I have a dream

Ho sempre avuto il pallino della reporter.

Sono nata in una piccola cittadina dell’Illinois attraversata dalla mitica Route 66, famiglia di estrazione sociale modesta ed insolitamente emancipata. A casa si leggeva molto, mio padre aveva sempre un giornale in mano e tutti i giorni a voce alta ci leggeva la cronaca locale.

Dopo il liceo decisi di lasciare la città per frequentare gli studi di giornalismo; scelta difficile per una ragazza di campagna molto affezionata alla famiglia ma soprattutto contraria allo spirito di quei tempi in cui la giovane donna americana si idealizzava nella moglie perfetta, tutta casa ed elettrodomestici di marca. Io no, io sognavo solo un taccuino zeppo di appunti, un telefono che squillava in continuazione e il ticchettio incessante della macchina da scrivere.

Tutte le notti mi addormentavo solo dopo aver ascoltato le breaking news alla radio.

Esther Bubley, Girl listening to radio, Boardinghouse, Washington DC (1943)
© Esther Bubley, Girl listening to radio, Boardinghouse, Washington DC (1943)

Ogni mattina mi buttavo giù dal letto per raccattare dallo zerbino giornale e cartone del latte, la mia colazione. Erano gli anni della protesta per i diritti civili degli afroamericani, di Martin Luther King, Rosa Parks, Malcom X, della guerra fredda e del Vietnam, e dell’ascesa di una stella nel firmamento politico del Paese, John F. Kennedy , il 35° Presidente degli Stati Uniti d’America.

Trovai alloggio presso un convitto femminile cattolico. Mia madre si era raccomandata ad un’amica d’infanzia di trovarmi un posto letto a modo come si conviene ad una signorina perbene. Non avendo a disposizione molti soldi finii per sistemarmi in un residence alquanto povero e spartano;

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© Esther Bubley, Waiting to use the bathroom (1943)

ma non importava, ero a Washington DC e dalla mia finestra riuscivo a vedere in lontananza l’imponente facciata della Casa Bianca.

John Fitzgerald Kennedy, White House
John Fitzgerald Kennedy, White House

Agli esordi della carriera non rifiutavo nessun incarico redazionale: dal pezzo sulla mostra canina all’inaugurazione del salone da barba; ero sempre pronta a scrivere su qualsiasi fatto, anche solo per pochi dollari a trafiletto in ultima pagina, in attesa della grande occasione, dello scoop che avrebbe cambiato la mia vita.

Un giorno il boss mi convocò in direzione chiedendomi di partire e recarmi in Oregon per seguire un noto cold case, un delitto irrisolto che aveva tenuto l’America con il fiato sospeso per tanti anni e era prossimo alla soluzione. Dovevo essere sul luogo prima ancora che si spargesse la voce.

M’imbarcai. Il mio destino correva ora su pneumatici pesanti.

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© Esther Bubley, People boarding a Greyhound bus at a small town between Chicago, Illinois and Cincinnati, Ohio

L’autobus viaggiava veloce e silenzioso nella notte e così i miei pensieri che quasi non mi accorsi di quella fermata di servizio dove i passeggeri potevano approfittare per una pausa ristoratrice, una ciambella ed un caffè bollente. Decisi di scendere anch’io per sgranchirmi le gambe ed entrai nel motel. C’era un gran via vai all’interno, nonostante fosse l’alba: in fondo alla sala principale in un angolo appartato, due persone erano sedute ad un tavolino: erano John F. Kennedy e Signora.

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John and Jacqueline Kennedy in a diner, Oregon

Lui talmente assorto da non aver quasi consumato nulla, lei elegantissima nel suo tailleur rosa e tamburello coordinato, sorseggiava lenta la bevanda, occhi bassi, lo sguardo stanco. Ebbi l’impressione di assistere ad uno spaccato di vita normale di una coppia comune, con i suoi silenzi e le sue ansie, chiusi ciascuno con il proprio fardello da portare. Ma c’era anche nell’aria, incombente ed impalpabile, qualcosa di strano e funesto: alla luce fioca del mattino e con la scarsa illuminazione del locale il colore del tailleur pareva virasse da rosa geranio al nero assoluto. Erano a lì a pochi passi, inavvicinabili, protetti da un massiccio cordone di sicurezza. Estrassi dalla borsetta la mia prima macchina fotografica e scattai quell’immagine. Poi mi diressi verso la toilette, non accorgendomi che Jacqueline era proprio dietro di me. La vidi riflessa nello specchio in tutta la sua maestosa e regale bellezza.

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Rare photo: the reflection of JFK and Jackie in a mirror

Accennò un sorriso malgrado i suoi occhi fossero umidi e tristi. Mi feci avanti, non so ancora adesso con quale coraggio, e le chiesi se aveva bisogno di qualcosa, come ad una sconosciuta incontrata per caso in autogrill. Lei mi guardò e disse che un abbraccio sarebbe bastato. Lei l’inarrivabile, la sofisticata, l’iconica Jackie si sciolse in una stretta affettuosa. Una donna, in fondo, era solo una donna, sola e innamorata. Come tante, come me.

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© Settimio Garriano, Jackie Kennedy in Capri

Quando risalii sul bus, pensai che avrei potuto scrivere un pezzo, vendendolo al miglior offerente, ma non lo feci per pudore. Serbai per me quel ricordo negli anni a venire: quando la rividi ero già una reporter di successo e lei una chiacchierata vedova del jet set internazionale: grandi occhiali da sole, passo svelto, foulard rigorosamente Hermès. Sempre più sola, sempre più magra, sempre più incompresa e distante. Mi ricevette non senza difficoltà (si sa non amava rilasciare interviste) nella sua casa a New York e per tutto il tempo ho sperato si ricordasse del nostro precedente incontro. Ma ciò chiaramente non accadde, perché lei era (e resterà) la First Lady, l’unica, per me.

https://www.youtube.com/watch?v=gSjsDkJOqhM

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Pubblicato da Daniela Pepe

Anima migrante, laureata in economia. Lasciò tutto per l'America viaggiando in Transiberiana. Vive a Roma ma il suo cuore è a Tel Aviv

Una risposta a “I have a dream”

  1. Riesco solo ora a leggere con la dovuta attenzione il tuo racconto: lo rileggo tre volte, perché voglio coglierne tutte le sfumature. Mi irretisce come un bel film di cui si amano subito i personaggi, non più icone irraggiungibili e astratte ma persone. Che amano, soffrono, hanno momenti di debolezza. I coniugi Kennedy appartengono ad un passato di cui ho qualche ricordo personale, seppur vago, ero troppo piccola, ma li sento come parte della mia storia.
    Di Jackie si e’ parlato troppo e talvolta a vanvera soprattutto ai tempi della sua relazione con Onassis. Lei resta un mistero irrisolto, la sua classe e la sua innata eleganza sono sicuramente fuori discussione.
    Grazie, Transiberiana, per averla ricordata con la raffinatezza e la misura che sono il tuo tratto caratteristico.

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