Finché morte non vi separi

Si era talvolta chiesto se avesse mai veramente  amato Livia. Di sicuro l’aveva voluta, con l’intensità caparbia con la quale si desiderano le cose che per qualche  ragione sfuggono.

“Sei passato dalla mamma?”

Mentire con disinvolta prontezza, quando occorre. Non è colpa mia se occorre con una certa frequenza.

“Certo, naturalmente”

“…davvero? Allora potevi almeno fare lo sforzo di portarle un fiore, visto che è il primo anniversario della sua scomparsa”.

Non tutte le menzogne riescono bene, come tante altre cose nella vita.

Sua figlia considerò chiusa la breve conversazione, era sabato e non accennò nemmeno a un eventuale invito a pranzo per l’indomani. Meglio così, gli aveva risparmiato il disturbo di imbastire l’ennesima scusa per defilarsi dalla noia di una conversazione vacua e di un menù banale, oltre che dal teatrino della famiglia felice con il corollario dei due gemelli frignoni.

Un sabato sera della scorsa primavera, mentre sorbiva un solitario calice di prosecco al Jamaica attendendo l’ora di recarsi all’ultimo spettacolo all’Odeon in via Santa Radegonda, aveva scorto entrare il genero Fabrizio: nulla di male, se non fosse stato per la brunetta alla quale stava indecentemente avvinghiato. Considerate le ridotte dimensioni del locale in via Brera, a quell’ora non ancora particolarmente affollato, anche il ragazzo lo aveva subito visto e dopo un attimo di esitazione lo aveva avvicinato:

“ Gabriele, ascolta…”

“Lascia perdere, Fabrizio. Non sarò certamente io a farti la predica, tranquillo”.

Milano è una città nella quale ci si può perdere di vista con una certa facilità ma il diavolo e il destino, ammesso che questi non siano coincidenti, sovente si divertono a incrociare le strade di persone che non dovrebbero incontrarsi.

Lungi dall’avvicinarli in una solidale complicità tra maschi, l’episodio aveva sfilacciato anche quello straccio di legame affettivo imbastito in qualche anno di sporadiche frequentazioni, gravando di un sottile eppure ineludibile imbarazzo le rare riunioni familiari. Sogguardando il volto di sua figlia vi aveva riconosciuto l’espressione contratta derivante dal connubio di sofferente consapevolezza e di altezzosa riprovazione con la quale aveva convissuto per ventisei anni: la stessa, precisa identica che era solito scorgere sulla faccia di sua moglie…

La famiglia di Gabriele risiedeva in via Borsieri molto prima che qualsiasi ambizioso progetto di riqualificazione del rione Isola albergasse nell’immaginario di architetti modaioli e lungimiranti amministratori comunali: Pietro e Gemma Zanirato abbandonarono l’originario Polesine alla fine del ’51 in conseguenza della grande alluvione e quando i due giovanissimi sposi giunsero a Milano, scendendo alla Stazione Centrale dal convoglio affollato e maleolente si sentirono subito derelitti e si aggrapparono l’uno alla mano dell’altra come due naufraghi. Fu grazie alle conoscenze e alle raccomandazioni dell’anziano parroco del loro paese che Pietro fu subito assunto alla Brown Boveri e poterono trovare alloggio nelle vicinanze.

Essi erano freschi di nozze e con un figlio in arrivo che nacque dunque all’Isola;  avrebbero fatto qualunque sacrificio  per consentire a quel primogenito sano e forte di accedere al benessere che percepivano aleggiare attorno quando la domenica passeggiavano per le vie del centro, presente e inafferrabile come un profumo di cose buone. Tuttavia durante il triennio delle medie dovettero arrendersi all’evidenza della scarsa propensione per gli studi di Enrico, dovuta non a cattiva volontà bensì a capacità cognitive piuttosto limitate e perciò irrimediabile. Il ragazzo possedeva però una buona manualità, era serio e disciplinato: lo attendeva un futuro da bravo operaio come suo padre, con uno stipendio da operaio, una vita da operaio e ambizioni commisurate  alla sua condizione, ovvero assai modeste.

Fu il secondo figlio, il quale arrivò del tutto inaspettato tredici anni più tardi (quando fortunatamente anche Gemma aveva iniziato a lavorare) che fornì loro l’occasione di rispolverare l’antico sogno del titolo accademico, attestante nero su bianco che il loro figliolo possedeva la cultura e, in virtù di tale ricchezza acquisita, la possibilità di scegliere quale direzione imprimere alla propria esistenza, affrancato dalla sorte di dover faticare e dire signorsì ogni giorno per poter sopravvivere appena dignitosamente, concetto che Pietro soleva riassumere con brutale semplificazione:

“Oggi come oggi, se non hai studiato e non hai un pezzo di carta in mano non sei nessuno”,

tracciando nell’aria con un gesto deciso della mano un segno netto e definitivo  sull’ultima parola.

Gabriele si laureò in chimica nell’estate del 1989 e pochi  mesi dopo iniziò a lavorare nel laboratorio di ricerca di una grande azienda farmaceutica situata nella periferia a nord ovest di Milano, a ridosso dell’Autolaghi. Brillava uno sbiadito sole dicembrino la mattina in cui attraversò l’atrio luminoso; oltrepassata la guardiola della portineria appena dopo il cancello di ingresso, dove lo avevano munito di targhetta di riconoscimento con lo stemma aziendale, seguendo le istruzioni ricevute prese l’ascensore fino al secondo e ultimo piano, superò la porta blindata laccata in blu della Presidenza, monitorata da un’inquietante telecamera girevole (il Presidente, rampollo di un’antica famiglia milanese di imprenditori farmaceutici imparentati con i Pirelli, qualche anno prima era stato oggetto di un tentativo di sequestro) e imboccò il lungo corridoio che conduceva alla  porta bianca dietro la quale si trovavano i laboratori. Rimase lì impalato per qualche istante, la mano sospesa a pochi centimetri dal pulsante del campanello, assaporando l’esaltante sensazione della certezza che la sua vita stava davvero cambiando e che da lì in poi, sempre per citare suo padre, sarebbe stata tutta discesa.

Fu subito entusiasta di quell’impiego interessante e ben remunerato e il dinamico, sfaccettato microcosmo della grande e moderna azienda fu un’eccitante scoperta. Durante la breve pausa pranzo il personale sciamava verso la vasta sala mensa al piano terra: Gabriele non ci mise molto a notare che ognuno dei grandi tavoli rotondi era occupato da gruppi fissi di colleghi, non necessariamente appartenenti alla medesima divisione. Se i commensali dei vari tavoli parevano assai affiatati tra loro, fu subito chiaro quanto ogni gruppo fosse esclusivo. I nuovi arrivati non sceglievano con chi pranzare: dopo un periodo di occasionale e guardinga ospitalità, venivano adottati dall’uno o dall’altro clan secondo insondabili criteri di selezione, solo in parte basati sull’individuazione di presunte affinità.

Gabriele possedeva un fisico prestante e dalla genia materna aveva ereditato lineamenti vagamente slavi: zigomi alti, occhi e capelli chiari, tratti decisi e un sorriso malandrino del quale aveva imparato a fare un uso spregiudicatamente calcolato più o meno dalla prima liceo, quando aveva acquisito cognizione del suo fascino. Dotato di ottima memoria, di spirito di osservazione e di una mente capace di connessioni assai veloci, sapeva essere un conversatore gradevole e mai invadente. Per via di queste sue peculiarità gli capitò addirittura di essere conteso da varie combriccole, che reclamavano la sua compagnia in quell’ora destinata ai più feroci e succulenti pettegolezzi.

Livia sedeva sempre assieme ad alcune donne alle quali gli anni avevano addossato un’aria arcigna e qualche chilo superfluo e a un paio di anziani funzionari dallo sguardo sempre un poco svagato. Era la sola ragazza giovane e in quel contesto poco vivace, tra le chiome leggermente diradate chine sui piatti in un ventaglio cromatico che andava dal rosso violino al grigio brillante, transitando per il biondo platino e qualche improbabile marrone, la sua giovinezza spiccava con brutale spudoratezza. Nonostante l’abbigliamento casto e persino antiquato, Gabriele poté notare la vita sottile e i fianchi generosi, il seno la cui abbondanza era difficile da dissimulare, le caviglie fini e le lunghe cosce affusolate. Tanta conturbante  opulenza risultava in stridente contrasto con la delicatezza infantile del viso incorniciato dai lunghi capelli castani, lisci e lucenti, una spessa frangia spiovente sugli occhi dalle iridi grigie. Fu incuriosito da quell’intrigante dissonanza e dall’atteggiamento severo e scostante, come pure dall’indifferenza della ragazza nei suoi confronti. Osservandola si persuase che, al pari della sua persona, l’animo dovesse ugualmente presentare due tendenze antitetiche e che la freddezza apparente celasse un temperamento focoso, in attesa di essere disvelato.

La collega era addetta alla biblioteca scientifica e il giovane dottor Zanirato prese a manifestare un grande interesse per le pubblicazioni conservate in quelle stanze silenziose. Durante le brevi conversazioni cercava di agganciare lo sguardo grigio di Livia che raramente si posava sulla sua persona, se non di sfuggita e con una sorta di annoiata condiscendenza; anche dalle brevi battute di lei trapelava il medesimo disinteresse: ma più essa gli scivolava tra le mani come acqua fredda, più diveniva il suo rovello.

Seppe insistere senza apparire insistente, riuscì ad insinuarsi nell’isolamento che il  contegno altezzoso le aveva costruito attorno e che da rassicurante barriera difensiva si andava in realtà tramutando in prigione asfissiante. Riuscì a portarla al cinema e persino a cena; comprese subito di dover mantenere un contegno irreprensibile sebbene ciò gli costasse una frustrante fatica. Il suo assillo era nato dalla bramosia di un corpo  voluttuoso sotto un viso da bambina seria, da un desiderio colpevolmente torbido e squisitamente carnale, ma diveniva via via più complesso ed esigente: ora voleva la sua attenzione, la sua considerazione. Voleva lei, e lo comprese appieno la sera in cui si sottrasse con imbarazzato garbo all’invito sfacciato nello sguardo color smeraldo da felino famelico di Renée, la disinvolta collega della Divisione Cosmetici che gli aveva appena proposto una cena a base di paella e bagno rilassante in Jacuzzi, benché egli amasse molto entrambe le cose.

In primavera Gabriele e Livia facevano ormai coppia fissa, seppure continuassero a pranzare su tavoli separati, ritrovandosi per un caffè prima di ritornare ai rispettivi uffici. A poco a poco essa gli aveva accordato una prudente confidenza; gli aveva rivelato la depressione nella quale era caduto il padre dopo aver perduto una fiorente concessionaria automobilistica a causa di un investimento sbagliato e dei successivi debiti con uno strozzino, evento che lo aveva fatto precipitare ignominiosamente dalla scala sociale trascinando nella caduta la famiglia (a causa dei problemi finanziari conseguenti, Livia aveva interrotto gli studi universitari e aveva iniziato a lavorare). Il racconto fece comprendere a Gabriele la probabile ragione della scarsa socievolezza di Livia, ma la sua ostinata ritrosia la rendeva per certi versi inarrivabile e del fuoco che egli pensava fermamente dovesse covare sotto la cenere di quegli occhi, così sovente rivolti verso qualche altrove impenetrabile, non vi era ancora traccia.

Dopo le numerose presenze femminili di un decennio, tutte ugualmente troppo qualcosa (giovani, vecchie, spregiudicate, espansive, truccate, scollacciate) e fortunatamente effimere, i genitori di Gabriele accolsero Livia con trepidante sollievo augurandosi che durasse, malgrado fossero intimiditi dal suo comportamento rigidamente formale.

Dal canto suo, frequentando la spaziosa casa dei genitori di Livia in piazza Firenze il ragazzo aveva percepito una rancorosa decadenza posata come un velo di polvere sul solido legno del rigoroso arredamento Biedermeier,sulla seta del tappeto orientale sotto il salotto Chesterfield, sul pesante centrotavola d’argento massiccio e sul lampadario della sala a gocce di cristallo. La depressione del capofamiglia era una voragine oscura che aveva assorbito per intero la dedizione della moglie, una bella signora precocemente invecchiata, allontanato la figlia, la quale se ne era difesa inalberando un’imperturbabile alterigia, e depositato su ogni cosa una patina di progressiva disaffezione.

Giunse l’estate e la consueta calura appiccicosa avvolse Milano in una foschia opprimente per intere settimane; dopo molte insistenze (e facendosi carico dell’intera spesa) Gabriele era riuscito a convincere Livia a partire per la Sardegna. Scesero in un albergo nei dintorni di Palau e trascorsero i primi giorni in uno stato di spensierato stordimento per la violenta bellezza che li circondava. Era una sorta di costante ebbrezza, assorbivano i colori sfacciatamente sfarzosi del mare e  la ruvidezza di quella terra selvatica, si lasciavano avvolgere dall’abbraccio ardente del sole e lambire la pelle da piccole onde carezzevoli. Livia mostrava sovente un’espressione enigmatica e assorta ma appariva assai meno rigida; Gabriele si sforzava di non soffermarsi troppo sulla contemplazione della sua pelle nuda, e aspettava.  Rientrarono un poco brilli da una festa sulla spiaggia in un’alba tiepida, sfumata di rosa e di violetto, l’aria satura di aspri profumi, la luce calda del mattino nascente che si rifletteva negli occhi di Livia. Gli si pose dinanzi e incominciò a spogliarsi lentamente, si offrì con ingenua impudicizia, a un tratto arrendevole alle carezze più audaci. Egli si rese conto di essere per lei il primo e si sentì stupidamente fiero e intenerito.

Dopo quella prima volta Livia seguitò a concedersi senza troppo slancio ma con un impegno diligente che finì col disturbare il suo compagno, il quale credeva di percepire in lei una specie di curiosità antropologica per il sesso e un interesse assai scarso per il piacere. Rientrando a Milano, ammise tra sé che  sotto la cenere dello sguardo di Livia non ardeva nessun fuoco e la sua morbidezza passiva lo aveva già stancato: era ora di pensare ad una dignitosa ritirata.

Benché convinto faticava a tirarsi fuori da quella storia, perché aveva infine posseduto il  corpo di Livia ma non l’aveva avuta e pativa l’umiliazione di quel suo essere sfuggente, perennemente distolta da qualche pensiero che lo escludeva. Un paio di mesi dopo la ragazza gli annunciò di essere incinta, aggiungendo che naturalmente si aspettava che lui si assumesse le proprie responsabilità.

Si sposarono un gelido giorno di gennaio del 1991 e il ventre arrotondato di Livia tendeva il raso lucido del sobrio abito color panna. Il matrimonio era stato organizzato in fretta e furia, tra l’indifferenza del padre della ragazza, l’entusiasmo isterico della madre e la perplessità dei genitori di Gabriele i quali non capivano bene quale fosse lo stato d’animo del figlio, ma di certo egli non pareva loro contento. E difatti non lo era, e quando udì l’officiante avviarsi alla conclusione della formula di rito pronunciando le parole

“…finché morte non vi separi”

si sentì in trappola.

Fu una gravidanza assai difficile e dopo il parto Livia versò per qualche tempo in uno stato di prostrazione fisica che non le impedì di dedicarsi con scrupolo maniacale alla cura della piccola Martina. L’umore di Gabriele oscillava tra un’orgogliosa tenerezza paterna e il pensiero sgradevole e anche un poco meschino di essere stato turlupinato da una donna che si era fatta sposare usando la più antica e riprovevole tra le strategie femminili.

Egli si sentiva escluso dal piccolo mondo ovattato e profumato di talco nel quale si muovevano moglie e figlia e qualsiasi intimità coniugale era del tutto abolita. Al termine del periodo di maternità Livia si licenziò; fu in quel periodo che Gabriele prese a frequentare altre donne e si profuse contemporaneamente nell’impegno professionale. Nei rari momenti trascorsi a casa Livia si prestava a qualche conversazione cortesemente generica, come quelle che normalmente si intrattengono con un conoscente incontrato casualmente per strada, mantenendo un contegno quietamente reticente.

Martina aveva iniziato la scuola e Livia riprese a lavorare trovando impiego in un’agenzia di viaggi in Corso Venezia, si iscrisse in palestra, prese l’abitudine di recarsi con qualche amica alla presentazione di un libro piuttosto che a uno spettacolo teatrale, aveva insomma una vita che le bastava e che non includeva necessariamente la presenza del marito. Non ci mise molto ad intuirne i tradimenti ma non ritenne di affrontare l’argomento, limitandosi ad una sofferente ostilità. Egli si accorgeva del suo dispiacere come dell’ovvio risentimento e in fondo avrebbe voluto che glieli rovesciasse addosso: sarebbe stato almeno un segno tangibile del suo interesse. Ma non era nello stile di Livia, la quale divenne sempre più evasiva e più indipendente. Di tanto in tanto, nel buio della camera da letto si univano in un amplesso veloce dopo il quale calava tra loro un disagio irrisolvibile, e ognuno si ritraeva nella propria solitudine.

Non ebbero mai dei contrasti importanti: si accordarono senza difficoltà sull’educazione della figlia e sulle scelte rilevanti ma finirono per condividere degli interessi pratici e degli spazi fisici senza mai essere solidali, in una risentita benché educata sopportazione reciproca. Nel corso degli anni Gabriele ebbe molte relazioni, nessuna delle quali affettivamente rilevante: non cercava sentimento bensì passione, confidenza, complicità.

A poco più di quarantacinque anni il suo impegno professionale, corroborato da qualche circostanza fortunata, si era tradotto nella nomina a Direttore dei Laboratori di Ricerca; dopo molti anni nell’appartamento in affitto in zona Bovisa si trasferirono in un alloggio assai più spazioso in viale Montenero. Fu nello stesso anno che la figlia, iscritta al primo anno di Medicina, si sposò con Fabrizio e abbandonò gli studi: era incinta, e la storia si ripeteva con deludente monotonia.

Gabriele osservava sua moglie sfiorire con grazia dentro una bolla appartata ed impenetrabile, le forme appena più morbide ma ancora armoniose. Gli capitava talvolta di rientrare in piena notte dopo un incontro amoroso che non si curava nemmeno più di dissimulare, i capelli in disordine, la cravatta in tasca e l’odore di un’altra donna ancora appiccicato addosso: lei stava rannicchiata su una poltrona, il tavolino coperto di carte di caramelle Rossana che consumava in quantità smodata. Gli rivolgeva allora un’occhiata addolorata, il viso irrigidito in un’espressione di infastidito disgusto, e mormorava

“Ah, sei tornato”,

e non riuscì mai a capire se lo stupore che coglieva in quella breve esternazione celasse sollievo o piuttosto delusione.

Eppure, non pensò mai alla separazione: la ritrosia di sua moglie era un rovello irrisolto e permaneva irragionevolmente ostinato il desiderio di scoprirla, di trovare l’intimità che gli aveva sempre negato. Forse cercava solo di prendere tempo, fiducioso del fatto che con il sopraggiungere inevitabile della vecchiaia le reciproche manchevolezze sarebbero divenute  irrilevanti, prevalendo la consapevole affezione alle abitudini e il timore strisciante della solitudine.

Poi Livia si ammalò; fu una malattia veloce e crudele e a Gabriele toccò assistere al sorprendente disfacimento del corpo che era stato il suo assillo. Fino all’ultimo essa non lo volle accogliere né lo perdonò, e se ne andò lasciandogli addosso il peso di tutte le colpe e il rammarico di una sconfitta inappellabile.

Col trascorrere dei giorni, egli si era sentito finalmente liberato dal vuoto della costante assenza della moglie e ne aveva provato un indicibile sollievo, con l’unico rimpianto che la parte migliore della vita se ne era andata. Era un uomo maturo ma ncora piacente e sebbene amore e passione non fossero più aspirazioni irrinunciabili, non avrebbe disdegnato di adagiarsi nella vecchiezza in buona compagnia

…D’improvviso gli venne in mente che poteva ancora passare dal cimitero; il sabato pomeriggio si avviava pigramente alla conclusione  ma in quell’autunno languido e troppo caldo sembrava ancora di avere un sacco di tempo a disposizione.

Ma poi, che ci vado a fare al cimitero? Non riuscivo a comunicare con lei quando era viva, dovrei riuscirci adesso che è morta? Passerò in gastronomia, cenerò davanti alla tele e deciderò cosa fare del resto della serata.

Il sole calava velocemente dietro ai tetti, come se si fosse ricordato che era ottobre e la sua ora era scaduta da un pezzo, l’aria rinfrescava bruscamente. Gabriele attese l’ascensore, salì e respirò la scia inebriante del profumo di fiori e vaniglia della signora del terzo piano (Miss Dior, ci scommetterei, prima o poi glielo devo chiedere).

Aprì l’uscio, entrò nel breve vestibolo accolto da un gradevole tepore e si liberò delle scarpe scaraventandole in terra, tanto non vi era nessuno che potesse dire alcunché. Mollò il sacchetto con il cibo sul tavolo della cucina e si diresse in salotto immaginando di avere dimenticato di chiudere la finestra, perché aveva percepito un refolo di aria fredda provenire da quella direzione.

“…finché morte non vi separi”, si ritrovò a pensare sentendosi ancora una volta ingannato: perché sul tavolino del salotto luccicava una montagnola di cartine rosse di quelle stramaledette caramelle Rossana, e avrebbe giurato di udire una voce sollevata e allo stesso tempo delusa, come sempre:

“Ah, sei tornato?”

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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