Ora a Delhi non fanno più gli indiani

Gli indomiti ammiratori della crescita indiana ora possono esultare. Un gruppo sempre più esiguo di sostenitori del radioso futuro del subcontinente, è ora imbaldanzito da due recenti sentenze. L’Alta Corte di Mumbai ha dato ragione alla Shell in una causa multimilionaria in dollari per evasione fiscale. Smentendo la tesi della locale Agenzia delle Entrate, ha riconosciuto che non vi è stato reato nell’operazione di price transfer effettuata dalla società anglo-olandese e che dunque non erano dovute le imposte sugli utili. Un mese fa una sentenza analoga aveva assolto la Vodafone.

Due verdetti non fanno una prova, ma indicano una tendenza. Probabilmente l’India sta cambiando registro nell’eccesso di zelo applicato alle multinazionali. Per decenni sono state ostacolate da una miscela di fattori: da una burocrazia elefantiaca a una giustizia autoreferenziale, da un nazionalismo esasperato alla corruzione endemica. Nessuna impresa globale trova nell’India il suo epicentro o la leva per i suoi profitti. L’aggettivo “potenziale” relativo alla crescita precede sempre quello “reale”. Le previsioni sono sempre buone, si scrive sempre di demographic dividend, ma i risultati sono oscillanti, talvolta buoni più che deludenti, ma insufficienti a rompere la spirale del sottosviluppo. Le illusioni dello scorso decennio, quando Delhi contendeva a Pechino la crescita più sostenuta, sono rientrate nell’alveo della regolarità senza acuti. Mancano gli investimenti stranieri, l’obiettivo dei vantaggi che ha forzato le aziende a delocalizzare, trasferendo capitali e competenze in cambio di compensi immediati. Il circolo magico che ha legato le società globali alla Cina ha visto solo l’alba in India.

La vera notizia non risiede nelle sentenze, ma nella mancanza di appello del Governo. Il Primo Ministro Narendra Modi ha deciso di non ricorrere al grado superiore, rinnegando una pratica consolidata. È un chiaro segnale di tregua verso gli investitori: venite in India, non vi tratteremo male; condurremo il business insieme, divideremo gli utili. È una mossa solo necessaria, sicuramente non sufficiente. Il tempo infatti non ha lavorato a favore dell’India, rendendola una delle numerose opzioni tra i paesi in via di sviluppo. Anche se supera i regolamenti bizantini, cosa può fare un’impresa manifatturiera con le sue merci? Su quali strade le trasporta, a quali porti le imbarca? A quali canali distributivi le affida? Il costo della manodopera è effettivamente basso, ma la frammentazione del lavoro risente delle caste, la specializzazione è carente, la protezione sociale impedisce la mobilità, gli ingegneri ormai costano come in Italia.

Per iniziare la delocalizzazione, per produrre beni di consumo il magnete degli emergenti asiatici – Vietnam, Bangladesh, Filippine – è ormai pienamente concorrenziale. L’India rimane attraente nel suo disequilibrio. Le sue specializzazioni hanno bisogno di talenti, dei quali è prodiga, e di servizi. Gli investimenti hanno alimentato due settori nobili e specifici: il chimico-farmaceutico e l’information technology. Le è estraneo, se non ostile, il percorso tradizionale della produzione di beni di basso prezzo destinati all’export. Potrebbe essere un’alternativa e un complemento alla Cina, ma dovrebbe avere la stessa audacia, immaginare la stessa visione. Rimane intrappolata invece nella sua diversità, nel suo orgoglio che non l’aiuta a prendere soluzione coraggiose, nella sua politica di piccolo cabotaggio scandito dalle tornate elettorali. Modi ha fatto il primo passo, ma il percorso è lungo e difficile. Deve convincere gli investitori ma prima ancora deve modernizzare il suo paese, un compito nettamente più gravoso. Un consunto adagio recita che l’India è la più grande democrazia al mondo, così estesa da trasformarsi spesso in anarchia, sicuramente il respingente più potente per gli investimenti esteri.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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