La fine dell’innocenza

“La polizia va effettuando indagini pressanti nel mondo degli anormali.

Ci sono zone della cittadina versiliese, quelle lambite dalle pinete, dove la prostituzione maschile viene esercitata largamente: zone che (soprattutto d’estate e di notte, ma non solo) si trasformano in una oscena, lurida Sodoma. Pare che i “capovolti”, fra indigeni e forestieri, siano davvero parecchi”.

 Nell’angusto cucinino del bilocale in via Orsini, nel rione milanese di Vialba, Teresa chiuse il “Corriere della Sera” non appena si accorse che Orlando, il figlio di sei anni, stava allungando il collo sopra la tazza di latte per sbirciare il giornale steso sul tavolo. Del rapimento di Ermanno Lavorini, avvenuto una decina di giorni prima,  il 31 gennaio del 1969, il bambino aveva sentito parlare alla televisione e forse anche a scuola. Però, Teresa non aveva proprio voglia di affannarsi a cercare risposte accettabili alla prevedibile domanda su cosa fossero “anormali” e “capovolti”.

Certo, ora sarebbe stato difficile pensare a Viareggio collocandola nell’emisfero patinato descritto nei rotocalchi, tutta stabilimenti balneari esclusivi e Bussola, Mina e Ornella Vanoni, Adriano  Celentano e Peppino di Capri. Prima la brutta storia della contestazione al veglione di fine anno con il ferimento, da parte della polizia, di un giovane militante di Potere Operaio, il movimento di estrema sinistra che aveva inscenato la protesta contro il veglione borghese alla Bussola. Rischiava la sedia a rotelle, dicevano i giornali, sottintendendo o dichiarando apertamente che insomma, in fondo se l’era cercata. Adesso, con il torbido scenario che si andava delineando dietro la scomparsa del malcapitato dodicenne, anche il mito del Carnevale viareggino si era incrinato. Oltre alle due città distinte e contrapposte, quella degli alberghi di lusso, delle botteghe e degi edifici liberty affacciati sul lungomare e quella degli operai dei cantieri navali, ne appariva una terza, oscura e fino a quel momento innominata, benché nota agli abitanti della Perla della Versilia.

D’altronde, a Milano gli orchi esistevano da un pezzo: Teresa lo sapeva bene, avendone sposato uno.

Il trentenne Luigi Bobbio, detto Scintilla perché possedeva una piccola officina di elettrauto, si era invaghito della giovane Teresa non appena l’aveva vista, nell’autunno di otto anni prima. La ragazza era allora appena diciasettenne, abitava già nell’alloggio in via Orsini e  serviva al banco della latteria in via Arsia. Dopo la scomparsa del padre, rimasto vittima di un incidente nel cantiere edile presso il quale lavorava l’anno prima, Teresa e la madre avevano dovuto rimboccarsi le maniche: per lei questo aveva comportato l’interruzione degli studi al Magistrale Carlo Tenca.

A Luigi ogni tanto prendeva la voglia di un bel cono di panna montata con una spruzzata di cannella. Da via Mambretti, dove si trovava l’officina, saltava sulla Giulietta del ’56, il modello decorato con le pinne posteriori secondo la nuova moda americana e,  dopo avere girellato un po’ facendo la ruota come un pavone e alla faccia del lavoro che poteva aspettare, tanto l’officina era sua, parcheggiava sul marciapiede davanti alla latteria.

Teresa era alta e un po’ troppo magra per i suoi gusti, ma possedeva un bel personale, con la vita stretta come quella di una vespa e le gambe lunghe dalle caviglie fini. Il volto ovale mostrava i tratti delicati di una bambola di porcellana, gli occhi erano del colore dei marron glacés (altra cosa della quale Luigi era ghiotto); aveva i capelli castani sempre raccolti in una voluminosa treccia che oscillava sulla schiena dritta e guardarla camminare da dietro era uno spettacolo. Non dava confidenza: sempre educata e cortese, ma stava sulle sue e anche per questo la trovava così intrigante.

Luigi Bobbio detto Scintilla non era particolarmente intelligente, ma senz’altro scaltro e pure di una cocciutaggine un poco ottusa. Era anche di bell’aspetto, forte e baffuto, il volto che pareva quello di un Apache e denti bianchissimi, a dispetto delle tremende Alfa che fumava. Per conquistare la bella Teresa si armò di gentilezza e di pazienza, aspettandola tutte le sere sulla fiammante Giulietta con un fiore rosso in bella vista sul sedile accanto al suo.

Lei accettò finalmente un passaggio in una sera di primavera in cui si era messo d’improvviso a diluviare e non aveva l’ombrello. Da cosa nacque cosa: in fondo la perseveranza di quell’attraente giovanotto, che in latteria tutti salutavano con una certa deferenza, la lusingava.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Presero a uscire il sabato sera e nei giorni di festa. Luigi si comportò da gentiluomo, accompagnò a casa Teresa rispettando i severi orari imposti dalla madre senza il minimo accenno di mugugno. La portò al cinema, a ballare, a passeggiare in Galleria e a fare scampagnate nel pavese. E fu proprio a Bereguardo, nella boscaglia lungo le rive del Ticino, che nel primo pomeriggio di una calda domenica di luglio successe il fattaccio.

Quando gli disse che era incinta, Luigi non batté ciglio: non si sottrasse alle sue responsabilità, ma nemmeno manifestò alcuna gioia. Comunque, si sposarono in fretta e furia sei mesi dopo. La sposa aveva un abito color champagne che tirava sul ventre tondeggiante e l’espressione frastornata; se qualcuno le avesse chiesto se era felice, avrebbe probabilmente risposto che era un sacco di cose confuse, ma certo non era felice. Luigi le piaceva, la faceva sentire importante e protetta: tuttavia, dai suoi modi premurosi iniziava a trasparire una nota falsa, talvolta vi percepiva addirittura una brutalità sempre più faticosamente dissimulata. Inoltre giravano troppi soldi: un elettrauto che lavorava poco come lui, con un unico operaio alle dipendenze, non poteva guadagnare così tanto da permettersi quello stile di vita abbastanza dispendioso, né il bell’appartamento in Corso Sempione nel quale si trasferirono dopo il matrimonio. Teresa aveva incontrato i suoceri, che abitavano in Lomellina, solo il giorno delle nozze e li aveva trovati spocchiosi e piuttosto cafoni. “Arricchiti”, li aveva definiti lapidaria sua madre. Già, ma in che modo, se il suocero si era detto ferroviere in pensione e la consorte casalinga?

Orlando nacque all’alba di un giorno di aprile alla Clinica Mangiagalli. La pioggia battente, accompagnata dal vento freddo, rigava i vetri della finestra della camera d’ospedale che sapeva di disinfettante e di talco. Luigi comparve solo alla sera, recando con sé il consueto tanfo di fumo. Salutò distrattamente moglie e suocera, guardò con blanda curiosità il figlio e si dileguò presto, frettoloso come il vento che seguitava a strapazzare la città.

Nel momento in cui Teresa tornò a casa con il bambino, che come tutti i neonati spesso piangeva e soprattutto alterava profondamente abitudini e ritmi del vivere quotidiano, gli scatti d’ira di Luigi divennero sempre più frequenti e violenti, nonostante la sua presenza fra le mura domestiche fosse assai limitata. Teresa cercò di rendersi invisibile, pazientò e subì per un anno intero gli sgarbi e i soprusi quotidiani che sfociarono presto negli insulti e negli schiaffi per i motivi più futili. Il giorno del primo compleanno di Orlando, del quale Luigi si dimenticò, gli annunciò la volontà di riprendere a lavorare; sua madre avrebbe badato al bambino nelle ore in cui sarebbe stata assente. Comprendendo che nelle intenzioni di sua moglie quello era un primo passo verso l’allontanamento, Luigi s’infuriò. Quando egli uscì di casa sbattendo la porta e abbandonandola pesta e sanguinante sul pavimento, Teresa trovò la forza di prendere il suo bambino, chiamare un taxi e farsi portare al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Vialba. Le fu riscontrata la slogatura di una spalla e la frattura del setto nasale, oltre alle numerose contusioni; si imbatté in una giovane dottoressa che la convinse a denunciare l’aggressione e la fece assistere dal marito avvocato nella successiva pratica di separazione.

Ai Carabinieri Teresa espose anche i suoi sospetti sull’attività di strozzinaggio del marito con la complicità  dei suoceri. L’anno successivo i tre furono processati: a causa dell’età e delle precarie condizioni di salute i due anziani coniugi non fecero nemmeno un giorno di galera, mentre Luigi Bobbio, detto Scintilla, nell’inverno del ’65 varcò la soglia del carcere di San Vittore, dove sarebbe stato ospitato per i successivi tre anni. Giurò che appena sarebbe uscito avrebbe ammazzato quella spia maledetta e ingrata che era sua moglie, anche se per legge non lo era più: sua, come una cosa comprata, su cui sfogare la rabbia che non sapeva controllare e che avrebbe semmai potuto buttare via, un giorno o l’altro, ma alla quale non era consentito andarsene.

Teresa fece ritorno in via Orsini a casa della madre; le preoccupazioni per la semplice sopravvivenza non le lasciarono il tempo per compiangersi.  Trovò lavoro di nuovo in via Arsia, in una panetteria (prestineria, come si chiamava allora a Milano): la paga era davvero modesta, ma il pane quotidiano e una focaccina tonda per Orlando erano gratis. Con l’aiuto della misera pensione di reversibilità della madre, campavano appena dignitosamente. In compenso Orlando era un bambino affettuoso e di indole mite, ma benché i suoi rapporti con il padre fossero stati di breve durata, bastava che il volume del televisore fosse troppo alto perché scappasse a nascondersi sotto il letto. Trascorsero tre anni faticosi ma sereni: poi, all’inizio di dicembre del ’68, Luigi tornò in libertà.

Orlando amava la sua scuola. Gli era piaciuta fin dal primo giorno, così vecchia e imponente, con il largo cortile nel quale giocavano durante l’intervallo, le scale di marmo e le aule dai soffitti altissimi. In classe si sentiva sempre un buon odore di inchiostro, di gessetti per la lavagna e di quaderni (perché i quaderni e i libri avevano un particolare profumo che a lui piaceva tantissimo annusare, ma lo faceva di nascosto per non sembrare strano). Qualche volta si sentiva anche il fastidioso olezzo di indumenti che sapevano di cucina: la scuola General Cantore di via Mambretti era frequentata dai figli della classe operaia che abitava nelle case popolari di Vialba e molti erano figli di immigrati meridionali; alcuni venivano dalla limitrofa Quarto Oggiaro. Facevano eccezione i figli di qualche bottegaio del quartiere: come Mariella, i cui genitori avevano un negozio di calzature e infatti era l’unica della sua classe ad avere sempre scarpe nuove e lucidissime. Sedeva nel banco davanti a quello di Orlando ed era bellissima: aveva i capelli di un biondo talmente chiaro che sulle tempie parevano bianchi e occhi celesti dallo sguardo sempre un poco distratto, il naso corto all’insù e la bocca a forma di cuore rosa.

Gli piaceva al punto che non riusciva nemmeno a rivolgerle la parola: ma tanto lei non lo vedeva nemmeno. Sedendo alle sue spalle, Orlando respirava goloso l’effluvio dolce e pulito emanato dalla sua persona, che gli giungeva più intenso ogni volta che Mariella scuoteva la chioma bionda.

Dopo Sant’Ambrogio la maestra Agata, una sorta di nonna gentile con la voce sommessa e leggermente chioccia, i capelli grigi riccioluti e le piccole mani scarne e secche, aveva aiutato i bambini ad appiccicare sui vetri delle finestre stelline, babbi Natale, pupazzi di neve e altre decorazioni natalizie. La mattina successiva Orlando le stava contemplando dal lato opposto della via, mentre aspettava di attraversare la strada con la mano stretta a quella della mamma.

“Teresa!”

Era un grido rauco che gli era sembrato di riconoscere e lo aveva atterrito. Più tardi, la mamma gli aveva rivelato che l’uomo alto con i folti baffi neri e gli occhi cattivi era suo padre; era stato molto più complicato spiegargli perché gridasse cose per lui incomprensibili eppure evidentemente minacciose, tanto che era accorso il vigile e lo aveva mandato via.

Dopo quel giorno, Luigi era comparso varie volte davanti alla panetteria dove Teresa lavorava, tentando di convincerla a salire in auto con lui. Voleva parlare, riallacciare i rapporti per il bene del bambino. Riprese l’abitudine di presentarsi con un fiore, portò un regalo di Natale per Orlando, cercò di riprodurre il garbato corteggiamento che anni addietro l’aveva tratta in inganno: ma ora, in fondo ai suoi sguardi imploranti, Teresa scorgeva il brillio sinistro della rabbia irragionevole che aveva avuto modo di conoscere fin troppo da vicino.

Teresa sapeva che era solo questione di tempo, fiutava un pericolo imminente. Provò a parlarne con l’avvocato che si era occupato della separazione, ma le apparizioni frequenti dell’ex marito, benché fastidiose, erano innocue: non vi era motivo per richiedere un’ordinanza restrittiva. L’avvocato le aveva tuttavia consigliato prudenza, per sé e per il figlio. Già, prudenza: ma mica potevano rinchiudersi in casa, protetti da una porta che veniva giù con una spallata.

Arrivò la settimana di Carnevale; di Viareggio si continuava a parlare non per le attese sfilate dei carri in maschera, bensì per il sequestro di Ermanno Lavorini. Trascurando qualsiasi altra possibile interpretazione, la polizia insisteva sulla ghiotta traccia degli anormali, i “capovolti”, consentendo e alimentando il sistematico sciacallaggio di buona parte della stampa locale e nazionale.

Dall’apparizione di suo padre, una specie di orco anche nell’aspetto, Orlando percepiva l’ansia della madre ed era diventato a sua volta timoroso e guardingo.

Il giovedì grasso gli insegnanti della General Cantore avevano organizzato una festicciola per Carnevale. Le lezioni per quel giorno erano sospese; i bambini potevano recarsi a scuola in maschera e alle undici avrebbero mangiato le chiacchiere e le frittelle procurate dai genitori. Era una di quelle circostanze in cui le differenze di censo, benché in quella scuola non fossero così rilevanti, venivano messe in risalto  con involontaria crudeltà.

Grazie al lavoro della mamma alla panetteria, Orlando avrebbe portato un bel vassoio di fragranti chiacchiere, ma per il travestimento dovette accontentarsi di un cappello a forma di cono, in leggero cartone blu con le stelle dorate, corredato di una bacchetta che terminava con una coda spelacchiata di leggeri nastri colorati di carta velina.

“Sarai un bellissimo Mago Merlino”,

aveva detto la mamma porgendogli i due oggetti che non sembravano nemmeno nuovi. Orlando si era sforzato di nascondere la sua delusione, anche se aveva voglia di piangere.

“Questa è davvero una bacchetta magica, sai? Dovrai fare attenzione a come la usi”,

aveva continuato Teresa, agitando nell’aria la punta del bastoncino infiocchettata dal misero pennacchio, mentre un magone cattivo le strozzava la voce.

Camminando verso la scuola, Orlando decise di fare un esperimento: chiuse gli occhi, tanto la mamma lo teneva per mano; agitando la bacchetta pensò, in verità senza nessuna convinzione, che se riaprendoli avesse visto passare una macchina rossa, allora la bacchetta funzionava.

Riaprì gli occhi, ed ecco apparire una vettura rossa. Non conosceva ancora il termine “coincidenza”: osservò l’arnese che stringeva nella mano con perplessità, ma anche con un vago timore.

Orlando entrò coraggiosamente in classe reggendo il grande pacchetto di dolci. Notò subito con sollievo che nella sua classe non erano tanti i bambini con un costume completo; i più indossavano improbabili travestimenti fatti in casa alla bell’e meglio. La maestra Agata lo accolse con la consueta affettuosa bonomia.

Mariella era un incantevole Cappuccetto Rosso, con tanto di mantello, di scarpette di vernice nera e di calzettoni candidi con i fiocchi, un cestino di vimini graziosamente appeso al braccio. Orlando si sentì struggere e tentò invano di incrociare il suo sguardo sbadato. Allora l’avvicinò di spalle e scuotendo dolcemente il pennacchio colorato verso il suo mantello scarlatto, pensò qualcosa di incompiuto che poteva rassomigliare a “…guardami, esisto, sono qui”.

Mariella si volse lentamente, posò gli occhi celesti sulla sua persona e Orlando vacillò sotto il peso di quell’azzurro, ma si sforzò di non fuggire.

“Hai un bel cappello. Sei un mago?”

“Sì. Merlino”,

rispose Orlando, deglutendo a fatica.

“Allora stai qui, di fianco a me: così se viene il lupo cattivo fai una magia e mi salvi”.

La felicità è una cosa che si comprende meglio, da piccoli, perché si riesce a concentrarsi solo su quella.

Era stata una mattinata straordinaria e Orlando con la sua bacchetta spelacchiata aveva fatto ancora un paio di magie: per accaparrarsi la frittella più grossa e per tenere lontano quell’antipatico di Marco, che puzzava sempre di cane bagnato ed era manesco.

“Aspettami sempre nel cortile della scuola e non ti allontanare mai, anche se sono in ritardo”,

ripeteva ogni mattina la mamma. Le lezioni terminavano a mezzogiorno e mezzo, lei usciva dal negozio poco dopo quell’ora e faceva di corsa la strada per raggiungere la General Cantore, poco più di un chilometro. Ma quel giovedì era la una passata da un pezzo, anche gli insegnanti  erano andati via e la mamma non arrivava. Orlando si era avvicinato al cancello per vedere meglio la strada; nel frattempo si era messo a piovere, l’umidità penetrava la stoffa del cappotto e sentiva freddo anche ai piedi. Il cappello da mago si stava bagnando e il cartone blu presentava dei piccoli rigonfiamenti ruvidi.

Teresa era uscita in ritardo e aveva una gran fretta; non aveva quindi fatto caso all’auto di Luigi parcheggiata poco più avanti. Sulla via i pochi passanti camminavano veloci verso casa perché era ora di pranzo; nessuno badò all’uomo che uscì svelto dalla Giulietta rossa e si parò davanti alla donna che passava accanto.

“Sali”,

le sibilò in faccia. Lei si scorse una livida ferocia nel suo sguardo e comprese che quella cosa che le premeva sulle costole era una pistola.

Luigi partì a razzo verso Quarto Oggiaro e girò per il quartiere guidando come un pazzo. Dopo un poco tornò verso Vialba e inchiodò davanti a Villa Scheibler, sinistramente suggestiva nel suo maestoso sfacelo, luogo di rifugio e di perdizione per disperati di vario tipo.

Teresa osservava attonita il volto distorto in una smorfia alterata e nemmeno capiva il profluvio di insulti che le scaraventava addosso; si aggrappava al pensiero di Orlando che aspettava davanti a scuola, sotto la pioggia. Paralizzata dalla paura, seguiva con gli occhi la pistola che il padre di suo figlio, nella concitazione di quel delirio, le agitava davanti alla faccia.

“…anzi, sai che facciamo? Andiamo a prendere il moccioso a scuola, così mi libero di tutti e due in un colpo solo, che mi avete rovinato la vita”.

Appena dietro il cancello della scuola elementare General Cantore il cappello da Mago Merlino, ormai zuppo di pioggia, si afflosciava mestamente sul selciato, accanto alla cartella in finta pelle.

Orlando si ricordò a un tratto della bacchetta magica. Il pennacchio era fradicio e appariva ancor più miserevole, ma provò  comunque a scuoterlo adagio. Fu subito distratto dal ruggito rabbioso di una vettura che arrivava sulla via, frenando poco dopo con un gran rumore. Vide la mamma catapultarsi fuori senza nemmeno aspettare che l’auto si fermasse del tutto e correre verso la scuola, subito inseguita dall’orco che era suo padre, il quale impugnava una grossa rivoltella uguale a quelle che aveva visto alla televisione, in certi film western che gli piacevano tanto.

Allora agitò energicamente la bacchetta magica nella pioggia, creando un vortice di goccioline scintillanti e pensò una cosa che non avrebbe mai raccontato a nessuno, per tutta la vita.

Da Largo Boccioni un vecchio furgone bianco imboccò via Mambretti a velocità sostenuta. L’autista tentò di frenare, ma il veicolo scivolò sull’asfalto sdrucciolevole per la pioggia e investì in pieno Luigi, proprio nel momento in cui Teresa si lanciava nel cortile della scuola, buttandosi sopra il figlio.

Orlando udì un botto terribile, un tonfo molle e disgustoso che non avrebbe più dimenticato. Pioveva sempre più forte; attorno al corpo immobile e scomposto di Luigi Bobbio, detto Scintilla, si allargava una pozza rosata. Arrivò della gente, poi un’ambulanza e la Polizia.

Da quel giorno, il bambino avvolse la bacchetta magica in un foglio di carta da pacco e la ripose sopra l’armadio della mamma, dove rimase per parecchi anni.

Orlando prese un diploma di geometra e aprì uno studio in società con un amico, si sposò (non con Mariella), ebbe due bravi figli che andarono all’Università e si trasferirono in Paesi lontani, uno dopo l’altro.

Dopo diversi decenni dalla scomparsa di Ermanno Lavorini, gli inquirenti dovettero infine riconoscere che gli “anormali” non c’entravano niente e che il rapimento aveva lo scopo di finanziare un movimento di monarchici. Nel frattempo, per il funesto connubio tra una colpevole sciatteria investigativa e l’accanimento di certa stampa miserabile e disonesta, due innocenti non avevano retto l’ondata di fango che li aveva sommersi ed erano morti.

Orlando invece visse assai più a lungo di quanto si sarebbe aspettato, finendo per restare solo  in un mondo che non era più il suo. Aveva visto Milano cambiare pelle tante di quelle volte da non riconoscerla: ora si potevano percorrere velocemente migliaia di chilometri a bordo di certi siluri sibilanti e nel cielo, sempre più o meno dello stesso colore slavato, si stagliavano le ardite geometrie eteree delle nuove arterie stradali e i palazzi sempre più alti, perché lo spazio orizzontale era ormai esaurito. Certo, molte gravi malattie erano state debellate, con il risultato che si restava anziani molto più a lungo perché nessuno aveva mai inventato l’elisir di eterna giovinezza.

Un giorno pensò che si era stufato, aveva vissuto abbastanza.

In tutti quegli anni la bacchetta magica, occultata nell’involto marroncino, lo aveva seguito nei vari spostamenti. Non sapeva nemmeno perché aveva custodito per tanto tempo quell’oggetto, insignificante e anche un poco malinconico nella sua pochezza: crescendo, qualsiasi  dubbio infantile sui suoi eventuali poteri si era risolto.

Dunque, fu certamente per effetto di una bizzarra coincidenza se quel giorno il vecchio Orlando, subito dopo aver scosso leggermente il pennacchio frusto della bacchetta, chiuse per sempre gli occhi, scomparendo dietro un enigmatico sorriso.

“A proposito di fake news, quella che era solo una pista investigativa sbagliata, alla quale i giornali dettero un’enorme risonanza, è diventata una conoscenza acquisita. Nelle risultanze processuali e nella sentenza definitiva invece Ermanno Lavorini fu assassinato durante un sequestro di persona, messo in atto da ragazzi poco più grandi di lui, per ottenere un riscatto che doveva servire a finanziare un gruppetto politico di estrema destra” (“Il caso Lavorini”,  Sandro Provvisionato).

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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