Il quieto vivere

“Siamo quelli dell’Alfa Romeo siamo quelli dell’autunno che diciamo questo inferno non dovrà più continuar…

…Siamo quelli dell’Alfa Romeo di lavoro non vogliam morire e diciamo ora basta questo schifo dovrà finire” (Franco Trincale, “Siamo quelli dell’Alfa Romeo”)

Il mercoledì sera del 15 ottobre 1969, sul primo canale della Rai durante il telegiornale della sera scorrevano le immagini dei cortei che la mattina avevano attraversato Milano partendo da cinque punti differenti: piazzale Lodi, piazzale Loreto, piazza Firenze, via Ripamonti, Lambrate.

Era l’autunno caldo, già preannunciato dal socialista Francesco De Martino intervenendo alla Camera ai primi di settembre: il giorno dello sciopero generale, indetto dalle tre confederazioni sindacali per protestare contro il carovita, andava in scena dopo settimane di volantinaggi, tensioni e picchetti davanti alle fabbriche. Era la stagione in cui gli operai delle grandi fabbriche del nord, importanti attori del miracolo economico iniziato il decennio precedente, presentavano il conto e al loro fianco, per la prima volta, marciavano studenti, impiegati, molti intellettuali e artisti.

Quel giorno a Milano, mentre all’Arena il cantastorie Franco Trincale eseguiva le sue ballate e sul palco, accanto ai dirigenti sindacali c’era anche il Sindaco Aldo Aniasi, in vari punti della città erano scoppiati dei disordini prontamente contenuti con cariche della polizia. Non erano mancate le manganellate indiscriminate dei celerini: sebbene costoro appartenessero  al medesimo proletariato e fossero egualmente malpagati, avendo indossato una divisa si ritrovavano schierati dall’altra parte della barricata. Il caso (o il destino), proprio in virtù di quella divisa e della conseguente sospensione del giudizio sulla legittimità di talune azioni, il giusto e lo sbagliato sostituito dagli ordini da eseguire, offriva loro l’opportunità di trasformarsi, almeno per qualche mezz’ora, da prevaricati a prevaricatori.

“Aveva ragione tuo padre: meglio farsi gli affari propri e non immischiarsi, mai”,

sentenziò decisa la vedova Melandri, scrollando il capo sul quale resistevano stancamente rade ciocche di capelli neri striati di grigio.

Attilio Melandri, classe 1895: era sopravvissuto a due guerre mondiali e a tutto quello che accadde nel mezzo, compresa la spagnola. Lo avevano mandato a bottega da un fornaio che aveva appena dieci anni, poi negli anni ’20 era approdato all’Alfa Romeo, al Portello. Uomo avvezzo alla fatica e di straordinaria resistenza nonostante la corporatura mingherlina, aveva trascorso la prima parte dell’esistenza impegnandosi a schivare le disgrazie causate dalle turbolenze che movimentarono quel periodo storico. L’indole incline alla ritrosia e una patologica inerzia dell’intelletto lo avevano condotto a un atteggiamento di cocciuta neutralità che era divenuta il filo conduttore del suo agire, o meglio del non agire, e infine la cifra della sua vita.

Si fece gli affari suoi anche quando nel ’38 entrarono in vigore le leggi razziali e gli ebrei che vivevano a Milano furono d’improvviso degradati da colleghi, vicini di casa, docenti e stimati professionisti a individui da discriminare e perseguitare. Ma l’Attilio Melandri, operaio saldatore all’Alfa Romeo del Portello, tirò dritto anche allora e pensò che se chi comandava aveva promulgato una legge siffatta, una ragione ci sarà pure stata e comunque le leggi vanno rispettate, soprattutto se infrangendole si rischia la galera o molto di più e di peggio.

Nell’ottobre del ’43, dopo la resa incondizionata agli Alleati e la fuga ignominiosa dei vertici del Governo italiano, era iniziata l’occupazione tedesca.

“Lo vedi che ho ragione a non prendere posizione, Rosa? Quelli che ieri erano nemici oggi sono amici e viceversa, sempre meglio stare in disparte, né con gli uni né con gli altri. Tanto, per la gente come noi son tutti buoni alla stessa maniera”.

Proprio in quei giorni al Melandri capitò di udire per caso una conversazione a mezza voce tra due capi reparto dell’Alfa Romeo. Si trovavano nel bagno ed erano evidentemente convinti di essere soli; uno dei due, il quale vantava un amico tra i gerarchi fascisti, raccontava all’altro che il giorno dopo, un sabato, al 50 di via Ripamonti avrebbe avuto luogo il rastrellamento di un paio di famiglie di ebrei che vivevano da anni in quelle case di ringhiera. Il Melandri aveva avuto un lieve sobbalzo, perché abitava proprio in via Ripamonti al 50 con la moglie Rosa e il figlio quindicenne Emilio; inoltre conosceva bene quelle due famiglie, per quanto non si fossero mai frequentati. Occupavano due appartamenti adiacenti all’ultimo piano; dei Fasano sapeva che il capofamiglia faceva il ciabattino in un bugigattolo in via Quadronno, la moglie era sarta e lavorava in casa e avevano un bimbo di pochi anni, mentre il signor Angelini riparava orologi nel retrobottega di una gioielleria in Corso di Porta Vigentina e la moglie badava a due gemelli di un paio d’anni.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Si interrogò per tutto il giorno su cosa fare di quell’informazione. Aveva sentito parlare di ebrei deportati in certi campi di lavoro all’estero, ma se anche avesse avvisato quelle persone, che avrebbero potuto fare? In quegli  anni avevano fatto di tutto per passare inosservati; se non erano scappati prima, evidentemente non sapevano dove andare. E poi, se quegli altri avessero scoperto che aveva fatto la spia? Prevalse infine la consolidata tendenza a mettere in atto tutto ciò che era necessario per conservare il proprio stato di quiete, corroborata da un intorpidimento morale talmente greve da avere fiaccato la volontà di distinguere il bene dal male.

All’alba del giorno dopo, non appena dei passi pesanti risuonarono sul ballatoio accompagnati da brevi ordini secchi, la famiglia Melandri al completo si zittì aspettando che il destino si compiesse. Udirono i bimbi frignare, gli uomini protestare, rumore di ceffoni e offese sputate a denti stretti. Poi tornò la calma, la gente si affacciava alla ringhiera, qualcuno urlò

“Fascisti bastardi!”,

tutti uscirono in strada a commentare il fatto, mentre il cielo si faceva via via più chiaro. Qualcuno chiuse con delicatezza gli usci dei due appartamenti che apparivano come occhi spalancati su un modesto quotidiano violato, strappato via, e ripose le chiavi sotto gli zerbini.

Quei malcapitati finirono dritti alla stazione Centrale, binario 21, ma il Melandri, che era uno che si faceva gli affari propri, non lo seppe mai.

All’inizio degli anni ’50 la famiglia lasciò la vecchia casa di ringhiera per stabilirsi in un anonimo caseggiato in via Varesina, dove c’era il bagno in casa. Seguì un decennio finalmente tranquillo e relativamente prosperoso; Emilio aveva conseguito il diploma in ragioneria e lavorava all’ufficio contabilità di un’importante azienda del settore pubblicitario. Era cresciuto proprio bene, un ragazzo giudizioso che aveva perfettamente assimilato il principio fondamentale di farsi gli affari propri, starsene defilati, evitare di schierarsi. Come aveva sempre fatto suo padre, il quale anche in fabbrica si era sempre sottratto agli inviti a iscriversi al sindacato.

Attilio Melandri doveva avere incontrato solo gente che si faceva gli affari propri una sera piovosa, nell’inverno del 1960, in cui rincasava a piedi dopo che l’autobus aveva avuto un guasto, costringendolo a scendere un paio di fermate prima. Si era imbattuto in due ragazzotti che lo avevano spinto dentro un portone: volevano portafoglio e orologio, ma quando avevano constatato che era privo di orologio e in tasca aveva solo quattro spiccioli si erano alterati; benché egli non avesse reagito, uno dei due lo aveva accoltellato ed erano subito fuggiti. Si era trascinato barcollando sulla via per qualche metro,  senza nemmeno il fiato per chiedere aiuto; i rari passanti lo avevano scansato, diffidenti o indifferenti. Era morto per la strada da solo, come del resto era sempre stato.

Al suo funerale c’era appena qualche parente e pochi conoscenti. Nei negozi sotto casa si commentò più che altro il delitto, sulla vittima era opinione comune che fosse una brava persona, uno che si faceva gli affari propri; qualcuno rammentò che era anche gentile, salutava sempre, cosa che normalmente si dice anche degli assassini sociopatici. Il figlio Emilio avrebbe dovuto riflettere sull’evidenza di un fatto che comunque gli era noto, ovvero che il padre non avesse amici, e ancor più sulla tristezza dell’oblio al quale egli si era consegnato già da quando era ancora in vita: ma non lo fece, perché aveva ereditato la medesima radicata quiescenza ed era stato fermamente educato al mantenimento di una rigorosa posizione neutrale. Vi era stato un periodo, precisamente negli anni in cui frequentava ragioneria, in cui la curiosità lo stimolava a elaborare una personale opinione sugli eventi, sulle idee e sulle questioni di principio, senza necessariamente doverla esprimere. Una sana abitudine che si spense progressivamente con l’andare degli anni, sostituita da un apatico distacco.

Benché l’autunno fosse metaforicamente caldo, una mattina di fine ottobre  Milano era una foto in bianco e nero, i colori inghiottiti da una nebbia gocciolante un pulviscolo umido. Lo sguardo di Emilio Melandri di tanto in tanto si perdeva nel grigiore lattiginoso al di là della finestra, sforzandosi di distinguere i contorni degli edifici sull’altro lato di via Dante. Con il sopraggiungere del buio, se la nebbia non si fosse alzata un poco avrebbe fatto fatica a trovare il portone di casa.  Lo trovò a stento, in effetti, ma poi fu finalmente a casa: tepore e odore di minestrone, la tavola già apparecchiata, sua madre che lo aspettava.

Dopo la morte improvvisa del padre, la signora Rosa aveva posto il figlio al centro del suo ristretto universo. Oppresso da un peso talvolta difficile da sostenere, in quegli anni Emilio aveva tentato due o tre volte di allacciare una relazione con una ragazza: il matrimonio gli avrebbe consentito di sfuggire alle  asfissianti attenzioni materne e alle egoistiche pretese, senza dover affrontare le discussioni che aveva sempre evitato per amore del quieto vivere. La madre lo aveva efficacemente osteggiato in modo diretto e con sotterfugi sleali, scoraggiando la fidanzata di turno con ingerenze pesanti; il figlio aveva masticato amaro per qualche tempo senza prendere posizione ed era stato invariabilmente mollato, convincendosi poi che, in fondo,  quelle ragazze non lo avevano amato davvero.

La signora Rosa si accorse che il figlio quella sera era distratto e assente; pensò che dovesse avere qualche problema in ufficio del quale preferì non immischiarsi. In realtà Emilio stava pensando alla signorina Renata Vandelli, la collega di Modena che avrebbe finalmente incontrato l’indomani.

Addetta all’ufficio contabilità della filiale modenese dell’azienda, all’inizio dell’anno aveva avuto occasione di confrontarsi con lui al telefono e lo aveva subito identificato come interlocutore privilegiato, al quale rivolgersi per ogni minimo dettaglio che avesse necessità di essere discusso. Durante tali conversazioni di carattere professionale, dalle quali era subito emersa una reciproca simpatia, si era gradualmente stabilita una sorta di complice affiatamento e le telefonate erano divenute una consuetudine che esulava dalle specifiche esigenze legate al lavoro. Era uno strano rapporto sospeso, gratificante e insieme asettico, confinato in una dimensione parallela alla realtà quotidiana.

“Ma lo sai Emilio che devo venire in sede a Milano per quella riunione con tutti i responsabili degli uffici di contabilità? Dai, che finalmente ci vediamo”,

aveva detto lei qualche giorno avanti con quella voce pastosa, morbidamente cantilenante, una voce di una sensualità opulenta che a volte gli metteva i brividi e gli faceva anche abbandonare del tutto il filo del discorso per smarrirsi in fantasie di tutt’altro genere. Non sapeva se era contento. Se l’era figurata in un certo modo, immaginando un corpo attorno a quella voce, ma quante probabilità c’erano che fosse davvero così? E cosa avrebbe fatto, in un caso come nell’altro?

La mattina dopo si preparò con una particolare cura. La riunione avrebbe avuto luogo nella grande sala riunioni alle otto e trenta e sarebbe durata fino all’ora di pranzo. Naturalmente lui l’aveva invitata; aveva pensato a una piccola trattoria in via Camperio, che dall’ufficio in via Dante avrebbero potuto raggiungere a piedi in pochi minuti.

Lei arrivò trafelata a causa di un ritardo del treno, appena in tempo per entrare in sala riunioni. Emilio ne udì la voce fascinosa, finalmente nitida e pienamente dispiegata, prima ancora di scorgerla: poi la vide e la riconobbe immediatamente, dopo averla tanto immaginata.

Di altezza media, quando Renata Vandelli si era tolta il pesante cappotto rosso rubino aveva rivelato una figura armoniosa, fianchi tondeggianti, il seno generoso e la vita sottile. La gonna appena sopra al ginocchio mostrava gambe dritte e ben tornite, sorrette da caviglie che parevano persino troppo sottili. I capelli castani coprivano le orecchie e il collo in piccole onde e facevano da cornice al volto, un ovale dal mento appena appuntito con grandi occhi marrone chiaro punteggiati d’oro, il naso corto e la bocca dalle labbra carnose, gli angoli appena sollevati in un abbozzo di sorriso.

La mattinata trascorse in fretta; si ritrovarono nell’ingresso per andare a pranzo e si avviarono verso via Camperio. La nebbia era scomparsa ma Milano seguitava a presentarsi in bianco e nero, il cielo intento ad annunciare un’acqua che pareva imminente, poi magari non sarebbe caduta nemmeno una goccia e la città avrebbe serbato ancora a lungo la crosta di sudiciume che nemmeno un anno di piogge ininterrotte avrebbe potuto lavare via.

Presero posto a un tavolo in fondo alla sala; a quell’ora vi erano diversi altri impiegati che lavoravano in centro ed erano costretti a consumare il pasto del mezzogiorno fuori casa: era un locale vecchio e senza troppe pretese, ma la cucina casalinga era più che accettabile.

“È proprio come m’immaginavo che fosse”, ragionava Renata osservando con discrezione l’uomo che le sedeva di fronte: sulla quarantina, non molto alto e magro, l’aspetto distinto nel completo grigio e il tratto gentile che aveva conosciuto al telefono e le era subito piaciuto. Aveva un viso gradevole e un poco severo, gli occhi chiari e il naso lungo, la bocca sottile adornata da baffi curatissimi. I capelli biondi, tendenti a diradarsi sulle tempie, erano corti e pettinati con la scriminatura sulla sinistra. Un uomo che cedeva il passo alle signore con una cavalleria d’altri tempi, che parlava con il tono sommesso di chi non vuole disturbare e sapeva ascoltare. Notò pure le tracce di una certa rigidità: la postura impettita, lo sguardo un poco fisso, le mani compostamente inerti: ma forse era solo imbarazzo, lei sapeva bene di fare un certo effetto agli uomini. Non doveva essere un tipo brillante però pareva accomodante, questo sì; concluse allora che forse non avrebbe potuto innamorarsene ma certo avrebbe saputo volergli bene. Era sola da così tanto tempo, e così stanca di sperare e di doversi disilludere, ogni volta, per ritrovarsi nuovamente sola.

 Mentre Renata raccontava qualcosa con quella voce involontariamente torbida, aggiustandosi di tanto in tanto i capelli con un gesto di ingenua civetteria, Emilio considerava come la sensualità del timbro vocale e della figura procace risultasse fatalmente afflosciata dalla gestualità impacciata e priva di qualsiasi malizia. Quella donna, senza dubbio assai piacente, faceva pensare più a un peccato di gola che a una trasgressione sessuale: era come un dolce casalingo, burroso e fragrante, appena tolto dal forno.

Emilio ne fu sollevato perché ciò la faceva apparire inaspettatamente accessibile; allora provò a immaginare di averla accanto ogni giorno e non fu difficile scorrere le immagini che la ritraevano davanti ai fornelli o al suo fianco al supermercato Esselunga, al sabato mattina. Non doveva vere più di trent’anni ed era dotata di una bellezza destinata a sfiorire precocemente; una gravidanza l’avrebbe sicuramente lasciata con dei chili di troppo, ma per lui sarebbe stata egualmente bella. Con un bambino forse avrebbero sostituito la 500 con una vettura un poco più comoda, in fondo lui guadagnava piuttosto bene e aveva da parte dei risparmi. Forse, chissà, era ancora in tempo. Nel suo sogno a occhi aperti si era scordato della signora Rosa ma d’altronde era, per l’appunto, un sogno.

Il locale si stava svuotando; per Emilio si avvicinava l’ora di tornare in ufficio, per Renata era quasi tempo di avviarsi verso la stazione Centrale e salire sul treno che l’avrebbe riportata a Modena. Era un momento di silenzio titubante nel quale ognuno dei due cercava le parole giuste per chiudere l’incontro, aprendo nel contempo alla concreta possibilità di intraprendere una relazione che fosse qualcosa di più di una gradevole consuetudine telefonica.

La porta d’ingresso si spalancò ad un tratto con colpo violento che la fece sbattere contro il muro; un individuò apparve all’improvviso recando con sé una folata di aria fredda e facendone in qualche modo parte, come se la sua stessa persona ne fosse la causa diretta. Era giovane e robusto, il volto risultava mezzo coperto da un incongruo foulard nero a piccoli fiori grigi simile a quello che usavano portare sul capo le vecchie contadine.

“State tutti fermi e zitti!”,

disse con voce spaventosamente calma, in netto contrasto con gli occhi spiritati dalle pupille dilatate. Nella mano destra impugnava saldamente una grossa  pistola.

“Portafogli, orologi e gioielli sui tavoli, svelti!”

Via Camperio a quell’ora (erano quasi le due del pomeriggio ed era una giornata fredda) era assai tranquilla e i pochi passanti tiravano dritto a testa bassa frettolosi di raggiungere la loro destinazione, qualunque essa fosse.

Il ragazzo doveva essere un disperato, perché in quella trattoria di gente con tanti soldi o con gioielli di valore non ne entrava affatto. Prese ad aggirarsi tra i tavoli raccogliendo ciò che trovava, l’arma puntata contro chiunque avesse di fronte. Quando raggiunse il tavolo di Emilio e Renata si accorse che quest’ultima cercava goffamente di nascondere l’orologio. Emilio aveva notato l’orologino di foggia antiquata con il sottile bracciale d’oro (o forse dorato) a maglie strette e gli aveva subito rammentato le gozzaniane buone cose di pessimo gusto.

Senza dire una parola, fulmineo il ragazzo le afferrò il braccio con un gesto iroso, torcendolo con forza e puntandole la canna della pistola dritta in faccia. Lei si mise a piangere,

“…per favore, era di mia mamma!”

Emilio assisteva attonito alla scena e ripensava a tutte le volte che aveva evitato di discutere con chiunque, compresa sua madre, per amore del quieto vivere, a tutte le volte che si era defilato, né con gli uni né con gli altri, accettando supinamente e più che altro per colpevole ignavia gli insegnamenti dei genitori. A furia di non scegliere aveva smarrito la facoltà di distinguere e decidere, proprio come suo padre, il quale ciononostante era finito ammazzato per strada.

Il ciarpame reietto, così caro alla mia Musa, tornò a tormentarlo Gozzano. Allora percepì finalmente un profondo turbamento, come se la coscienza si fosse ridestata da un lungo sonno e reclamasse attenzione. Balzò in piedi e si gettò a peso morto contro il ragazzo, atterrandolo.

“Lasciala, lasciala stare!”

Ebbe l’inconscia presenza di spirito di scaraventare lontano la pistola della quale il malvivente aveva mollato la presa; si prese subito un paio di cazzotti in faccia ma il proprietario del locale e un paio di avventori furono pronti ad intervenire, riuscendo infine a immobilizzare il ragazzo.

Trascorsero buona parte del pomeriggio negli uffici della Questura di via Fatebenefratelli e verso sera Emilio accompagnò Renata alla stazione Centrale, dove si salutarono con un abbraccio.

Emilio decise di fare una lunga passeggiata prima di rincasare, così scese dall’autobus in Corso Sempione. Si sentiva euforico nonostante lo zigomo dolorante, un poco frastornato ma soddisfatto. Eppure, a mano a mano che si avvicinava a casa, la sensazione di benessere andava scemando.

Ma io non sono così, sono solo stato capace di un isolato gesto eroico, scriteriato e probabilmente unico. Ci vogliono coraggio e impudenza per scegliere ogni giorno da che parte stare e occorre un impegno che io non sono in grado di sostenere. Oggi Renata ha visto un uomo che non esiste; è stato bello fingere di poter cambiare ma è solo un’illusione.

Quando varcò la soglia di casa era ormai rientrato nel consueto apatico grigiore del quieto vivere, che ora gli appariva come un consapevole lasciarsi spegnere, un giorno dopo l’altro. Lo accolse il solito odore di minestra.

“Come è andata oggi?”

“Come al solito”.

“Ma cos’hai fatto alla faccia?”

“…niente, ho sbattuto contro una porta a vetri”.

“Che scemo che sei, ma stai un po’ più attento”.

Che bello sarebbe dire “mamma, me ne vado. Voglio andare per la mia strada, voglio decidere su quale lato della via camminare”.

Magari, domani. Domani.

https://youtu.be/Z0kcdSHK5Cg

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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