Italia: è ancora possibile invertire la prospettiva?

Durante l’estate del 2011 è deflagrata in Italia una violenta crisi del debito sovrano che ha portato alla messa in discussione dell’intera area euro. Gli spread in Europa avevano iniziato ad allargarsi già da qualche tempo (il detonatore iniziale fu il default di Lehman Brothers a settembre del 2008) , ma l’accelerazione della crisi in un Paese rilevante come l’Italia, terza per PIL nell’area euro, ha generato

il dubbio concreto che la moneta unica potesse continuare ad esistere.

Per evitare che un traumatico break-up della moneta unica si abbattesse con tutto il suo effetto domino, la BCE ha agito sul lato monetario (prima incentivando gli acquisti di titoli di Stato con i due LTRO, poi annunciando il meccanismo OMT), mentre in Italia il governo tecnico ha tirato con forza il freno a mano attuando un energico piano di austerity, finalizzato a riconquistare il più velocemente possibile credibilità verso gli investitori istituzionali esteri, e a permettere alla BCE di farsi approvare da tutti i Paesi membri il piano OMT.

Nel frattempo le banche italiane, strette fra una congiuntura negativa e frenata dall’austerity da una parte e “costrette” ad acquistare titoli di Stato dall’altra, si sono ritrovate protagoniste di un credit crunch che -combinato con la stretta fiscale- ha finito per accelerare il declino: abbiamo ormai alle spalle otto trimestri consecutivi di calo del prodotto interno, che seguono un lungo periodo di crescita modesta e nettamente sotto la media degli altri Paesi OCSE.

Complessivamente il PIL dell’Italia vale quanto (appena di più) valeva nel 2000, e se il trend rimanesse questo ci ritroveremmo fra un anno o due ad avere un PIL inferiore a quello che avevamo prima dell’introduzione dell’€.

Sappiamo come sia molto difficile ritrovare crescita senza il contributo del bilancio statale, specie in una economia come quella tricolore, dove il PIL viene per più del 50% da spesa pubblica. Ma considerando che l’Italia è oppressa da un debito che veleggia verso il 130% del suo PIL, e che si è presa l’impegno di riportarlo sotto il 60% in un piano ventennale di rientro, la leva dell’aumento di spesa risulta difficilmente praticabile: l’impegno è di “tirare la cinghia“.

E, tanto per dirci la verità guardandoci negli occhi, siamo arrivati a dover prendere impegni, siglare piani di rientro che assomigliano ad un piano di cambiali perché -passo dopo passo- abbiamo demolito ogni traccia di credibilità verso possibili investitori: campo aperto a corruzione, nepotismo, simonìa imprenditoriale, leggi scritte con la penna cancellabile, burocrazia costruita non per regolare il mercato, ma per fungere da stipendificio, apparato amministrativo ipertrofico, politica costosa, promiscua ed inetta… potrei proseguire con un lungo elenco di ragioni che ci hanno messo nelle condizioni, alla fine, di vincolarci mani e piedi ad una modalità di rispetto di impegni che ci rende più difficile rispettarli.

Citando un illustre pensatore: “Nulla è più pericoloso che risolvere problemi transitori con soluzioni permanenti“: mettere il pareggio di bilancio in Costituzione è un abominio, che ci costerà caro (anche più caro di quanto lo paghiamo oggi) fino a quando non ce ne libereremo. Ma a questa condizione non ci siamo arrivati perché “la UE è cattiva“, dobbiamo avere la consapevolezza che si tratta del frutto avvelenato di una pluriennale gestione politica troppo orientata al consenso e (o) di conseguenza, che abbiamo dato imperterriti consenso pluriennale a politiche fallimentari: chi ha complottato, congiurato, contro gli Italiani sono gli Italiani stessi.

Abbiamo ora il duplice problema (e la relativa sommatoria di costi finanziari, politici e sociali) di

  1. correggere una traiettoria che ci fa accumulare difficoltà e perdere competitività
  2. smaltire l’eccesso di debito accumulato

La soluzione più veloce, seppure comunque di molto difficile attuazione, sarebbe quella di fare un haircut del debito per alleggerire immediatamente lo Stato e procedere più agevolmente alle riforme che andrebbero comunque fatte per correggere la traiettoria distorta su cui procediamo. Dichiarare l’insolvenza dello Stato, oltre ad avere ripercussioni sociali drammatiche in un Paese zeppo di dipendenti pubblici e di pensionati, avrebbe il difettuccio di colpire una quota minoritaria di investitori esteri, i quali chiederebbero a quel punto tassi ben più alti per sottoscrivere le future emissioni riducendo sensibilmente il benefico effetto sui conti pubblici dell’haircut.

L’uscita dalla moneta unica, finalizzato alla svalutazione, avrebbe uno scenario non molto dissimile dal semplice haircut del debito, che arriverebbe come conseguenza immediata. Il costo di una simile operazione è un aumento dei tassi, perché -ancora- il mercato vorrebbe un premio per sottoscrivere le emissioni di un Paese che fa della svalutazione uno strumento di gestione strategica. I sostenitori di questa opzione asseriscono che, pur considerando i costi di una uscita dall’euro, ri-acquisire la sovranità monetaria significherebbe poter trovare competitività e che la correlazione fra svalutazione e inflazione non è storicamente comprovata. Vedremo presto (in un prossimo post) che ugualmente i dati non suffragano una correlazione tra svalutazione e competitività. Pertanto, tralasciando quelli che si illudono di poter stampar via la Crisi come se vivessero in un libro di Collòdi, va probabilmente riponderato il peso relativo di costi e benefici di una uscita dall’euro… assomiglierebbe forse a un (lo riprendo ancora) “Nulla è più pericoloso che risolvere problemi transitori con soluzioni permanenti“…?

Resta l’opzione, politicamente più faticosa e logorante, di far digerire un lungo periodo percepito come “oppressione fiscale“. Non è quindi escluso che si finisca per ricorrere ad una manovra straordinaria di abbattimento secco del debito. Ma allora che lo Stato innanzitutto inizi da se stesso la “patrimoniale”, liberandosi di una parte dei suoi beni (possibilmente non quelli strategici e/o che danno dividendi interessanti come ENI, ENEL, FINMECCANICA…) e se non bastasse, se fosse necessario un contributo della ricchezza privata, se insomma “patrimoniale” deve essere, almeno che sia equa:  in proporzione alla ricchezza di ciascuno, piuttosto che un haircut che colpirebbe in proporzione al possesso di BTP.

Vanno poi ridiscussi i patti sociali in modo equo: i componenti di una società non possono sperare di arroccarsi in sottogruppi per non essere toccati dalla riorganizzazione dello Stato, che si tratti di tassisti, di farmacisti o di pensionati in regime di retributivo che godono di pensioni sproporzionate ai loro versamenti, un Governo che vuole cogliere ciò che vede a portata di mano deve avere le balls of steel (sto citando…) e la forza di chiedere a tutti la loro quota di dazio verso una maggiore giustizia sociale. Le voci previdenza e Sanità sono le più corpose voci di spesa dello Stato, visto che demograficamente il Paese invecchia, è doppia la motivazione che spinge verso un riordino della spesa previdenziale. Non possono sempre pagare le classi che non hanno difese, lo Stato deve difendere tutti i suoi cittadini.

Nel frattempo alle imprese, che devono tollerare una burocrazia che fa parte dei gangli vitali del Paese (e per quanto certificata come “inutile” non può essere smantellata) e devono sopportare una fiscalità pesante, a causa delle esigenze di cassa di uno Stato fortemente indebitato, non resta che sperare nell’innovazione per trovare quella competitività che sul fronte dei freddi numeri è impossibile trovare diversamente. Per questo un Paese che abbia un briciolo di lungimiranza e progettualità affiancherebbe alle politiche orientate responsabilmente a “tirare la cinghia” delle politiche di investimento su cultura, ricerca ed innovazione: per aumentare le possibilità che maturino idee e tecnologie capaci di imporsi sul mercato nonostante gli impedimenti che l’Italia si trova a dover frapporre sul cammino dei suoi imprenditori.

Chi è alla guida del Paese non si trinceri dietro le difficoltà, nessuno si illude che non ci siano problemi enormi da gestire e sfide impegnative da affrontare, ma è a questo che serve la classe dirigente.

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

7 Risposte a “Italia: è ancora possibile invertire la prospettiva?”

  1. Tirare la cinghia non basta.

    Condivido pienamente l’analisi e l’indicazione degli interventi accessori: il “tirare la cinghia“, la bonifica della burocrazia, dello Stato, della politica. Comprendo e condivido anche l’afflato per gli investimenti in cultura, ricerca e innovazione ma questi affinché diano frutti richiedono il lungo periodo, il nostro orizzonte non è così lungo e come diceva J.M. Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”.

    Il risparmio è una componente del reddito, se manca il secondo è impensabile il primo. Qui si vuol risparmiare, per pagare il debito, senza avere reddito. L’Italia sembra una di quelle aziende che per pagare il debito, invece di rischiare l’incremento di fatturato e utili, liquida gli impianti. Il migliore dei casi? Il debito è pagato, l’azienda è morta.

    Tassisti, farmacisti, notai, …. antipatici, ma miserie demagogiche, veramente credete che una volta distrutti questi saremo più ricchi? Non è così, loro saranno più poveri, questo si. Le pensioni “sbagliate” sono diritti acquisiti, costituzionalmente intoccabili, possono essere tassate ma congiuntamente a tutti gli scaglioni di reddito equivalenti, sgradevole, ma giusto così. I gioielli strategici di famiglia non vanno toccati, ENI, ENEL, FINMECCANICA, la madre di tutte le …….. (scrivetelo voi) è già stata fatta con TELECOM.

    La mia tesi non è quella di Collodi, ma bensì di Pinocchio. In Italia la correlazione positiva tra inflazione e svalutazione è certa. Chi avesse dubbi è invitato a ripassare un po’ di economia dei settori industriali. Inflazione e svalutazione ci fanno gioco entrambe. La prima è haircut e patrimoniale congiuntamente, con esclusione del patrimonio reale, la seconda oltre ad essere deflazione dei redditi è svalutazione dell’intero valore aggiunto nazionale (competitività manifatturiera) e barriera doganale surrettizia (ripresa della domanda/offerta interna). Inversione della logica patrimoniale chi sta fermo è perduto. Occupazione? Non saremmo nelle condizioni degli anni settanta, con buona pace di Friedman vi ricordo la curva di Philips, già intuita da Irving Fisher in epoca più simile alla nostra.

    Postilla demografica sulla vecchiaia della popolazione, se ci fosse lavoro, avremmo a disposizione l’intero continente africano disposto a darci una mano.

  2. Ciertochesi ! Basterebbe una bonifica di mentalità.

    Ma è di gran lunga la cosa più difficle. Praticamente impossibile .La maggior parte degli italiani sono come lo scorpione sul groppo della rana

  3. In 14 dei 22 trimestri trascorsi dall’inizio del 2008 alla metà 2013 il PIL dell’Italia ha registrato una variazione negativa, con una caduta complessiva superiore a 9 punti percentuale in termini reali.

    Nello stesso periodo la produzione industriale è diminuita del 25% circa, i redditi delle Famiglie sono scesi di oltre il 10%, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 12.5% (da ultimo dato disponibile rilevato dall’Istat nel settembre scorso, CONFERMATO poi anche ad ottobre – il venerdì 29 novembre 2013).

    Un contesto così sfavorevole per INTENSITA’ e per DURATA non poteva non pesare sulla qualità del credito: a giugno scorso l’ammontare dei prestiti delle Banche Italiane che presentavano criticità nel rimborso ammontava a €259B (+20% a/a) pari al 15% dei prestiti, un livello che a fine 2008 era invece al 5%.

    Sommando alla posizione delle Banche quella delle Società finanziarie (sofferenze pari a €56B), lo stock dei crediti deteriorati supera i €300B.

    Delle quattro voci che, nel Nostro Paese, costituiscono l’insieme dei crediti deteriorati delle Banche[1] risultano in crescita molto sostenuta soprattutto le forme più “GRAVI” e quantitativamente più “INGENTI”: a giugno le sofferenze, che rappresentano oltre la metà (53%) dei crediti deteriorati, sono aumentate su base annua del 21% (a €138B) e le partite incagliate (1/3 dei crediti di dubbia esazione) risultano in crescita del 33% (€86B), in peggioramento rispetto a quanto rilevato nei trimestri precedenti.

    Molto meno marcata è risultata la crescita delle esposizioni scadute (+2.7% a/a, pari all’8% delle partite deteriorate) che nel 2012 avevano registrato un aumento significativo (+56% a/a) in seguito all’inclusione nell’aggregato dei crediti scaduti o sconfinati da oltre 90 gg (il limite precedente era 180 gg), con la fine della deroga rispetto agli standard internazionali della normativa prudenziale.

    In controtendenza risulta invece l’andamento delle posizioni ristrutturate (-21% a/a, a €13B) che rappresenta il 5% del totale dei crediti deteriorati.

    Un’ulteriore conferma di come la difficile congiuntura stia pesando sulla capacità delle Imprese e delle Famiglie nel far fronte agli impegni finanziari emerge anche dall’osservazione del passaggio di crediti con anomalie nel rimborso di minore criticità (sconfinati e scaduti) verso le classi di maggiore gravità (incagliati e sofferenze).

    Nel 2012, secondo le evidenze della Centrale dei Rischi relative ai prestiti concessi alle Imprese dalle Banche e dalle Società finanziarie, il 7.4% dei prestiti ha registrato un peggioramento della qualità a fronte del 4.3% nel 2008; l’unica categoria che ha mostrato in prevalenza segnali di miglioramento è quella degli sconfinanti tornati per circa la metà “in bonis” mentre per le altre “patologie” si è assistito ad un graduale aggravamento della posizione: il 60% dei crediti scaduti delle Imprese si è trasformato in incaglio, sofferenza o perdita, una quota che nel 2008 era pari al 45%.

    Particolare PREOCCUPAZIONE desta il peggioramento della qualità del credito concesso alle Imprese di costruzioni, ramo che concentra all’incirca il 20% dei finanziamenti al comparto produttivo: a giugno scorso i deteriorati ammontavano a oltre €70B tra sofferenze (€38B) e altre patologie (€32.3B), vale a dire il 37% dei prestiti al settore.

    Ampiamente al di sopra del valore medio anche “i prestiti non performing” delle Società di servizi immobiliari (compravendita, locazione, gestione e intermediazione) arrivati al 26% dei finanziamenti a causa di €15B di sofferenze e di €24B tra incagli, scaduti o ristrutturati.

    Solo il 2% dei crediti alle Famiglie ha invece subìto un peggioramento (2.6% nel 2008). In questo caso a rendere meno critica la situazione potrebbe aver contribuito la sospensione del pagamento delle rate di mutuo, operazione consentita nell’ambito delle misure a sostegno dei nuclei familiari in difficoltà[2].

    Nel 2012 meno della metà dei crediti alle Famiglie scaduti è passato nelle classi di anomalia più rischiose segnando un miglioramento rispetto al 53% di quattro anni prima.

    Anche il livello del tasso di decadimento[3] sottolinea come il deterioramento del portafoglio prestiti delle Banche riguardi in prevalenza le Imprese: a giugno scorso il valore è salito al 4.7% (picco massimo dal 1990) mentre per le Famiglie è rimasto pressoché stabile intorno all’1.3%.

    Rilevazioni preliminari relative al III trimestre[4] suggeriscono come i nuovi flussi in ingresso sia nei crediti deteriorati sia nelle sofferenze riferiti alle Imprese vadano verso una stabilizzazione.

    Per il 2014 l’indicatore relativo al tasso d’ingresso in sofferenza per le Imprese e per le Famiglie è previsto in lieve calo, attesa comunque condizionata dal verificarsi di un miglioramento della congiuntura.

    Il deterioramento della qualità degli attivi NON è un fenomeno SOLO Italiano.

    Nel 2012 sul totale dei prestiti nel portafoglio delle Banche quelli di dubbia esigibilità risultavano in crescita in molti Paesi dell’Area-Euro, in particolare se confrontati con il livello di quattro anni prima.

    Il differenziale tra la quota del 2012 e quella del 2008 varia infatti tra i -0.3 punti percentuali della Finlandia ai +20.4 punti percentuali di Cipro.

    Gli incrementi maggiori si sono registrati nei Paesi che hanno sperimentato ROBUSTI cali dell’attività economica con una quota di crediti deteriorati che a Cipro ed in Grecia ha raggiunto, rispettivamente, il 25% e il 16% dei prestiti, e che si è posizionata all’8.2% in Portogallo (+6.5 punti percentuali rispetto al 2008) e al 6.5% in Spagna (+4 punti percentuali rispetto al 2008).

    Pur evidenziando un generale DIFFUSO PEGGIORAMENTO della qualità delle poste attive in portafoglio, le evidenze RICAVATE dagli ARCHIVI della ECB NON si prestano ai confronti internazionali.

    L’individuazione di crediti che presentano criticità di rimborso più o meno marcate varia infatti tra i diversi Paesi della UEM.

    Tra l’altro il computo delle garanzie condiziona l’inserimento tra i deteriorati, tanto per la categoria quanto per l’ammontare; ne deriva un’ampia variabilità dell’indicatore.

    Un credito scaduto da più di 90 gg viene considerato OVUNQUE sintomo di difficoltà, tuttavia pur trattandosi di un criterio PRECISAMENTE DEFINIBILE, ad eccezione che nel Regno Unito e in Finlandia esso NON è considerato sufficiente a determinare la condizione di “non-performing loans” (NPLs).

    Nella maggior parte delle economie a questo criterio OGGETTIVO se ne aggiunge un altro che presenta maggiori margini di DISCREZIONALITA’: l’individuazione di segnali di difficoltà economiche e finanziarie del debitore più o meno gravi determina infatti l’inserimento del credito di dubbia esigibilità in classi intermedie di insolvenza che a seconda della normativa adottata rientrano o meno nell’area dei NPLs.

    AMPIA DISOMOGENEITA’ di trattamento si rileva anche per i crediti ristrutturati: in Irlanda e in Italia questo tipo di crediti rientra tra i NPLs, in Austria, Germania e Regno Unito la decisione dipende dalla banca erogatrice, in Finlandia, Francia, Portogallo e Spagna i criteri sono variabili.

    La normativa Italiana è risultata finora la PIU’ SEVERA poiché include nei “non-performing loans” sia i crediti che presentano difficoltà di rimborso valutate TEMPORANEE (sconfinati, scaduti, ristrutturati e incagliati) sia quelli per i quali è stata già acquisita la consapevolezza che il debitore è INCAPACE di assolvere con regolarità alle proprie obbligazioni (sofferenze).

    Le SOSTANZIALI diversità che hanno FINORA caratterizzato l’area dei crediti deteriorati sono destinate ad essere progressivamente superate dopo che la European Banking Authority (EBA) ad ottobre scorso ha pubblicato le linee guida tese all’armonizzazione delle definizioni in modo da ridurre i margini di discrezionalità esistenti e di agevolare la confrontabilità dei dati[5].

    L’aggregato denominato “non-performing exposures” (NPE) secondo la NUOVA DEFINIZIONE comune include le attività scadute da più di 90 gg e/o quelle per cui è estremamente IMPROBABILE che il debitore rimborsi il suo debito, indipendentemente dalla presenza di garanzie reali o personali; viene inoltre seguito l’”approccio per debitore”, vale a dire che il deterioramento di una singola linea di credito estende la criticità a tutte le esposizioni con la controparte.

    Si tratta di definizioni alle quali la NORMATIVA ITALIANA già RISPONDEVA.

    Una maggiore uniformità di trattamento dovrebbe riguardare la classificazione delle esposizioni ristrutturate ovvero quelle per le quali vi sia stata una modifica delle condizioni iniziali del contratto a causa del deterioramento della situazione finanziaria del debitore a prescindere da un eventuale mancato pagamento.

    È stato infatti introdotto il concetto di tolleranza (“forbearance”) che prevede due sotto-categorie, “performing” e “non-performing”; solo quest’ultima rientrerà tra i deteriorati nel caso in cui l’esposizione del cliente nel periodo di sorveglianza fissato in un anno (periodo probatorio) muterà per effetto di modifiche contrattuali favorevoli al debitore o mancati pagamenti superiori a 30 gg.

    – – – – –

    -[1]- La Banca d’Italia individua quattro classi di finanziamenti deteriorati caratterizzati da segnali di crescente difficoltà di rimborso: l’esposizioni scadute da oltre 90 gg o sconfinanti, l’esposizioni ristrutturate, le partite incagliate e le sofferenze.

    -[2]- La sospensione del pagamento delle rate dei mutui, concordata tra ABI e 13 Associazioni dei Consumatori, si è conclusa lo scorso 31 marzo 2013 ed ha riguardato circa 100.000 Famiglie, per un controvalore di mutui, in termini di debito residuo pari a €10.9B, con un beneficio, in media, di €7.000 per Famiglia. L’iniziativa è stata sostituita dal Fondo di solidarietà.

    -[3]- Rapporto tra nuove sofferenze emerse in un trimestre e crediti non in sofferenza all’inizio del periodo.

    -[4]- Banca d’Italia, “Rapporto sulla stabilità finanziaria n.6, 12 novembre 2013”

    http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/stabilita-finanziaria/rapporto-stabilita-finanziaria/2013/rsf_2013_6/stabfin_6_2013/rapporto_stabilita_finanziaria_6_2013.pdf

    vedere poi le Pp. 25-26 / 52 e le Figure 3.6 -ET- 3.7.a.

    -[5]- EBA, “Final draft technical standards on NPLs and Forbearance reporting requirements – October 21, 2013

    http://www.eba.europa.eu/-/eba-publishes-final-draft-technical-standards-on-npls-and-forbearance-reporting-requirements .

    – – – – –

    ✍✓ _s-U-r-f-E-r_ ✍✓ [A-SAN … sc-USA per il ritar-DO]

  4. Mamma mia! Interpreto questi miei commenti come una forma di resistenza civica contro certe affermazioni forse un po’ lisergiche (sono stato abbastanza educato?).

    Lei ha scritto che: “””Durante l’estate del 2011 è deflagrata in Italia una violenta crisi del debito sovrano che ha portato alla messa in discussione dell’intera area euro”””.

    Non vorrei lasciarmi andare al “complottismo”, ma tutti sanno che i tassi schizzarono in alto per far fuori Berlusconi (prima che me lo chieda, ho di questa persona un’opinione pessima) e permettere il “colpo di stato”, tale è stato, che ha portato Mario Monti al Governo (se va sui reports della BCE, lo hanno scritto anche loro che IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO NON CREAVA ALCUN ALLARME. Se me lo chiede, cerco nei miei files la dichiarazione specifica e glie la mando).

    La ragione della crisi, nella realtà, era il deficit delle “partite correnti” che era schizzato troppo in alto, quasi 4 punti di Pil, e bisognava quindi rientrare. Lo stesso Monti dichiarò (quasi un virgolettato) che, per risolver il problema di quel deficit, aveva dovuto distruggere il reddito degli italiani (dichiarò anche, fra le altre cose, che l’Eurozona è una buona cosa perché non si possono lasciare le questioni economiche in balia dei processi elettorali. Fascismo? Sì, Fascismo. Anche Van Hayek sarebbe stato senz’altro d’accordo. Alle dittature si possono porre dei limiti, egli diceva elogiando Pinochet, alle democrazie no …).

    Ammettere questo, però (lo sbilancio delle partite correnti), avrebbe significato ammettere che le differenze di competitività avevano creato forti squilibri commerciali in tutta l’Eurozona, non compensati dalla fluttuazione delle monete. Ovvero che il problema era l’euro. Figurarsi!

    §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

    Lei, poi, parla dell’impossibilità dell’haircut (d’accordo), e della svalutazione della nuova lira (se così dovesse chiamarsi), paventando tregende sul mercato dei titoli di stato, invece dei grossi benefici economici che tutti gli economisti indipendenti, al contrario, si aspettano.

    Ci risiamo! Guardi che una fuoriuscita dall’euro comporterebbe in primis la “riappropiazione” della Banca Centrale e l’abolizione di quel divorzio fra Tesoro e Banca Centrale che ha causato gran parte dell’attuale deficit del debito pubblico (la separazione fu fatta, in primis, da Ciampi/Andreatta, allo scopo di forzare il Governo a politiche, secondo loro, sane. Qualcuno ricorda la storia del marito che per punire la moglie si …”? Ecco, si trattò proprio di questo).

    La possibilità di poter operare da “prestatore di ultima istanza” (come avviene regolarmente in Gran Bretagna, ad esempio, che avrebbe dei fondamentali parecchio brutti), la dimensione non drammatica del debito estero (30 – 35% del Pil), la Lex Monetae (l’ha mai letta? Quella benedetta vicina di banco!), l’interesse di un po’ tutto il mondo sviluppato a che la nuova moneta non svaluti troppo (per ragioni di competitività), la mancanza di qualsiasi interesse, da parte della speculazione, ad attaccare un paese che a quel punto avrebbe i fondamentali a posto (nel 1992, dopo la svalutazione, la speculazione si fermò – ricorda? – perché non c’era più niente su cui speculare) ….. suvvia, nessuno sostiene che sarà una passeggiata, ci saranno da fare parecchie altre cose (c’è chi le ha elencate), ma si tranquillizzi, non sarà un incubo.

    §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

    Ma lei, imperterrito, insiste: “””Vedremo presto (in un prossimo post) che ugualmente i dati non suffragano una correlazione tra svalutazione e competitività. Pertanto, tralasciando quelli che si illudono di poter stampar via la Crisi come se vivessero in un libro di Collòdi, va probabilmente riponderato il peso relativo di costi e benefici di una uscita dall’euro… assomiglierebbe forse a un (lo riprendo ancora) “Nulla è più pericoloso che risolvere problemi transitori con soluzioni permanenti“…?”””

    Stavolta l’aspetto sul serio al varco. Non c’è correlazione fra svalutazione e competitivita? Non vedo l’ora di poterle rispondere. Possibilmente dando alla mia risposta una qualche evidenza (non giochiamo “ad evidenza pari”). Si prepari bene, quindi, mi raccomando!

    Mi piace il suo riferimento a Collodi e a Pinocchio. Sta lanciando un messaggio? Collodi era un grosso Massone, forse Rosacruciano. Pinocchio significa Occhio-Pineale, il collegamento con il creatore (se ci crede) e quindi con i miracoli (il legno che diventa carne). Mah. Forse il suo è un riferimento solo casuale.

    P.S. Riguardo la sua citazione in corsivo, ma che c’entra con le problematiche relative all’euro? Boh!

    §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

    Ma poi lei ci lascia la chicca finale: “”” Le voci Previdenza e Sanità sono le più corpose voci di spesa dello Stato, visto che demograficamente il Paese invecchia, è doppia la motivazione che spinge verso un riordino della spesa previdenziale. Non possono sempre pagare le classi che non hanno difese, lo Stato deve difendere tutti i suoi cittadini”””.

    Come dire? L’euro è la costante, gli esseri umani la variabile. Tralascio quindi qualsiasi considerazione di tipo etico-morale con le quali, evidentemente, lei ci fa i fichi secchi, e passo ad altro.

    Sulla sanità, il sistema italiano viene considerato fra i primi al mondo (nonostante le evidenti storture, in particolare nei luoghi dove più si è lasciato spazio alle cliniche private), mentre quello statunitense, cui lei fa sembrerebbe far riferimento, è uno dei peggiori (vada negli ospedali americani e poi ne riparliamo. Altro che cliniche televisive!). Nonostante questo, il nostro sistema costa poco più del 9% del Pil (scontando la sua notevole riduzione), quello statunitense oltre il 17%, e lascia fuori 50 milioni di persone. Cosa c’è da tagliare? Sia lei ad andare in America, non si fa prima?

    Sulla previdenza, poi, è tutto da ridere. Se toglie l’assistenza (che in tutto il mondo fa capo alla fiscalità generale e non al sistema contributivo), e fa la differenza fra le prestazioni erogate e le cifre incassate (contributi), vedrebbe il suo sostanziale equilibrio. Non a caso viene considerato il più efficiente (ovvero quello che tratta peggio le persone) di tutta Europa.

    §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

    Fra i tanti hobbies da pensionato (escluso il giocare a Burraco nel Circolo Cittadino), ho quello di tradurre testi di geopolitica e macroeconomia. A suo tempo ho tradotto e fatto pubblicare da un paio di siti non più esistenti un lavoro della Bank Of America/Merril Lynch, in cui veniva dimostrato che, fra i paesi dell’Eurozona, l’Italia è il paese ad avere il miglior interesse (insieme all’Irlanda) ad uscire dall’euro. Se mi manda un indirizzo e-mail e mi promette di pubblicare, glie lo invio.

    1. Franco, il suo intervento è davvero corposo e merita una risposta che al momento richiede un tempo che non ho. Spero di soddisfarla presto. Nel frattempo le ho scritto per farle avere i miei riferimenti, così che mi possa mandare il materiale che vorrebbe veder pubblicato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.