Il colore – e la nazionalità – dei soldi

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Nel 2005 l’azienda Cinese Lenovo acquistò la divisione personal computer dell’IBM per complessivi 1,75 miliardi di dollari. Sia gli ambienti finanziari che quelli industriali furono colti di sorpresa: generalmente l’azienda di un paese ricco compra un asset in un altro che lotta per uscire dall’arretratezza. Nel caso in questione si verificò l’opposto, un simbolo dell’ascensione della Cina e forse del passaggio del testimone per la futura supremazia mondiale. Dopo anni di successi, Lenovo non è ancora soddisfatta. Lo scorso Dicembre ha inaugurato il suo primo sito produttivo negli Stati Uniti, a Whitsett, in North Carolina, dove dà lavoro a 115 addetti. I dirigenti dell’azienda hanno espresso con franchezza le motivazioni della scelta: i salari aumentano in Cina e diminuiscono negli Stati Uniti. Esiste ancora una differenza, ma la scelta consente di stare vicino ai clienti statunitensi. Il caso Lenovo illustra bene i termini del dibattito negli Stati Uniti per capire se gli investimenti dalla Cina siano utili o dannosi all’economia del paese. Di conseguenza, azioni governative dovrebbero essere assunte per favorire, limitare o addirittura proibire l’espansione della Cina. C’è accordo nel dare il benvenuto alla creazione di posti di lavoro. I dubbi sorgono quando alcuni settori ritengono che la Cina crei nuovi posti di lavoro dopo avere eliminato quelli vecchi, o almeno contribuito a farlo. È noto che l’intervento di Pechino è duplice, sia sul versante finanziario che su quello industriale. L’acquisto del debito di Washington è ormai consolidato, seppure di dimensioni colossali. Tuttavia, è la presenza di Pechino nelle aziende Usa ad aumentare i timori o le speranze. I suoi sostenitori ritengono che aprire le porte ai capitali cinesi appartenga alla filosofia – finora redditizia – del libero mercato. Gli Stati Uniti non dovrebbero abbandonare un modello d’impresa che finora li ha visti primeggiare. La Cina dovrebbe essere dunque incoraggiata a investire, nel pieno rispetto delle leggi. Nel dinamismo della società americana può trovarsi la cura a un declino temporaneo, delegando alla trattativa tra governi la soluzione per interventi che minaccino gli equilibri e la sicurezza. I critici pensano invece che le ambizioni di Pechino siano ambivalenti, tendenti cioè ad acquisire la supremazia politica attraverso risultati economici. Lamentano il ruolo delle imprese di stato, che cercano risultati non solo aziendali, come reperire tecnologia, costituire una posizione dominante sul mercato, ricevere aiuti che alterano la concorrenza. Sostengono che l’attività prevalente sia non tanto di tagliare i nastri per l’inaugurazione di nuove fabbriche, quanto di cambiarne la proprietà. L’esperienza della Lenovo in North Carolina sarebbe dunque un’eccezione, non la regola. Per tutti questi motivi, ritengono pericolosa l’apertura alla Cina e premono per un rafforzamento del CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States), che fornisce al Presidente elementi per valutare l’impatto sulla sicurezza nazionale della presenza economica straniera. La disputa non si risolve, anche perché la misura degli investimenti di Pechino non è nota. Ufficialmente i dati vengono raccolti dall’agenzia federale BEA ( Bureau of Economic Analysys) che attesta lo stock di investimenti cinesi negli Usa a 5,1 miliardi di dollari nel 2012. È una cifra in crescita, ma ancora pari a1/10 del flusso opposto, dato che quelli statunitensi in Cina si sono accumulati in 51,4 miliardi. Esistono comunque dei flussi di provenienza incerta, probabilmente da Hong Kong e da paradisi fiscali, che possono essere ricondotti alla Cina. Sempre la BEA fissa questi apporti a ulteriori 5,4 miliardi. Con gli investimenti degli UBO (ultimate beneficial owner) la presenza cinese viene più che raddoppiata. Ancora più significativa appare la valutazione di un prestigioso centro di analisi e consulenza, la Rhodium Group. I suoi studi conteggiano lo stock di investimenti cinesi in 7,1 miliardi di dollari e addirittura in 12,2 a settembre 2013. È di tutta evidenza la diversa ripercussione che si avrebbe rispetto a queste ultime cifre. La loro verosimiglianza getta infine delle ombre sul possibile controllo dei flussi e forse sulla sua efficacia. Il mondo degli affari è apparso finora più attento alla grandezza dei capitali che alla loro provenienza. Appare più poroso di quello istituzionale. È difficile rintracciare l’origine del denaro in un mondo globalizzato, perché la libera circolazione di capitali ha consentito libertà inedite. Oggi ne trova vantaggio anche la Cina, perché gli apparati produttivi hanno bisogno di risorse prima ancora di identificarne le bandiere di provenienza.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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