James Tobin, il keynesizzatore

Siate gentili e premurosi col vostro prossimo. Lascereste il vostro posto in coda ad un collega e amico se pensaste che sia corretto farlo? Penso proprio di no se vi chiamate Marconi e il vostro collega Tesla e la coda è quella dell’ufficio brevetti.
Anche l’economia è piena di casi del genere, pure il modello di Ramsey-Cass-Koopmans visto la volta scorsa. E stesso destino non poteva non capitare ai modelli di crescita. Chi se lo fila oggi, e ieri, l’economista australiano Swan che contemporaneamente a Solow descrisse un modello analogo?
E la Storia diventa ancor più cinica con quei teorici come Tobin che non solo descrisse il modello di Solow in un articolo pubblicato prima del suo, ma lo arricchiva con l’introduzione della moneta. Oltretutto, ignorare la moneta nella crescita economica appare ai nostri occhi drogati da anni di ZIRP un comportamento psichiatrico.
Perchè a Tobin non fu riconosciuto un merito uguale o maggiore? Questa è la sua storia:

Il suo contributo iniziò con un articolo del 1955 (una più semplice trattazione la si trova in un altro articolo del 1965.
Tobin parte considerando una economia caratterizzata da incertezza, avversione al rischio e preferenza per la liquidità. A differenza di Solow, non assume che risparmi e investimenti siano sempre in equilibrio (da bravo keynesiano), e fa correttamente notare che in questa situazione vi è un eccesso ex ante di risparmi rispetto agli investimenti .
È noto che eccessi di risparmio creino qualche problemino.
Tobin dice che il modo per assorbire questo eccesso consiste nell’emettere una attività finanziaria che offra un rendimento nominale (anche pari a zero, l’importante è che sia risk-free rispetto all’investimento “reale”). Lui la chiama moneta, ma sarebbe opportuno chiamarla “quasi-moneta” dato che la suppone essere paragonabile ad un titolo pubblico emesso dallo Stato in deficit.
Tobin parte da una semplice funzione di domanda di moneta che consideri, oltre ai soliti redditi e tassi di interesse, anche il capitale in fase di accumulazione: se il capitale aumenta perchè andiamo verso lo steady state, allora o aumenta il livello della moneta o, a parità di moneta, calano i prezzi.
Ed è qui che l’analisi di Tobin si inceppa:
1) se la moneta è lasciata libera di crescere allora bisogna trovare una formula che dia il giusto mix fra crescita della moneta e una stabile (non accelerata) crescita dell’inflazione, ma non ci si riesce;
2) se invece il livello di moneta è tenuta costante allora Tobin determina (p.679) delle formule per il deficit statale di steady state ma allora si vivrebbe in una economia in cui il processo deflattivo è destinato a proseguire continuamente o al limite a rallentare[sociallocker].[/sociallocker]
Ecco secondo me i motivi per cui Tobin non ricevette il giusto riconoscimento del suo contributo. Intanto il primo articolo era veramente tecnico e indigeribile, se confrontato alla graziosa semplicità e lineare esposizione di Solow.
In seconda battuta il suo modello incespica sul rapporto fra crescita di moneta e inflazione, e laddove ignori e tenga costante la prima si imbatte in un irreale mondo fatto di sempiterna deflazione
(vds nota *).

È inoltre fondamentale sottolineare quanto segue, per capire altre ragioni della insoddisfazione per il modello di Tobin:
1) affinchè le equazioni di p.679 siano determinabili, deve essere nota e stabile la funzione di domanda di moneta (i classici la assumono tale, poi arrivano le ricerche empiriche e cade l’asino).
Analogamente non sembra plausibile considerare la moneta come variabile esogena (i keynesiani andranno infatti nella direzione opposta), nè quale perfetta sostituta del capitale;
2) analogamente al punto precedente, la frazione “g” della spesa pubblica rispetto al prodotto nazionale deve essere considerata nota, fissa e esogenamente data, cioè non viene fatta alcuna assunzione circa l’ottimale livello di spesa pubblica;
3) il modello, in linea con la tradizione keynesiana , non si cura della composizione di tale spesa pubblica, nè considera utile domandarsi se esista un livello ottimale del debito pubblico.
4) esiste un limite tuttavia alla grandezza dei deficit, e corrisponde al limite (difficilmente quantificabile) oltre il quale gli investimenti privati vengono totalmente (o quasi) spiazzati dalla spesa pubblica (ricordo nuovamente che siamo per ipotesi in economia chiusa, e apparentemente non sembra in funzione alcun moltiplicatore keynesiano).

Malgrado gli intoppi, il modello di Tobin arriva, in generale ad una conclusione: un più alto tasso di espansione della moneta, pur accompagnato da inflazione, riduce i rendimenti reali della moneta e così, attraverso modifiche nelle scelte di portafoglio (fra investimenti finanziari e/o in capitale,),conduce ad una maggiore accumulazione di capitale per lavoratore e a minori tassi reali di equilibrio.
La moneta cioè fa crescere il sistema (ma non si sa a costo di quali squilibri).
Ma avete notato cosa ha fatto quel briccone di Tobin all’economia classica? Tobin è così riuscito a “keynesizzare” uno schema classico, dimostrando che tanto nel breve periodo quanto nel lungo periodo, fenomeni monetari influenzano (o addirittura dominano) la formazione dei tassi di interesse e l’accumulazione del capitale.
E già mi pare di vedere l’espressione di certi economisti di formazione classica a leggere che la moneta non è neutrale nè nel breve nè nel lungo termine, e che l’intervento dello Stato (per creare deficit/moneta) è desiderabile anche se i mercati dovessero essere perfetti.
[tweetthis]Tobin”keynesizza”Solow:moneta influenza tassi e accumulazione capitale.Economisti classici in rivolta[/tweetthis]

La storia per Tobin finì più o meno lì, ma in tema di relazione fra inflazione e crescita, la ricerca non si è mai fermata.
Un workshop della Fed di St.Louis del 1996 presentava ricerche teoriche ed empiriche sulla relazione. Non ci trovo grandi risultati teorici a parte quanto dirò fra breve, ma le ricerche empiriche mostrano senza dubbio che la relazione inflazione-crescita è non-lineare: processi (iper)inflazionistici in paesi che storicamente avessero avuto già alti tassi di inflazione conducono a significative decelerazioni della crescita di lungo periodo, mentre nei casi di paesi “normali”, la relazione è quasi nulla (cioè, anche temporanei fenomeni di inflazione forte non conducono a significative riduzioni della crescita nel lungo termine). E già questo imporrebbe di riformulare in parte Tobin.
I modelli teorici hanno tentato di inserire frizioni, adverse selection, asimmetrie informative e cicli di credit boom/bust nonchè regolamentazioni dei mercati finanziari per spiegare oscillazioni nella domanda e offerta di moneta e quindi dell’inflazione (qui si prende a prestito molto dalla ipotesi dell’instabilità dei mercati finanziari di H.Minsky), ma non riescono con questo a spiegare la magnitudine della relazione inflazione-crescita.
Un apporto teorico interessante è quello di S.Fisher che obietta a Tobin che moneta e capitale non possono essere sostituti, per quanto imperfetti. In altri termini non sono alternativi l’uno all’altro, bensì complementari: senza la prima non può avviarsi il processo di produzione e senza produzione non ha senso esistere l’altra. Perciò inserendo il livello della moneta nella funzione di produzione si ottiene un risultato opposto a quello di Tobin: l’inflazione, riducendo il valore reale della moneta, causa una riduzione della crescita.
E forse la soluzione dell’inghippo sta proprio a metà fra i due modelli.

ANGOLO IMPERTINENTE: ma siamo sicuri che inserire la moneta in uno schema neoclassico sia una cosa così ovvia e si possa fare senza “ma e però”?

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(nota *) Processi inesorabili del tipo deflazione persistente portano sempre molti dubbi nella testa del ricercatore, in primis come può una economia sostenere crescenti salari reali a fronte di fatturati reali calanti e come affrontare il naturale processo di apprendimento degli operatori che presto impareranno che la deflazione continuerà, e quindi, tanto più siano avversi al rischio, tanto più saranno propensi a chiedere maggiore liquidità (il cui rendimento reale aumenta), piuttosto che capitale.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

Una risposta a “James Tobin, il keynesizzatore”

  1. Dovendo far riferimento a questa mia “risposta impertinente” in un prossimo articolo, mi sono accorto di non averne mai postato la “soluzione”. Scusandomi con i lettori provvedo subito.
    Introdurre la moneta in uno schema di Equilibrio Economico Generale (EEG) è un azzardo.
    Chi si ricorda Walras sa che la moneta aveva un ruolo che non esito a definire secondario. Addirittura, la rigorosa sistemazione assiomatica dell’EEG fatta da Arrow e Debreu aveva portato a modellizzare una economia in cui la moneta era del tutto ininfluente.
    Il fatto è che finchè non si introducono rischio, incertezza, sequenzialità nelle decisioni e ogni genere di avversione/preferenza, il fenomeno “moneta” è in sè incompatibile con l’EEG.
    E infatti Tobin deve modificare in tal senso lo schema “standard” dell’EEG solowiano per farlo.
    E all’improvviso arriva Polly! Accompagnata da me…il rovinafeste.
    Torniamo indietro: vi è un eccesso ex ante di risparmi, ma abbiamo dimenticato di essere in uno schema classico a prezzi flessibili. Un eccesso di risparmio si trasforma in tale sistema automaticamente in un processo deflattivo che, aumentando il valore reale dei beni e del consumo, è in grado di assorbire da sè l’eccesso di risparmio senza dover introdurre monete o quasi monete.
    Perciò o si introducono anche altri tipi di rigidità (per esempio dei prezzi, e conseguentemente va anche spiegata la loro evoluzione nel lungo termine), oppure il castello di carte traballa.
    Detto altrimenti, o inseriamo anche tutta la parte relativa alle fluttuazioni della DOMANDA AGGREGATA, oppure il modello neoclassico basato esclusivamente sulla OFFERTA AGGREGATA non riesce a dare un quadro realistico del mondo.
    Ma inserire la domanda aggregata significa in qualche modo ritoccare una o qualcuna delle ipotesi iniziali: sù, miei piccoli keynesiani, da quale iniziereste?

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