In questo mondo di dazi

dazi tradewar
Cina e Stati Uniti sono da mesi impegnati nei negoziati per trovare un accordo sugli scambi commerciali, l’incapacità nel raggiungerlo rappresenta la più seria minaccia per la crescita economica nel 2019, anno in cui nessun analista vede, ancora, i segni di una possibile incipiente recessione.

Washington chiede, tra le altre cose, una riforma del diritto cinese che includa alcuni aspetti di politica commerciale concordati con la Casa Bianca.
Ma lo stesso presidente Xi Jinping si è opposto, rendendo impossibile concludere un accordo.

Così, pochi giorni fa, il presidente Usa Donald Trump ha avviato un’escalation dei dazi sui beni cinesi per 200 miliardi di dollari, a cui Pechino ha risposto velocemente con una ritorsione di dazi su prodotti americani. Esistono ancora speranze di accordo? Dove si sentiranno le ripercussioni? Quanto saranno gravi?

Ora come ora né Washington né Pechino dispongono di molti spazi per compiere un passo indietro. Entrambi hanno alzato l’asticella a livelli da cui è difficile recedere senza “calare le brache”. Un accordo è ancora possibile, ma ora servirà tempo e il quadro resterà caratterizzato comunque da tariffe più elevate rispetto a quanto fossero qualche mese fa.

Ovviamente il quadro potrebbe anche peggiorare. Gli Stati Uniti hanno avviato le pratiche necessarie per imporre i dazi su tutte le altre importazioni cinesi, una mossa che farebbe più che raddoppiare il numero di merci coinvolte.

La procedura richiederà uno-due mesi, un arco di tempo in cui dobbiamo presumere che i soggetti impegnati nelle negoziazioni continueranno le trattative. La Cina non mancherà di mettere in atto delle ritorsioni, sulle cui tempistiche e modalità aleggia tuttora un velo di incertezza.

LE RIPERCUSSIONI SUI CONSUMATORI STATUNITENSI

L’incertezza è un elemento che piace molto poco sui mercati finanziari, da qualche giorno più esposti a un maggior rischio di correzione dopo gli ottimi profitti registrati da inizio anno.
Se la nuova serie di dazi doganali verrà resa operativa, l’economia cinese verrà colpita.

Ma come dicevano gli antichi «se Atene piange, Sparta di certo non ride»: i consumatori statunitensi ne sentiranno l’effetto sotto forma di rincari, con un impatto più diretto in termini di inflazione rispetto alla prima tranche di dazi che aveva colpito principalmente beni capitali e intermedi.

I RISCHI PER LA VECCHIA EUROPA

Ma c’è un altro detto che viene messo sul tavolo in questa vicenda e che, a ben guardare, bisogna attendersi che venga capovolto: «Tra due litiganti, il terzo… perde».

Nel clima di scontro tra le due principali economie del mondo, che sembrano avviate a creare una nuova forma di Guerra Fredda, la vecchia Europa rischia di trovarsi nel ruolo di vaso di coccio tra due vasi di ferro.

Non dimentichiamo infatti che, nel mostrare alla Cina un atteggiamento irremovibile sul commercio, gli Usa dovranno a breve decidere l’imposizione di dazi sulle auto di importazione.

Nel caso, un significativo rallentamento della crescita colpirebbe innanzitutto l’Europa, come ci dicono chiaramente i numeri sulla disaggregazione dei bilanci aziendali e dei Pil.
L’Europa è la parte di mondo più coinvolta nel commercio globale e che più avrebbe da perdere in una nuova configurazione in macroaree.

L’OMBRA DELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI USA

Uno degli argomenti più ripetuti da molti osservatori è che un accordo definitivo e duraturo tra Cina e Usa arriverà perché è palesemente nell’interesse di tutti: nel 2020 ci sono le elezioni presidenziali con cui Trump si gioca il rinnovo del mandato e una crisi economica sarebbe per lui un pessimo modo di arrivarci. Ma questa potrebbe anche essere una lettura troppo scontata. Geng Shuang, un dirigente del ministero degli Esteri cinese ha dichiarato serenamente:

«If the Us does not want to do business with China, others will fill the gap. China is not afraid of trade war if others bring it to us»

ovvero che il bullismo tipico di Trump non intimidisce la Cina, se gli Usa non vogliono fare affari con loro, altri partner colmeranno il gap.[sociallocker].[/sociallocker]

Chi ha paura e di cosa?

Non sembra che la Cina, da sempre orientata a guardarsi all’interno, tema troppo i negativi effetti di non accettare la sudditanza alle prove muscolari di Trump, nonostante i dati recenti di crescita della produzione industriale (+5,4% contro +6,5% atteso) e delle vendite al dettaglio (7,2% contro 8,6% atteso) mostrino una frenata brusca.

Ugualmente negli Usa Trump non si fa remore a definire «booming» l’industria americana dell’acciaio, a un anno dall’introduzione dei dazi su alluminio e acciaio, a testimonianza del successo di una strategia criticata da molti.

«In one year Tariffs have rebuilt our Steel Industry – it is booming! We placed a 25% Tariff on “dumped” steel from China & other countries, and we now have a big and growing industry».

Ma quanto è reale questo “boom”? Da un anno a questa parte:

  • le azioni di Us Steel sono passate da 35 a 15 $
  • quelle di Alcoa da 53 a 25 $
  • le azioni Nucor da 63 a 55 $
  • le AKSteel da 4.5 a 2.3 $

Se questo si chiama boom

Cosa significa tutto ciò?

Che la politica americana non teme il confronto con i dati reali, sente di poter chiamare boom una discesa e autoincensarsi, confidando nella forza della propaganda e dell’atteggiamento militante dei sostenitori.

Una crisi economica è sempre un problema da gestire in politica, ma i nemici servono proprio a questo: poter dire che ciò che non va è colpa della Cina potrebbe essere la miglior arma di Trump per chiedere agli elettori un nuovo mandato.
Serve un uomo forte per gestire un conflitto e ogni cambiamento di leadership offre il fianco a un avversario che anzi si fa forza proprio di avere un presidente con carica “a vita”.

Atene piange, Sparta non ride, ma tra i due litiganti chi rischia di disperarsi siamo noi.

Articolo pubblicato su Lettera43 il 15/05/2019
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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

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