Il buio e le rose

Forse, dopotutto, aveva ragione John Lennon: All you need is love (Dan Peterson).

Era passata appena una stagione da quando Dan Peterson, noto anche come il nano ghiacciato, aveva abbandonato l’Olimpia Milano lasciando il posto di allenatore al suo vice Casalini. A Gand, piacevole cittadina fiamminga sconosciuta alla maggior parte dei milanesi, la sera del 7 aprile 1988 le storiche scarpette rosse del basket meneghino sconfissero il temibile Maccabì Tel Aviv e conquistarono il titolo europeo per il secondo anno consecutivo. Era l’Olimpia dei mostri sacri Mike D’Antoni e Dino Meneghin, dello strepitoso Bob McAdoo e del giovane talento Riccardo Pittis; era l’Olimpia che rese orgogliosi tutti i milanesi, inclusi coloro che non avevano la minima idea di cosa fosse un tiro da tre.

Ma tutto si consuma piuttosto in fretta, a Milano forse un poco più che altrove. In giugno, a Giro d’Italia da poco concluso, i perdigiorno di tanti bar di periferia commentavano la domenica di tregenda sul Gavia. Colando sudore nella calura appiccicosa che gli ombrelloni dissimulavano appena, senza mitigare, con un notevole sforzo provavano a immaginare il gelo di quella tormenta inattesa.

Chi esagerò un poco nell’invocare una botta di frescura fu accontentato il primo di luglio, allorché un violento nubifragio si abbatté sulla città concentrando la sua furia sulle zone poste a centro-sud, la Barona, il rione Sant’Ambrogio, i Navigli. Del fenomeno i giornali riferirono con grande enfasi affibbiandogli le suggestive definizioni di “uragano” e “tornado”, ma fu di sicuro un evento eccezionale: nel tardo pomeriggio, dopo un preambolo di raffiche di vento furiose, nel giro di un’ora cadde mezzo metro di pioggia. Strade allagate, alberi e pali della luce sradicati, coppi volanti sulla città, i Navigli esondati, il traffico un bestione intrappolato mentre i semafori lampeggiavano con monotona agitazione il colore giallo, come a notte fonda. Due automobilisti che avevano cercato riparo sotto un muro rimasero schiacciati dal crollo del manufatto medesimo; uno perì e l’altro, miracolosamente, se la cavò. Di entrambi si conobbero dati anagrafici, targa, marca e modello dell’auto e financo il colore, perché già allora il dovere di cronaca tendeva a sconfinare, arricchendo le notizie di inutili dettagli. Poi arrivò la grandine, una spanna di chicchi grandi come noci che non ebbero pietà alcuna di parabrezza e carrozzerie.  Quel che è certo è che la temperatura si abbassò in maniera significativa, almeno per un poco.

All’inizio di settembre, mentre le giornate si accorciavano e il ricordo di certi amori estivi prendeva a sbiadire al pari di una fotografia distrattamente dimenticata al sole, Milano ritrovava l’abituale ritmo frenetico e si concentrava sull’imminente Triennale:

XVII Triennale di Milano — 1988

Le città del mondo e il futuro delle metropoli

La XVII Triennale riflette sul tema della città capitali dei paesi in via di sviluppo, nuove realtà urbane che offrono l’occasione per riflettere sul futuro stesso della forma città. La mostra sceglie alcune metropoli come punto di osservazione sul mondo, illustra i territori dell’urbanistica, dell’architettura e delle arti. L’allestimento che accompagna il visitatore alla scoperta delle varie sezioni dell’Esposizione è progettato da Achille Castiglioni, Paolo Ferrari e Italo Lupi (Italo Lupi, Manifesto per la XVII Triennale di Milano, 1988).

Milano guardava avanti, preparandosi a opporre un garbato diniego all’offerta dell’ennesimo amaro Ramazzotti e a lasciare gli irriducibili edonisti reaganiani al loro incerto destino.

Erano le sette di un sabato mattina e, benché fosse la metà di settembre, faceva ancora piuttosto caldo. La Alfa 164 parcheggiata in Viale Gorizia si immise sulla carreggiata con un lieve stridio di gomme sulle lucide lastre di pietra. Pochi metri dopo, la donna che la guidava dovette effettuare una brusca sterzata per evitare di travolgere il Maggiolino Cabrio con la capote abbassata che si staccò dal marciapiede, senza rispettare la precedenza. Furibonda, Lucia (così si chiamava la baldanzosa proprietaria della 164) imprecò tra i denti mentre sentiva la rabbia montare dallo stomaco alla testa. Si fermò di botto, costringendo il Maggiolino e coloro che lo seguivano a frenare; scese dall’auto e si avvicinò all’uomo al volante.

”…ma come cazzo guidi?”,

gli disse scandendo per bene le parole, che tuttavia già prima del punto interrogativo avevano perso la veemenza iniziale scivolando verso una ragionevole perplessità. L’aveva dapprima disarmata e poi confusa una singolare asimmetria del volto volgarmente piacente dell’uomo, il quale le opponeva uno sguardo di annoiata commiserazione con quegli occhi non solo spaiati, uno marrone e l’altro verde smeraldo, ma anche totalmente discordi: quello scuro magneticamente indagatore, quello chiaro freddamente vacuo. L’uomo sorrise beffardo, rivelando una chiostra di denti piccoli e aguzzi, incredibilmente bianchi.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Qualche colpo di clacson spazientito pose fine alla figura meschina della donna la quale, risalita a bordo, era ripartita in tutta fretta. Aveva qualche commissione da sbrigare, prima di aprire il negozio nella vicina via Savona.

Lucia cercò di dominare il nervosismo e di scrollarsi di dosso il disagio di quell’incontro, riflettendo che se avesse incontrato il tizio in circostanze differenti avrebbe persino potuto trovarlo attraente. Già: le circostanze, gli incontri, le coincidenze, le congiunzioni astrali che non avevano alcuna probabilità di verificarsi. Illusioni che venivano gelosamente custodite per poterle accarezzare nel momento che Lucia temeva di più: quell’ora in cui l’oscurità incomincia a dissiparsi, arrendendosi all’aurora. Era l’ora in cui, rientrando a casa da sola, doveva ammettere che, di nuovo, non era successo nulla che potesse strapparla almeno per un poco al tedio di giornate sempre uguali e di nottate trascorse da spettatrice che osserva le vicende altrui: ferma, mentre attorno tutti gli altri si muovono.  Allora guidava con spericolata audacia, spronando la mandria di cavalli di razza che aveva sotto il cofano dell’Alfa Romeo e infrangendo tutti i limiti di velocità sulle strade quasi deserte. Per qualche breve momento assecondava un latente istinto di autodistruzione e lo assaporava con incosciente voluttà; poi finiva per ritrarsene, impaurita dalla tenebra che aveva potuto scorgere annidarsi nell’animo, come un mostro in agguato. Poco prima di entrare in casa, ripescava quelle pietose illusioni e pensava “chissà, magari la prossima volta”.

Figlia unica di una coppia un poco avanti con gli anni che possedeva una fornita merceria in via Savona, era stata accolta con l’incredula gratitudine che si riserva a un dono ormai inatteso e allevata con ottusa indulgenza, soddisfacendo qualunque capriccio e assecondando il carattere prepotente. La sua spocchia non fu minimamente scalfita dagli insuccessi scolastici: ottenne il diploma di ragioneria con un anno di ritardo e per il rotto della cuffia, ma si convinse che fosse tutta colpa dei docenti che ce l’avevano con lei. A quell’epoca non frequentava nessun ragazzo: aveva pretese precise e dettagliate ed era assai improbabile riscontrare quelle caratteristiche tutte assieme in un unico individuo. Se l’atteggiamento altezzoso non facilitava certo le relazioni, nemmeno l’aspetto era di grande aiuto: nelle fattezze vi era qualcosa di indefinito, appariva come un abbozzo mal riuscito. Alta e robusta, il tronco privo di punto vita, il petto quasi piatto, il volto era un ovale imperfetto, con la mascella lievemente prognata, il naso sottile e gli occhi tondi e scuri. Seguendo il discutibile suggerimento della sua parrucchiera, cercava di ingentilire i tratti con un bizzarro taglio dei capelli tinti di un biondo chiarissimo, corto ma culminante in una sorta di gonfia cresta che la faceva rassomigliare a un’upupa, senza averne l’eleganza.

Aveva ridimensionato le sue aspettative quando era ormai tardi. Raggiunta la quarantina, nemmeno sapeva più bene cosa volesse. Eppure, il desiderio era lì, a tratti imperioso e alla lunga corrosivo come un tarlo sfuggente.

L’uomo dagli occhi spaiati aveva guidato piano verso la periferia, lasciando che l’aria del mattino gli rinfrescasse il volto, scompigliando appena i lisci capelli castani. Aveva terminato da poco il turno e infilato tutti i tagliandi di controllo nei portoni e nelle fessure delle saracinesche della zona assegnatagli dalla società di vigilanza per la quale lavorava. Quello del metronotte era un mestiere noioso, ma che poteva esercitare in solitudine e a lui andava bene così. Gli rimaneva tutto il tempo necessario per osservare, pensare e pianificare. Sebbene certe sue azioni scaturissero da pulsioni che non poteva fare a meno di soddisfare, era riuscito a piegarle a una strategia ed era così che se l’era cavata per tutti quegli anni: tredici, per la precisione. Il primo delitto, una giovane prostituta, avvenne nell’estate del ’75 e fu  un’improvvisazione o per meglio dire una rivelazione: aveva finalmente compreso come alleviare la sua pena, almeno per un poco. Invece con la seconda, quella domenica al Luna Park Varesine, oltre al sollievo aveva sperimentato un godimento sublime, tanto che era stato imprudente, per la troppa furia non era riuscito a estrarre il pugnale e aveva dovuto ripulirlo accuratamente. Così, aveva imparato e affinato una tattica più prudente.

Raggiunto il triste appartamento in via Lopez, più una sorta di tane che una casa, aveva sonnecchiato per buona parte della giornata. Nel dormiveglia gli era capitato di ripensare all’insolito incontro della mattina in viale Gorizia con l’irritabile conducente dell’Alfa 164 e si era domandato da dove scaturisse la rabbia di quella donna dai capelli del colore della paglia, infagottata in un brutto vestito nero. Era tuttavia sicuro di avere letto altro nei suoi stanchi occhi scuri: l’inerte rassegnazione a una solitudine ineludibile e la bramosia di un fugace istante di felicità, o di qualcosa che le somigliasse. Peccato non averla incrociata altrove, peccato non avere idea di dove ripescarla.

Lucia aveva infine abbassato la serranda del negozio al termine di un sabato fiacco. Subentrando ai genitori nella gestione della merceria, che aveva sempre servito una clientela fedele di sarte, aveva preferito puntare sull’abbigliamento giovanile. Aveva così perduto i vecchi clienti e faticava a trovarne di nuovi, perché gli abitanti del rione potevano trovare i medesimi capi di scarsa qualità a un prezzo inferiore nei negozi di via Paolo Sarpi e via Canonica o nei grandi magazzini. Ma quella sera Lucia aveva altro per la testa: si preparò per la serata almanaccando sull’appuntamento con Gianluca e cullandosi anzitempo nelle illusioni alle quali usualmente si aggrappava solo alla fine della nottata.

Nel suo girovagare notturno, Lucia iniziava la serata aggregandosi a un gruppo eterogeneo che usava incontrarsi attorno alle dieci di sera in un bar in via Andrea Doria per poi raggiungere, non prima delle undici e mezza, il Rose’s Club, piccola discoteca situata in piazza San Babila, nella Galleria appena dietro al Gin Rosa. In quel palcoscenico un poco più tranquillo rispetto ad altri locali in voga come il Primadonna, l’Hollywood o l’Amnesie, Lucia assisteva al liquido aggregarsi con gli altri avventori dei suoi provvisori compagni, a nessuno dei quali era legata da amicizia. Era come guardare dentro un caleidoscopio: immagini che mutavano all’infinito mescolandosi e succedendosi in modo casuale, solo che i colori apparivano sbiaditi, come certe storie dal finale troppo prevedibile.

Gianluca era un bel ragazzo che qualche volta si univa al gruppo; era gentile ma assai riservato, tanto che nessuno aveva idea di dove abitasse. Il sabato precedente, mentre gli altri ballavano sulla pista, si era seduto accanto a Lucia che sorseggiava un gin tonic e le aveva chiesto da accendere. Lei gli aveva porto l’accendino e chinandosi verso la fiammella lui aveva esclamato:

“Che buono il tuo profumo, sa di rose rosse”

e lei si era subito confusa, sentendosi avvampare. Dopo un poco il ragazzo si era alzato e le aveva rivolto un breve sorriso già distratto.

“Ciao, Lucia, ci vediamo”.

Lucia si era allora abbarbicata a quelle ultime due parole e aveva ribattuto d’impulso:

“…quando?”

Il ragazzo aveva alzato appena un sopracciglio, l’aria perplessa di chi intuisce ma preferirebbe non capire:

“…ci vediamo sabato prossimo”.

Lucia era dunque andata incontro alla serata animata da una certa trepidazione, ma Gianluca non s’era visto né al bar né al Rose’s, così aveva lasciato il locale dopo appena un’ora. Non era solo la delusione, né l’imbarazzo nel dover infine riconoscere di avere preso un grossolano abbaglio; era piuttosto il riconoscimento della disperazione che stava dietro quell’ingenuo fraintendimento e il timore che nulla sarebbe mai cambiato. Stava per finire anche il tempo delle illusioni.

Era presto per tornare a casa e aveva voglia di rumore, di gente, di qualcosa che la distraesse da riflessioni insostenibilmente lucide. Si diresse verso Brera, lasciò l’auto in via Solferino e raggiunse a piedi vicolo Fiori Chiari. Conosceva i due buttafuori del Mirò, il locale che proponeva musica degli anni ’60 dal vivo e poté entrare nonostante la calca del sabato sera: facendo spesso da tappezzeria si finisce col chiacchierare con i baristi e i buttafuori, traendone qualche vantaggio. Il Mirò era un locale di dimensioni ridotte, un corridoio posto sotto il livello stradale con una prospettiva furbescamente ingrandita dagli enormi specchi laterali.

Gli occhi ci misero un poco ad abituarsi alla penombra fumosa dell’ambiente. Era arredato in stile rococò e con grande profusione di damascato rosso e oro, in assoluta dissonanza con gli anni ’60 che vi si celebravano. In un momento di pausa del gruppo musicale, allorché tutte le luci furono accese, Lucia riconobbe l’uomo appoggiato a una colonna, appena più avanti. Ne osservò i lucenti capelli castani ricadenti sulle spalle larghe e il volto dai tratti marcati. Un accenno di barba di una tonalità più chiara della chioma accentuava la linea decisa della mascella, i corti baffi ponevano in risalto la bocca dalle labbra carnose. Più giovane di lei di qualche anno e bello, seppure con un’irrimediabile mancanza di finezza che né l’aspetto curato, né la bella camicia bianca sopra i jeans neri potevano dissimulare.

Forse sentendosi osservato, l’uomo dagli occhi spaiati si volse verso di lei e i loro sguardi si incrociarono. Era l’una passata e risposero entrambi alla medesima fretta superficiale, quando formularono l’identico annoiato pensiero: “perché no?”

 Si avvicinarono e conversarono per un poco, ridendo senza divertimento del loro primo incontro avvenuto quella mattina. Esauriti ben presto gli argomenti, finsero di prestare attenzione alla musica. Lucia pensò che stava finalmente calcando la scena, invece di assistere alla commedia degli altri, lui decise che non poteva più aspettare.

Uscirono nella notte che si stava rinfrescando mentre i locali si preparavano alla chiusura; i giochi erano ormai fatti e le figure del caleidoscopio svanivano in veloce dissolvenza. Il Maggiolino era parcheggiato in via Solferino, a qualche decina di metri dall’Alfa.

Le circostanze, gli incontri, le coincidenze, le congiunzioni astrali.

“Andiamo a casa mia, ti va?”,

aveva detto lui, facendosi sempre più vicino.

“…va bene. Ti seguo con la mia auto”.

Era il momento che Lucia aspettava da tanto, anche se sapeva che sarebbe stato appena un fugace lampo nel buio, e del resto da quel tizio non avrebbe potuto volere altro. Scoramento e desiderio bruciante, l’uomo dagli occhi spaiati riconobbe d’istinto i due sentimenti antitetici e ne fu subito attratto.

La cinse d’improvviso in un abbraccio sospingendola contro il portone di una casa e fu allora che percepì la fragranza che emanava la pelle della donna: una rosa sontuosa, pulita, assoluta, i petali vellutati bagnati di rugiada. Precipitò indietro nel tempo, a quel giorno di maggio di diciotto anni prima. Sentì l’eccitazione montare come un’ondata poderosa, ne udì il fragore soverchiante.

Aveva appuntamento con Laura al Leoncavallo, quel pomeriggio, ma lei non s’era vista. Si era subito preoccupato perché sapeva che aveva ricominciato a farsi ed era sempre più evanescente, persa in uno sconforto che lui, con il suo inutile amore, non sapeva consolare. Era corso a casa sua, in viale Famagosta. La porta d’ingresso non era nemmeno chiusa a chiave, sua madre era al lavoro dall’alba. L’aveva trovata seduta a gambe larghe sul pavimento del bagno, la schiena e la testa poggiate alle piastrelle opache di umidità incrostata. Respirava male, l’ago era ancora in vena, il laccio emostatico allentato sul braccio scarno. Aveva gridato il suo nome scuotendola, atterrito dalla quieta disperazione del suo sguardo; si era ricordato del profumo che aveva rubato da una bancarella al mercato perché era il compleanno di Laura, ma non aveva soldi per comprarle un regalo. Le aveva spruzzato addosso il liquido respirandone l’aroma di rosa, una rosa gentilmente sensuale e dicendo sciocchezze a caso nel solo intento di non lasciarla andare. Laura allora aveva dischiuso le labbra in un sorriso grato. Lui osservò, sgomento e ammaliato in egual misura, la vita defluire dal suo sguardo finché non divenne fermo e opaco; allora si accorse che stava ancora sorridendo.

 Lucia si era dapprima abbandonata al desiderio che si faceva incalzate, in preda al medesimo insidioso fatalismo che sul finire di alcune notti la induceva a spingere sempre di più il piede sull’acceleratore. Poi era stata distratta dal suono di una voce che le era sembrato di riconoscere e si era sottratta all’abbraccio un poco soffocante. Si era allora imbattuta negli occhi spaiati dell’uomo, scoprendoli allineati nella medesima folle vacuità.

Divincolandosi con un’energia che mai avrebbe immaginato di possedere, lo aveva spintonato e quello, colto di sorpresa, era caduto a terra lasciandole il tempo di balzare in auto e partire a razzo, le gambe tremanti e il cuore in gola. Solo quando era arrivata a casa aveva pianto: non per lo spavento né per il sollievo di essere scampata a un probabile pericolo, ma per l’ennesimo sgarbo di un destino tignoso che nemmeno le concedeva l’effimero inganno di un momento di piacere, quale surrogato dell’amore che non conosceva.

Era i momento in cui il buio si stempera nel tenue chiarore dell’aurora, l’ora in cui tutto finisce e tutto ricomincia.

L’uomo dagli occhi spaiati aveva guidato per diverse ore senza meta, fino a quando non si era placato. Quella scema, con il suo sciagurato profumo di rosa che ancora sentiva nel naso ma in realtà ce l’aveva in testa, lo sapeva bene. A est appariva un chiarore dorato, la notte era finita. Non che facesse molta differenza, per uno che l’oscurità se la portava dentro, sempre più fonda. Avrebbe dovuto pazientare e stare attento, se voleva continuare a stare fuori dai guai.

La prossima volta. La prossima volta andrà tutto bene e sarà magnifico.

Curiosamente, Lucia e l’uomo dagli occhi spaiati scivolarono in un sonno scontento afferrandosi al medesimo salvifico pensiero, ma certo fu soltanto una stramba coincidenza.

https://youtu.be/5DrjnffvVSQ

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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