Keynes e la sostenibilità del debito: un tema virale

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Critiche recenti riguardano le modalità di finanziamento della spesa pubblica in deficit. Pare pacifico che la “scuola Keynes iana” ritenesse indifferente il livello del debito pubblico raggiungibile.
Già il Monetarismo aveva obiettato che la continua spesa in deficit avrebbe causato tassi di interessi crescenti per la sottoscrizione dei titoli, mentre vedeva come il demonio la monetizzazione del debito per le inevitabili conseguenze inflattive. Ma questa impostazione non si rivelò del tutto esatta: l’aumento del debito pubblico non si accompagna necessariamente a tassi più alti.
Il punto fondamentale è che rimane senza unanime consenso l’interrogativo di come considerare il debito pubblico, specialmente nel suo rapporto al PIL: è assimilabile al debito privato,e quindi il rapporto rappresenta un effettivo indice di rischio di fallimento? oppure non vi è assimilabile perchè un paese che ha sovranità monetaria non è passibile di fallimento?
Sento già il ronzio delle obiezioni e allora può partire l’ANGOLO IMPERTINENTE: cosa ne pensate, il debito pubblico di un paese con o senza sovranità monetaria a cosa è assimilabile?

Personalmente penso che l’unico elemento quasi unanimamente accettato nella valutazione di un debito pubblico sia la sua sostenibilità misurata dalla famosa formula di Fisher:

Fisher

Il significato è chiaro: la variazione del rapporto debito/pil al tempo t dipende negativamente dall’esistenza di un surplus primario, e positivamente dal differenziale fra tassi di interesse e PIL nominale (che ricordo è pari a PIL reale sommato all’inflazione). Il terzo addendo raccoglie voci che dovrebbero essere residuali.
Perciò, se uno Stato avesse un bilancio primario (tasse meno spesa pubblica, al lordo degli interessi da pagare sul debito) nullo, il rapporto debito/pil si ridurrebbe se l’economia crescesse più dei tassi da pagare ai sottoscrittori. Basterebbe che a crescere fosse o il pil reale oppure l’inflazione. Ma se quest’ultima è bassa o zero, e il pil reale langue oppure si contrae, è chiaro che per quanto i tassi possano essere bassi, il rapporto debito/pil si inviluppa su se stesso, anche se il paese fa enormi sforzi di austerity per arrivare ad un surplus primario. Anzi, tanto più si inviluppa quanto più persiste nell’austerity qualora non faccia nulla per rendere più efficiente la minore spesa pubblica che può permettersi.
La formula è quindi il metro di giudizio fra un paese con una dinamica sostenibile e uno senza.
Che poi questo si traduca in un default oppure in una forzata monetizzazione del debito diventa parte delle attese logiche che ogni investitore razionale comincerà a farsi appena vede che la formula restituisce una situazione poco felice. Un default o una monetizzazione non sono esenti da rischi per chi investe: dal secco haircut fino alla perdita di valore per la svalutazione/inflazione, la scelta è vasta. Non appena gli investitori hanno fatto le loro aspettative, viene il turno degli speculatori, e allora sì che i tassi cresceranno.
Un recente lavoro di Reinhart e Rogoff, per quanto controverso, pone all’80% il valore del rapporto oltre il quale ogni debito diventa insostenibile.
Personalmente non credo sufficientemente fondato l’assunto per cui esista un valore soglia comune a ogni economia, indipendentemene dai veri o presunti errori dei due economisti. La sostenibilità dipende dalla crescita dell’economia, da quanto essa sia bilanciata fra crescita reale e inflazione, dalla conseguente capacità produttiva inespressa e anche da quella potenziale del paese, e  in ultima analisi dalla fiducia che gli operatori hanno nei suoi confronti (e non è cosa che si costruisca in pochi anni). Variabili troppo “soggettive” per poter, a mio giudizio, essere catturate da uno studio che metta tutti i paesi in una “distribuzione di probabilità” omogenea e con media e varianza uguali per tutti.
In conclusione, manca nella proposta delle politiche di tipo keynesiano un riferimento preciso alla sostenibilità del debito
 che si creerebbe, ma questa mancanza è di per sé ragionevole: era scritto a chiare lettere che le politiche di supporto andavano fatte se era la domanda a essere deficitaria, e non la capacità produttiva. Tanto bastava, e più non serviva dire.
L’inconveniente è che allora, come abbiamo visto sopra, non si può far per nulla affidamento sulle politiche keynesiane come su di una formulina magica sempreverde per riportare il sorriso a ogni tipo di economia: la ricetta necessita di venir approfonditamente e obiettivamente valutata e tarata sullo stato del singolo malato.
L’altra volta ci eravamo lasciati col dubbio sulla efficacia di 70 di spesa pubblica keynesiana. Se come sembra logico, il saldo primario è una funzione crescente del PIL, allora la formula di Fisher ci dice anche che un aumento di spesa pubblica tale da produrre solo un temporaneo aumento del PIL potrebbe non venir mai riassorbito, specialmente se la copertura del deficit prodotto è ottenuta con emissioni di titoli con vita residua superiore a quella degli effetti moltiplicativi sul PIL.
Aggiungo inoltre che è mia opinione che spesso si possano confondere i significati di “crescente debito pubblico” e di “crescente e continua spinta agli investimenti pubblici”: temo che l’esperienza insegni che il roll-over delle scadenze del debito pubblico non sia altro che il mantenimento della pletorica e crescente struttura richiesta necessariamente dall’aumento del peso dello Stato nell’economia.
In tal senso una crescente parte del debito pubblico che viene riscadenziato diventa perciò risparmio “puro” e non nuovo investimento utile ai fini keynesiani, ossia vi è un eccesso di risparmi sugli investimenti (pubblici), in palese ribaltamento della assurda definizione renziana di “speculazione” secondo cui tutta la parte di risparmio che non sia investita in debito pubblico è potenzialmente “speculativa”.
Sono necessariamente un liberista io e chiunque la pensi così? Certo no. La ragionevolezza ci fa dire che le politiche keynesiane di deficit spending sono adeguate a bilanciare le cicliche insufficiemze della domanda aggregata, ma che questo non dovrebbe mai accompagnarsi a persistenti deficit pubblici. E questo mi sembra logico anche se ragionassimo in una economia aperta a capitali e investimenti esteri, perchè sappiamo bene quanto velocemente possono prendere il largo.
Ma avete mai conosciuto un organismo sociale umano che si sappia autoequilibrare e non tenti di crescere a dismisura? Neppure i mercati capitalistici liberi lo sanno fare. Ogni volta mi viene in mente l’agente Smith di Matrix:

In tutto il mondo c’è un solo organismo che si comporta così: il virus

Due parole sul senso del titolo di questo pezzo. Keynes, a cui devono essere piaciute le frasi ben congegnate, parlando della moneta come attività finanziaria in contrapposizione alla moneta-bene disse che fraintendere la natura della moneta equivale a andare a teatro e confondere i biglietti con la rappresentazione svolta. Notevole sagacia che ogni volta mi strappa un sorriso.
È la rappresentazione ciò che importa e la moneta ci permette di assistervi, ma la rappresentazione può svolgersi ordinatamente (o non svolgersi del tutto, nel caso estremo di assenza di spettatori!) se e solo se il “prezzo (del biglietto) vale la candela”. Continuando l’analogia, lo svolgimento della piece può aver luogo se chi vuole/deve assistervi lo reputa soddisfacente rispetto alla sua funzione di utilità (o alternativamente, sopportabile rispetto alla sua funzione di disutilità, le dinamiche sociali sono molto complesse), e questa NON è indipendente dal prezzo del biglietto, cioè in ultima analisi dalla capacità a esso intrinseca di garantire al suo portatore il soddisfacimento di un bisogno.
Il problema filosofico-economico c’è e insiste proprio (e ancora) sulla natura della moneta. Ma a me la filosofia fa prurito, non mi ci arrischio. Quello che mi preme è sottolineare che il “valore” che attribuiamo alla moneta è appeso a un sottile crine: la fiducia nell’emittente, nel legislatore, nella costruzione socio-politico-istituzionale, nel mantenimento dell’ordine costituito, nella sostenibilità del tenore di vita collettivo.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

Una risposta a “Keynes e la sostenibilità del debito: un tema virale”

  1. Sia ben chiaro che non ritengo assolutamente che questa mia risposta sia la risposta giusta. È solo il mio punto di vista. Paesi sovrani quali Argentina e Islanda o paesi che abdicano alla propria moneta per dollarizzarsi forzatamente e infine paesi che non riescono a uscire dalla spirale “crescita del debito/inflazione” sono tutti esempi di paesi che hanno di fatto ceduto la propria sovranità monetaria e devono entrare nell’ottica di ripensare ontologicamente il proprio debito, assimilandolo a quello di un privato o quasi. Ma non voglio dare l’impressione di evitare il dubbio principale: e l’eurozona? A istinto verrebbe da rispondere anche qui affermativamente, ma non possiamo negare che molti eurostati, pur con livelli altissimi di debito, abbiano goduto della buona crescita e dei tassi bassi dei primi rosei anni dell’euro. A me pare che la causa principale che spieghi quanto accaduto sia ancora la mancanza di fiducia che ad un tratto esplode e tutto distrugge. Ma la soluzione può essere il riappropiarsi della sovranità, inflazionare e svalutare? Il mio punto di vista è noto, la risposta è per me NO. E vi lascio con l’ illuminante storia dell’esplosione di una vecchia unione monetaria che più di tante mie parole spiega il punto di vista dei pro-euro (o degli euro-rassegnati ai quali anche io potrei iscrivermi).

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