Italians: poeti, santi e navigatori. Ancora?

Poeti, santi e navigatori. Ancora?

No, per un cazzo: una generazione senza sogni, che non legge, non scrive e non sa fare di conto!

La storia degli ultimi cento anni dell’Italia – tranne rarissime eccezioni – ci insegna che siamo eroi per caso. Dalla Prima guerra mondiale in avanti abbiamo la certezza che i nostri comandanti – nel senso più largo del termine, dai politici ai vertici militari – sono degli incapaci che ci mandano allo sbaraglio senza la preparazione adeguata e l’attrezzatura necessaria. E anche quando potremmo essere all’altezza della situazione o addirittura superiori agli avversari – si prenda l’esempio della nostra flotta navale nella Seconda guerra mondiale – ci facciamo sopraffare.

Poi diventiamo eroi con gli alpini a Nikolajewka o con un manipolo di ardimentosi, come nel caso delle incursioni della Decima Flottiglia MAS, l’unità speciale della Regia Marina italiana, dal quale i Navy Seals hanno tratto ispirazione. Con quella che viene ricordata come l’impresa di Alessandria, dove sei nostri palombari a cavalcioni dei celeberrimi SLC, i siluri a lenta corsa, anche conosciuti con il termine di “maiali”, si intrufolarono nel porto di Alessandria d’Egitto e affondarono due navi da battaglia britanniche – la Queen Elizabeth e la Valiant – e ne danneggiarono un altro paio: il cacciatorpediniere Jervis e la nave cisterna Sagona.

Invece, allargando lo sguardo sulla storia millenaria del nostro Paese, inteso come la terra che ospita gli attuali confini, non possiamo non definirci come il popolo delle fazioni –dai guelfi e ghibellini alle mille correnti della politica contemporanea – che non sa fare sistema. E partendo davvero da molto lontano, tipo da Romolo (per andare sul sicuro), effettivamente la frase (che poi portò una sfiga tremenda, ma questo è un altro discorso) che Mussolini fece incidere sul Palazzo della civiltà italiana a Roma – “Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori” – è veritiera (a proposito, fatelo questo giochino, partendo da Dante, pensate a un nome per categoria e vedrete che anche se siete intontiti dalla troppa tv italiana, riempirete tutte le “caselle” con un filo di gas).

È ancora così anche per i giovani di oggi? Novelli poeti, santi e navigatori? No, per un cazzo! È – siete – una generazione senza sogni, che non legge, non scrive e non sa fare di conto, porca troia!

Il problema parte dalle basi. Infatti, secondo il “Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia”, a cura dell’Ufficio Studi dell’AIE (Associazione Italiana Editori) su dati del 2016, l’Italia è un Paese che non legge. Nel 2015 c’erano 24 milioni di lettori e l’anno successivo sono scesi di 700mila unità, per un -3,1%. Significa, drammaticamente, che il 58% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno! Ma dove vogliamo andare da semi-analfabeti quali siamo?

C’è un altro dato da far rizzare ogni pelo del corpo.

Eccolo.

La classe dirigente italiana non legge.

Il 38,6% di “dirigenti, imprenditori e liberi professionisti” dichiara di non aver letto alcun libro negli ultimi dodici mesi. Dato che sale al 44,6% tra i maschi e scende al 25% tra le colleghe donne. E solo l’11,6% legge più di un libro al mese.

Vi basta? Dalla borghesia illuminata dell’Unità d’Italia alla Great Generation che ha fatto la Seconda guerra mondiale e poi il boom economico alla classe dirigente attuale che non ha neppure voglia di leggere.

Non vi basta? Volete un altro dato da pelle d’oca?

Pronti.

Secondo voi almeno i laureati leggono?

Ma va là.[sociallocker id=12172].[/sociallocker]

Tra i laureati c’è un 25% che non legge alcun libro nel corso dell’anno e solo il 15,3% ne legge uno al mese (tutti dati Istat del 2015).

Ripeto, siamo fritti.

Un’altra statistica strappalacrime è intitolata “Gli studenti e il lavoro che cambia”. E si tratta di un’indagine di AstraRicerche su 800 ragazzi tra i 17 e i 19 anni commissionata  nel 2017 da Manageritalia.

I ragazzi intervistati per il 75% si attendono un incremento dei giovani che emigreranno per cercare lavoro. Soltanto il 36,5% però si aspetta in parallelo un aumento della disoccupazione in Italia, mentre il 40% crede che diminuiranno in Italia i salari d’ingresso. Di fronte a tali scenari, secondo i ricercatori, ci si sarebbe potuto aspettare che le scelte relative al percorso di studio fossero più pragmaticamente lungimiranti, ossia più indirizzate a massimizzare la possibilità di trovare lavoro. Invece è il contrario, con un’incoerenza assoluta perché in realtà il percorso di studi viene scelto in base alle proprie – presunte – capacità e preferenze piuttosto che scommettendo sugli sbocchi professionali. Il 54,7% si fa quindi guidare “molto” dalle proprie passioni e solo il 37,2% guarda “molto” alla possibilità di trovare lavoro. E solo il 27,1% confida sulle esperienze lavorative fatte durante gli studi grazie alla scuola.

Ecco che se mi piace leggere Schopenhauer per comprendere il mondo e allora scelgo di laurearmi in filosofia, non deve stupire nessuno che ormai da anni i trentenni cinesi guadagnano più dei coetanei italiani!

Sì, è così, ma siccome non leggete, pensate ancora che i cinesi siano soltanto quelli di Prato o della manodopera bassissima negli enormi distretti industriali cinesi.

Invece l’Emerging consumer survey 2013 – un’analisi che ha coinvolto 14mila persone di otto Paesi emergenti (Brasile, Russia, India, Cina, Turchia, Arabia Saudita, Indonesia e Sud Africa) condotta da Nielsen per conto del Credit Suisse – ci dice che il salario medio mensile dei giovani trentenni cinesi è di circa 1.100 euro, contro i 1.025 euro dei loro genitori che hanno tra i 56 e i 65 anni, ossia un 15% in più tra le due generazioni. Mentre, impietosamente, Datagiovani su base Istat, ha calcolato che la retribuzione media di un trentenne al primo lavoro in Italia è di 823 euro al mese e quella di un suo coetaneo collaboratore a progetto è di 821 euro al mese (dati Isfol). E in entrambi i casi parliamo di privilegiati perché in Italia il tasso di disoccupazione giovanile registrato dall’Istat (2016) si attesta al 37,1 per cento!

Perché i trentenni cinesi guadagnano di più dei loro connazionali sessantenni?

Perché da loro i fattori che alzano il reddito sono unanimemente considerati i seguenti: il livello d’istruzione, la migrazione dalla campagna alla megalopoli e l’alfabetizzazione tecnologica. E a prescindere dai trend cinesi di crescita continua (anche bassa rispetto al recente passato ma ancora continua) e dalle antitetiche dinamiche socio-economiche tra la nostra società e la loro – da noi la gente tende sempre più a rispostarsi verso la provincia e la mia generazione non molla la poltrona nemmeno fosse una cozza abbarbicata su uno scoglio romagnolo – la vera differenza è la seguente.

[tweetthis]Qualche luogo comune sulla Cina e sull’Italia che @Forchielli manda a quel paese[/tweetthis]

Da noi, come ho detto poc’anzi, il 54,7% dei giovani si fa guidare “molto” dalle proprie passioni nella scelta scolastica. Con la nostra scuola che è sfasciata. Come ho scritto ne Il potere è noioso: “ho lasciato l’Università di Bologna nel 1978 e ci sono tornato a insegnare nei primi anni Duemila, per un triennio, ben prima della crisi del 2009. E ho trovato le stesse aule, solo più fatiscenti. Con gli studenti che erano dieci volte quelli di un tempo e con i posti a disposizione per i neo-laureati che erano un decimo rispetto a una volta, perché nel frattempo le aziende sono fallite”.

In Cina, invece, annualmente si spendono 200 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, un trend che la porterà nel 2019 a essere in questo settore il primo Paese al mondo. Qui, sempre in un anno, vengono formati trentamila ingegneri! Come sull’assegno, lo scrivo anche in numero per non correre il rischio di fraintendimenti prima dell’editor e poi del lettore: 30.000 ingegneri!

Zhongguancun, a Pechino, e Shenzhen sono ormai la versione continentale della Silicon Valley. E per quanto concerne il biopharma – uno dei settori chiave del futuro, vicino e lontano – il mercato farmaceutico cinese vale circa 150 miliardi di dollari, con un terzo riferito solo al biotech, mentre i mercati di America ed Europa valgono 350 miliardi ciascuno, di cui la metà in biotecnologie e nuovi farmaci. E la Cina negli ultimi decenni è diventata famosa per la chimica e per le medicine a prezzo basso, visto che la maggior parte delle società farmaceutiche locali sono ancora concentrate sul mercato nazionale costituito da farmaci generici. Ora però la biotecnologia è il cardine del piano governativo quinquennale 2016-20 e possiamo stare certi che questo spingerà il biopharma cinese fino a diventare una potenza mondiale.

Ciò accadrà anche grazie a un dettaglio non da poco. Negli USA, Kendall Square a Boston è il centro mondiale delle “Life Sciences”, nonostante il MIT non abbia una facoltà di medicina e nemmeno una clinica universitaria. Com’è possibile? Perché il DNA è una combinazione miliardaria di 4 lettere. Vuole dire che oggi il corpo umano è esprimibile con il linguaggio del computer. Ecco quindi che quei fottutissimi trentamila cinesi laureati in ingegneria annualmente nell’immediato futuro potranno giocare un ruolo decisivo.

Un quadro simile cosa insegna a noi occidentali, italiani compresi? Che far studiare la matematica ai nostri figli può essere una eccellente opzione per il loro futuro, anche se sono appassionati di filosofia, comunicazione o giurisprudenza.

Siccome, come scrivevo all’inizio del capitolo, scordiamoci che nella nostra classe dirigente ci sia la capacità di fare le mosse giuste per rimetterci in careggiata, magari investendo seriamente sulla scuola, e che si riesca a fare sistema. L’unica speranza è nella lucidità del singolo individuo – nel giovane e nei suoi genitori – altrimenti il divario di guadagno tra i trentenni cinesi e quelli italiani non solo è destinato a salire, ma a moltiplicarsi.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

2 Risposte a “Italians: poeti, santi e navigatori. Ancora?”

  1. Lucido , sconfortante. L’Italia è perduta per decenni ormai. i nostri ragazzi migliori sono all’estero e ci rimarranno. Grazie

  2. Sul salario cinese immagino ti riferisci a quello delle città e non nelle campagne. L’ho scoperto troppo tardi facendo una gaffe con un cinese.

    Felice di investire il mio tempo libero in libri di cultura e articoli interessanti come questo.

    Che bello vedere un paese come la Cina che investe nel futuro. Anche la nuova via della seta porterà i suoi frutti.
    Da giovane neolaureato, e lavoratore non vedo l’ora di emigrare in Germania per investire il mio know how là. Sono il primo a dire che i miei coetanei mancano di lungimiranza, figurarsi il paese.

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