Istruzione: l’unica possibilità per i nostri figli

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Quasi novant’anni fa, esattamente nel 1928, J.M. Keynes tenne un discorso agli studenti del Winchester College, ripetuto poi a Cambridge e pubblicato due anni dopo con il titolo Possibilità economiche per i nostri nipoti. L’argomento che l’economista toccò è ancora a dir poco attuale:

Noi invece abbiamo contratto un morbo – la disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo sempre troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza lavoro altrove.

L’anno scorso anche noi su PianoInclinato ne avevamo parlato nell’alveo dei modelli di crescita indicandone la soluzione nell’aumento della formazione superiore, un invito che vede anche Alberto Forchielli impegnato su queste stesse pagine. Più di recente il prof. De Biase sul Sole24Ore ha scritto una serie di sette articoli sull’argomento, partendo proprio citando il discorso dell’economista inglese, pur senza entrarne nel merito, evidenziando le nostre stesse conclusioni.

Ma cosa scrisse Keynes esattamente? Brevemente, lui sosteneva che la disoccupazione tecnologica fosse un problema temporaneo, destinato a creare nel giro di un centinaio di anni – appunto all’epoca dei nostri nipoti – le condizioni perchè il problema economico fosse risolto del tutto o in avanzato stato di soluzione, il tutto purchè fossero soddisfatti quattro requisiti: la capacità di controllare l’aumento della popolazione, la determinazione nell’evitare guerre e tensioni sociali, la disponibilità a affidare alla scienza il governo di ciò che propriamente le conviene, e che il tasso di accumulazione fosse fissato nel margine fra produzione e consumo. Prosegue Keynes:

il problema dell’economia, della lotta per la sopravvivenza, è sempre stato il problema fondamentale della nostra specie […] Una volta che fosse risolto, l’umanità si ritroverebbe priva del suo obiettivo più tradizionale. Sarebbe un bene? Per chi crede ai veri valori della vita, forse sì. […] Sono convinto che noi arriveremo a trarre da questa nuova abbondanza molto più profitto di quanto non facciano i ricchi di oggi, riuscendo a stilare un programma di vita molto migliore del loro. […] Nel momento in cui l’accumulazione di ricchezza cesserà di avere l’importanza sociale che le attribuiamo oggi, i nostri codici morali non saranno più gli stessi. […] Potremmo finalmente assegnare al denaro il suo giusto valore.(grassetto mio, NdA)

La profezia si conclude con il pronostico che sempre più persone, godendo di una sempre maggiore diffusione della ricchezza, abbandoneranno il morboso e patologico amore per l’accumulazione del denaro, per convogliarlo verso l’utilizzo che gli è proprio, il suo consumo per garantire una qualità migliore della vita. Lo stesso dicasi del lavoro, che si potrà ridurre a poche ore quotidiane – giusto per soddisfare una necessità innata nella natura umana – o preferibilmente eliminare del tutto.

Il discorso di Keynes presenta alcune falle logiche, e ne tradisce l’anelito politico, benchè nascosto e reso implicito nelle pieghe del discorso. Nel proseguo analizzeremo per prime le condizioni per cui la disoccupazione tecnologica possa effettivamente essere ‘temporanea’ e non creare distorsioni durature; in seguito valuteremo cosa si debba intendere per ‘problema economico’ al di là della retorica delle parole; infine valuteremo a quali condizioni l’umanità possa effettivamente giungere allo stato di benessere tratteggiato da Keynes, e se possa mai dirsi che a distanza di 100 anni dalla sua profezia ci si sia almeno avvicinati.

Lo sappiamo benissimo, la tecnologia, specie se macina a ritmi forsennati di evoluzione e innovazione, crea disoccupazione, è farsesco affermare il contrario.

Ma innovazione e aumentata produttività del capitale si manifestano – in accordo a Schumpeter e come in ogni rivoluzione khuniana – in ambiti settoriali, e impiegano tempo, in genere anni, a allargare i loro effetti su altri settori, riducendo la domanda aggregata di lavoro. Perciò, la crescita della produttività non ha immediatamente effetti sulla offerta aggregata e il livello generale dei prezzi, bensì la sua influenza parte da certi settori trainanti e si espande nel tempo ad altri.

Quindi la disoccupazione tecnologica, all’origine e per diverso tempo dopo, è prevalentemente settoriale, e i suoi effetti deprimenti a medio/lungo termine su altri settori e mercati possono essere contrastati da una contestuale crescita della formazione superiore dei giovani e degli impiegati.

Analisi storiche hanno dimostrato che la tecnologia e l’innovazione “rubano” e “distruggono” posti di lavoro ma altrettanti di nuovi ne creano, liberando anche spazi per il lavoro di concetto, la creatività e l’ingegno umani. Solo per limitarci alla recente tecnologia informatica, riflettiamo che i programmi devono essere scritti e pensati da uomini, che mettono in linguaggio macchina nuove esigenze, idee, intuizioni, progetti e disegni creati dall’immaginazione umana: ma per permetterlo vanno formate persone per occupare questi ruoli creativi.

Si intuisce subito la prima falla del discorso keynesiano: se la formazione non prosegue di pari passo l’innovazione tecnica, il suo ragionamento si inceppa. Non esistono motivi per condividere l’ottimismo di Keynes: la fruibilità e l’accessibilità all’educazione superiore in una società che sperimenta una veloce evoluzione tecnica dipendono dal grado di distribuzione della ricchezza, dai finanziamenti alla ricerca e alle università, dalla struttura stessa della società (con l’eccezione fondamentale della Cina, un paese con minore grado di democrazia liberale sarà più restio all’istruzione di una parte crescente dei suoi cittadini).

La conoscenza può liberamente fluire dovunque, ma servono soldi per accedervi. Diventa chiaro quindi che isolare la ‘formazione’ e ‘l’istruzione’ quali semplici categorie ‘supply side’ è fuorviante: tanto per fare esempi, la Legge Gelmini del 2010, riducendo i fondi per l’università di 3 miliardi di euro in sette anni, ha comportato una riduzione dei docenti del 30% spingendo molte università a introdurre il numero chiuso per garantire la qualità della didattica (e perdendo poi in sede di ricorso al Tar); Ferrera e Ricci sul Corriere del 25 settembre citano alcune iniziative adottate da governi dell’Est Europa per attrarre i propri “cervelli in fuga” a tornare in patria dopo anni di studio e perfezionamento all’estero, congiuntamente a programmi di agevolazioni fiscali e accesso ai finanziamenti per la ricerca.

Domanda e offerta, e relative ricette di politica economica, sono spesso complementari per garantire massima efficacia. Ricordiamocelo, tanto per fare scopa di molte affermazioni partigiane sulla preminenza di una politica sull’altra.

Tornando a Keynes, noi affrontiamo oggi e ieri un problema che l’economista inglese non considerò e la cui soluzione non è possibile se non si migliorano le condizioni per l’accesso a una istruzione superiore, condizioni che dipendono fortemente da come la società è strutturata e governata.

Passando al secondo discorso, quello relativo al superamento del ‘problema economico’, come appare dalla citazione sopra riportata, Keynes pare limitarne la definizione alla mera lotta per la sopravvivenza. Tuttavia se questa definizione fosse esaustiva potremmo dire che già da molti decenni tale lotta è stata vinta dal processo di industrializzazione, almeno nel mondo sviluppato.

Pertanto il problema deve essere di diversa natura, e un aiuto ce lo fornisce la nota definizione di economia dell’inglese Robbins (nota 1). Il reale problema è la scarsità delle risorse rispetto a usi e persone, o l’efficace individuazione degli utilizzi alternativi migliori?

Entrambi i concetti sono coerenti con il ragionamento keynesiano.

Manca qui lo spazio per riprendere la diatriba che oppose Hayek a Keynes sull’ignorare il problema della scarsità; qui basti rendersi conto che accanto ad una generalizzato miglioramento mondiale delle condizioni di vita, tuttavia metà della popolazione del pianeta vive con meno di due dollari al giorno, e cultura, servizi igenici e alimentari non sono a loro facilmente accessibili e pure nei paesi sviluppati si assiste ad una netta polarizzazione della ricchezza, con crescita dei “nuovi poveri” che magari non sono indigenti ma non hanno nè riescono ad accumulare le risorse per fare il “salto di qualità” come scalino sociale.

Il fatto è che questa tendenza sembra insita alla stessa natura del capitalismo, come spiegavamo qui. Perciò, affermare che la profezia di Keynes si sia avvicinata alla realtà è fare inutile partigianeria.

Gandhi aveva ragione (al mondo c’è sufficiente abbondanza per tutti, ma è sempre insufficiente per sfamare l’ingordigia di pochi), il problema della scarsità si ripropone nella forma della ineguale distribuzione della ricchezza, dell’accesso ai servizi e ai fattori che possono migliorare la qualità della vita, e torniamo a quanto abbiamo già scritto nel paragrafo precedente.

Invece, laddove Keynes si augura che si lasci alla scienza il governo di quanto le compete in ogni ambito sociale, sta sostanzialmente riprendendo un discorso già avanzato dal Saint-Simon o da Comte, i quali pensavano ad una politica “scientifica”, ossia regolata dalle analisi e previsioni dello scienziato della società piuttosto che dalle “intuizioni” del tradizionale politico.

Però, considerato il carattere inesatto della scienza economica e il fatto che le sue conclusioni di politica economica riposino sempre su assunti circa la struttura della società e delle preferenze, tutti oggetto di falsificabilità, è temerario definire ‘obiettiva‘ tale scienza sociale.

Pertanto anche la pretesa che nel tempo si riesca ad individuare efficacemente gli usi alternativi migliori è priva di fondamento. Questo perchè la politica è fortemente orientata da scelte particolaristiche, clientelari e populiste in nome del “voto elettorale”.

Secondo la profezia di Keynes, dovremmo arrivare ad uno “stato stazionario” di benessere diffuso in cui solo i veri valori della vita prevarranno e il lavoro diverrà prevalentemente inutile; anche questa però è un pronostico discutibile, in quanto le attitudini caratteristiche del capitalismo tendono a mantenere elevato l’anelito all’accumulazione parsimoniosa della ricchezza quale fondo di valore e precauzione verso l’incertezza: in particolare ci riferiamo alla polarizzazione della ricchezza fra capital e labor share e pure fra lavoratori high e low skilled, alla precarietà delle fortune dovuta alla caratteristica creativo/distruttrice del progresso, al mantenimento dello status quo quale conseguenza della finanziarizzazione dell’economia,

Arriviamo così al terzo punto, le condizioni “politiche” e istituzionali grazie alle quali questo regno dell’abbondanza dovuta alla tecnologia e alla libertà dal lavoro possa reificarsi, tanto da poter godere dell’otium decantato dagli antichi romani.
Questa visione è evidentemente fin troppo debitrice di certe sirene milliane: Keynes come Stuart Mill ritiene che la tendenza alla accumulazione avrebbe potuto cedere il passo ad un maggior equilibrio fra attività dirette all’arricchimento personale e quelle dirette a godere liberamente dei beni naturali e della cultura.
Ciò che non è esplicitamente dichiarato da entrambi gli autori, ma ne è condizione necessaria, è che è impossibile che si possa pervenire ad un tale risultato senza che intervenga alcun mutamento nelle istituzioni e soprattutto nel carattere della proprietà privata.

Solo Marx condusse a conclusione discorsi analoghi, benchè caratterizzati da un maggior antagonismo di classe, indicando nella socializzazione dei mezzi di produzione l’unica strada per garantire tale benessere diffuso (prima che qualche lettore impazzisca, non sto facendo proselitismo marxista, bensì indico semplicemente a quali condizioni il discorso keynesiano e milliano possano aver senso, NdA).[sociallocker].[/sociallocker]

Questa conclusione è anche ironica, dato che Marx, per poter arrivare alla sua ipotesi di caduta tendenziale del saggio di profitto alla base della sua teoria del ciclo capitalista, era costretto a affermare che il capitale in sé non crea plusvalore, partiva cioè da una idea che negava alla radice il problema posto da Keynes con l’innovazione tecnica.

CONCLUSIONI

Di certo questa non fu una delle migliori opere di Keynes. È viziata da errori e ottimismo, causati dall’ignorare o dal trascurare certe dinamiche innate del capitalismo, e dalla ritrosia a manifestarne chiaramente l’intento socialisteggiante, forse colpa dei tempi ma pur sempre un vulnus alla leggibilità e comprensione.

Cosa  possiamo concludere, che sono profezie inutili e da rigettare? Forse, certo non sarò io a chiedervi di crederci o sperarci. Di certo penso che una analisi più profonda e meno politicizzata avrebbe condotto Keynes a cambiare il tono della sua opera: da visionaria a esortativa spingendo le persone a prendere a cuore l’unico vero asset duraturo e rivalutabile: l’educazione scolastica superiore dei propri figli, anche a costo di ridurre oggi proprio quel consumo del denaro per offrirsi una vita migliore o più lussuosa.

La condizione di decadenza del nostro bel paese, e le sue prospettive di declino e progressiva concorrenza con i paesi in via di sviluppo sulla massima riduzione del costo della manodopera piuttosto che scommettere su formazione, ricerca e innovazione, sono ragioni più che sufficienti per temere un peggioramento delle condizioni di vita delle prossime generazioni, di cui già i segnali sono evidentissimi oggi.
Abbandoniamo la paura del dilemma della parsimonia indotto dal keynesismo e torniamo a risparmiare in un’ottica di investimento a lungo termine: i nostri figli e l’istruzione che vogliamo garantire loro.

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(nota 1) Per Robbins l’economia è la scienza che studia i modi alternativi di utilizzare risorse scarse. Però, non mi si fraintenda: Robbins pubblicò il libro Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica quattro anni dopo, nel 1932, tuttavia egli esplicitò chiaramente quanto fosse implicito nelle precedenti teorie dell’equilibrio economico, quindi ritengo plausibile che Keynes potesse aver  almeno abbozzato una intuizione analoga.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

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