La Grande Muraglia di gomma

È appassionante – e per nulla sterile – il dibattito negli Stati Uniti sulla posizione da tenere sulle relazioni con la Cina. Si tratta di un percorso multidirezionale tra i legislatori, le lobby, l’opinione pubblica, la stampa, le Università.

Le posizioni sono ovviamente complesse e la loro articolazione taglia le diverse appartenenze politiche. Se in via di principio esiste un’opposizione ideologica all’esuberanza cinese, dall’altra le convenienze economiche spingono al mantenimento di rapporti non conflittuali con Pechino. Questa seconda posizione sta comunque perdendo forza, anche per l’avvicinarsi della tornata elettorale per eleggere il successore di Obama. I cittadini sempre più frequentemente vedono la Cina come un pericolo, invece che come una fonte di affari. Questi termini del dibattito sono noti, ma a essi si è aggiunto il versante della responsabilità legale delle aziende cinesi attive negli USA nel settore dei servizi. È ovviamente un tema poco conosciuto al grande pubblico; non di meno il suo impatto è facilmente immaginabile. La cornice è l’appetito cinese dei capitali necessari all’espansione. Il renminbi non è internazionalizzato e il mercato dei capitali trova ancora a Wall Street la sua àncora. Proprio al NYSE si è aperta la più grande IPO statunitense, quella di Alibaba del magnate cinese Jack Ma. Senza sorprese, ormai una pletora di banche cinesi, società finanziarie, aziende quotate è attiva negli Stati Uniti. Una parte degli esperti guarda con fiducia allo sbarco. Sostiene che le leggi Usa sono invalicabili e che alla fine il business environment contagerà positivamente le aziende cinesi e le convertirà compiutamente alle regole dell’economia di mercato: trasparenza, responsabilità, rispetto della concorrenza.

Una serie di casi contraddice però questa apertura e ha dato forza a posizioni più intransigenti.

Il vero nodo da sciogliere è dove si arresti la giurisdizione USA di fronte ad aziende cinesi. Ovviamente quelle che sono attive sul territorio federale sono soggette alle leggi locali, ma spesso non sono i decisori finali, al contrario della loro casa madre. Di conseguenza, ogni ricorso giudiziario deve essere consegnato in Cina. Esiste da anni la Convenzione de L’Aja sul diritto privato che consente la trasmissione di atti legali con canali dedicati, diversi da quelli diplomatici. Anche se la Cina ne è stata firmataria nel 1997 (gli Usa nel 1972), la gestione delle vertenze è stata piena di sabbia negli ingranaggi. Senza ironia, il paese ha saputo costruire delle scatole cinesi che non aiutano a identificare che è veramente responsabile di vere o presunte violazioni della legge. Quando si arriva alle porte del responsabile, scatta la clausola dei “segreti di stato”. Il resto è compito della burocrazia lenta, delle necessità delle traduzioni, della vischiosità decisionale. L’esito più probabile del dibattito a Washington è l’assegnazione di maggiori responsabilità ai rappresentati negli USA di aziende cinesi attive nella finanza e nei servizi. Rappresenta probabilmente la soluzione più indicata contro l’impotenza procedurale. È la conferma indiretta che il muro di gomma eretto con astuzia da Pechino è più resistente della Grande Muraglia di mattoni, scavalcata facilmente dagli intraprendenti cavalieri mongoli.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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