paesi dell’Est europeo, dove è apprezzato il fascino del Made in Italy anche nelle sue espressioni di minor pregio.

La cronaca rileva spesso episodi di sfruttamento della manodopera, se non addirittura di auto-sfruttamento. Sono noti gli incidenti sul lavoro, i ritmi massacranti, la contiguità assoluta tra luoghi di vita e di lavoro. Eppure le merci che escono da laboratori improbabili o illegali sono comunque Made in Italy, al di là di ogni ragionevole dubbio. È soltanto il territorio a determinarne la nazionalità, non certamente la proprietà e tantomeno il retaggio della tradizione medioevale.

Entro i consueti recinti, dunque, i dubbi non si risolvono e la loro contemplazione risulta un esercizio sterile. L’identità delle merci è un caposaldo concettuale, la derivata prima dell’internazionalizzazione economica. La produzione deve trovare mercati alternativi a quello interno, talvolta preferendoli quando i consumi nazionali vengono compressi. L’idea di fondo è indiscutibile: la domanda estera crea reddito e occupazione nel paese.

La Cina è la fabbrica del mondo perché le è stato chiesto di assumere quel ruolo. Senza gli investimenti delle multinazionali e il consenso dei governi non avrebbe potuto farlo. Se è robusta, i cancelli delle fabbriche rimangono aperti, le ciminiere continuano a fumare, le maestranze a lavorare. I governi promuovono sempre le esportazioni; secondo l’immagine classica le importazioni sono una necessità o un lusso, non una scelta.

Molti paesi, tra cui l’Italia, hanno conosciuto fasi espansive secondo il classico modello di export-led growth. Il presupposto dell’origine di un prodotto è la sua nazionalità, la conseguenza è la ricerca dell’alterità. Nell’internazionalizzazione c’è sempre un confine da varcare, una partita doppia per imputare la transazione, un passaggio di dogane, una conversione di valuta.

La globalizzazione sta inferendo dei colpi potenti a questa impalcatura teorica. Dopo la fine della Guerra Fredda – e dunque con la flessione dei vincoli ideologici – la mobilità dei fattori di produzione – merci, lavoro e capitali – ha conosciuto vertici inediti. Come nell’esempio dell’iPad, oggi è possibile progettare in un luogo e approvvigionarsi, assemblare, confezionare, spedire e consumare in altri, tutti diversi tra loro. La tecnologia è non soltanto disponibile, ma anche trasferibile. Solo il cuore e il cervello della produzione rimangono proprietà delle grandi aziende e del big data. Si tratta sempre più spesso di beni immateriali, realizzati in spazi dedicati, dove la creatività è la strada maestra per il profitto e il controllo. Per ironia, il famoso imprenditore cinese Yang Yuanqing, riprende e sostiene la tesi di Marx espressa all’inizio de Il Capitale: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immensa raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare». A distanza di 140 anni Yang ne assume la validità e sintetizza il percorso produttivo.

Toglie il velo ai legami del passato, del welfare e delle conquiste del lavoro. Esiste un solo fuso orario – adesso – perché il mondo della produzione e del consumo non può indugiare. L’orario di lavoro si estende, siamo sempre collegati, il confine tra lavoro e riposo è costantemente più labile. Ancor più importante, le componenti della produzione, sia di beni che di servizi, possono essere trovati dovunque siano reperibili al meglio. Lo consente la rimozione degli ostacoli – talvolta vischiosa, altre veloce e spietata – alla libera circolazione delle merci.

Il CEO di Lenovo è un uomo di visione, un simbolo, un esempio per la nuova generazione di capitalisti non solo cinesi. Nel 2005 sorprese il mondo degli affari, quando acquisì la divisione personal computer di IBM. Era la prima volta che un’azienda di un paese emergente acquistava uno dei pilastri dell’industria statunitense, per di più in un settore strategico. Dopo pochi anni, Yang è riuscito a coniugare i brevetti dell’IBM con le immense capacità produttive delle fabbriche cinesi. Dal 2013 Lenovo senza sorprese è il più grande produttore mondiale di pc. L’anno successivo ha acquistato la divisione server dall’IBM e la Motorola Mobility da Google. Lenovo ha la sede centrale a Pechino, registra un consiglio di amministrazione multietnico, vende i suoi prodotti in 160 paesi e ha investito in 60 destinazioni estere. Per una benevola rivincita della storia, lo ha fatto anche in North Carolina, nella storica sede dell’IBM. Dopo essere stata accusata di sottrarre lavoro negli Stati Uniti, è stata in grado di riportarlo nello stesso luogo.

Il caso di Lenovo non è eccentrico. Appartiene alla seconda fase del flusso di investimenti. Se prima il Dragone era esclusivamente una calamita in entrata, ora è uno dei maggiori investitori all’estero. Se prima le aziende cinesi avevano bisogno di joint-venture per carpire tecnologia, ora sono in grado di acquistarla e di sfruttarla. Certamente è cambiato il peso della Cina e la sua capacità negoziale è fortemente a suo vantaggio. Se il mondo è un’incessante macchina da merci, la Cina è immediatamente il suo luogo di elezione. Si tratta probabilmente di acquisizioni ormai irreversibili. Non è mutato invece l’enigma dell’identità della merce, il feticismo che la circonda in un mondo imperniato, anche nella crisi, su consumi senza limiti. Si rafforza il dubbio, fino a sfiorare la certezza, che per comprendere l’enorme disponibilità di prodotti sia meglio indagare la nuova divisione internazionale del lavoro.

Qual è la nazionalità di un prodotto realizzato in Cina dalle multinazionali, o negli Stati Uniti da un’azienda cinese, ideato in California da ingegneri indiani, costruito con minerali africani, assemblato in Vietnam, spedito con container danesi su navi battenti bandiera panamense che lo sbarcano verso consumatori Sudamericani? A quale bilancio vanno ascritte le esportazioni? Quali statistiche nazionali lo registrano? La globalizzazione sta svuotando il significato di questi dubbi. La sua risposta è potente e prepotente: manufacture everywhere, sell everywhere.

È noto il dibattito sulla perdita di prerogative degli Stati nazionali. In Europa i casi più famosi attengono all’accordo di Schengen e all’Euro. In tutto il mondo sono in discussione i loro concetti fondanti come l’identità, i confini, la sovranità, l’impossibilità di risolvere unilateralmente questioni planetarie. Le merci non fanno eccezione. Sono sottoposte a percorsi che ne mettono in discussione l’origine, ma non il valore d’uso, né quello di scambio. I dubbi che le accompagnano sbiadiscono, fino a una scomparsa che si annuncia prossima.

Appare verosimile che sempre di più, almeno nella generalità dei prodotti, sarà importante non l’origine ma la catena del valore che li ha generati.

Trattandosi di un processo, è più agevole avvenga in più stati, varcando senza barriere tutti i confini. Solo allora ci accorgeremo di essere stati impegnati in dubbi poco fertili. Valeva la pena porsi tutte queste domande sull’origine delle merci? Questo rimane dunque il dubbio più pregnante. La più grande conquista sarà consegnare quegli interrogativi alla storia, nella speranza di poterlo fare nella maniera più indolore possibile.

articolo inserito nella monografia dell’Arel “Dubbio
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Pubblicato da Romeo Orlandi

Presidente del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia. Professore di Economia della Cina e dell'Asia. Esperto di globalizzazione. Autore, editorialista, relatore a convegni.

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