La guerra di Nino, parte seconda: da William Creek a Fabbrico

Gli Antenati, che avevano creato il mondo, cantandolo, erano stati poeti nel significato originario di poesis, e cioè «creazione».”  (Bruce Chatwin, “Le Vie dei Canti”) 

La vita al Lone Gum era faticosa, indissolubilmente legata ai ritmi della terra e delle stagioni, ma era proprio questa simbiosi che affascinava ed appagava Nino. Aldo era un ottimo maestro, e lo aveva introdotto con rude naturalezza in quel modo di vivere, forse intuendo che lo avrebbe capito ed apprezzato.

Nino si era spesso chiesto come mai i fratelli Thompson e gli altri mandriani non si fossero arruolati (in Australia l’arruolamento era infatti volontario), ma poiché sapeva essere discreto non chiese mai spiegazioni. Non fu mai trattato come un prigioniero e l’ambito rustico, ma solidale e genuino ed i rapporti che si stavano sempre più consolidando avevano completamente e rapidamente cancellato in lui la percezione del suo stato di prigioniero di guerra. Del resto, in quei luoghi selvaggi, dove era solo la natura a dettare le sue leggi e la sopravvivenza era il magnanimo riconoscimento concesso per il rigoroso rispetto di queste, la guerra era davvero un’eco lontana, limitata a qualche sporadica notizia riportata di ritorno da qualche commissione a William Creek.

Nino a volte si sentiva vagamente in colpa per la tiepida nostalgia che provava per la sua famiglia e per la sua terra, che pure gli erano così care; più che altro, avrebbe voluto far sapere ai suoi che era vivo e che stava bene, ma non vi era modo. Comunque sentiva che il suo presente era lì e non gli dispiaceva affatto, al futuro ci avrebbe pensato a guerra finita.

Una sera, tornando a casa dopo due giorni passati a somministrare vaccini ai vitelli, vicino ai recinti Nino scorse un piccolo koala mezzo morto, probabilmente scampato all’aggressione di un dingo: ne ebbe pena, lo raccolse e lo portò a casa. Chiese aiuto a Lucy: il koala era veramente molto piccolo ma sembrava più spaventato che ferito gravemente; probabilmente la madre era stata uccisa e lui era riuscito a fuggire. Lo medicarono, lo fecero bere con un cucchiaio e strapparono qualche foglia di eucalipto, che il cucciolo masticò lentamente. Aveva un musetto buffo al quale gli occhi tondi e le orecchie poste ai lati del capo conferivano un’espressione perennemente perplessa.

Aldo cercò di dissuaderlo dal tenerlo con sé, poiché era opinione comune che i koala fossero scarsamente intelligenti e per nulla addomesticabili, ma l’antica cocciutaggine contadina di Nino riaffiorò e fece di testa sua. Lo chiamò Fred Astaire in onore del suo indimenticabile idolo, lo portò vicino agli eucalipti  che ombreggiavano l’aia affinché imparasse a cibarsi da sé e pochi mesi dopo quando Nino rincasava Fred Astaire lasciava l’ombra aromatica della chioma degli eucalipti per aggrapparsi alla sua spalla. I compagni lo canzonavano, ma era palese la loro ammirazione per quell’italiano testardo che era persino riuscito ad entrare in sintonia con un koala; e del resto Fred Astaire fu il pretesto che permise alla giovane e bella Lucy di trascorrere molte serate in compagnia di Nino.

“Bé, la piccola Lucy deve proprio essersi innamorata di Fred Astaire”,

gli disse un giorno Aldo, guardandolo con aria sorniona da sotto la tesa del cappello. Nino arrossì ma sorrise di rimando, prima con gli occhi che con la bocca.

Lui era rimasto subito colpito dalla solida bellezza di Lucy e dai suoi modi franchi e diretti, così simili all’atteggiamento spigliato delle ragazze delle sue parti, e pur essendo abbastanza ingenuo si era accorto delle piccole attenzioni che la ragazza gli dedicava, quando lo serviva a tavola o quando rigovernava con particolare cura il suo modesto alloggio.

Una domenica Lucy lo condusse in jeep fino al lago salato di Eyre, lungo l’Oodnadatta Track. Nino si era aspettato di vedere dell’acqua, ma aveva visto solo una distesa salina luccicante dai riflessi rosati, i cui contorni si perdevano e si confondevano nel chiarore abbacinante delle distese di sabbia del vicino deserto di Simpson. Lucy gli spiegò che l’immenso bacino salato era quasi sempre asciutto: la sporadica presenza di acqua dipendeva dalle piogge monsoniche che alimentavano i bacini idrici dei Territori del Nord. Gli parlò anche dell’importanza di quel luogo per gli aborigeni e cercò di spiegargli il loro fondamentale concetto di essere tutt’uno con la natura e con l’ambiente e di quanto fosse ingiusto e sbagliato imporre loro (come il Governo stava cercando di fare) cultura e ritmi di vita differenti, per di più non riconoscendo loro i medesimi diritti civili degli australiani bianchi.

Fu osservando quel panorama primordiale e suggestivo ed ammirando il volto di Lucy illuminato dalla passione interiore per quella cultura e per quei luoghi che Nino comprese una verità semplice e fondamentale: da quelle parti la gente si era spogliata di molte cose inutili, e viaggiava sulle strade della propria esistenza con un bagaglio minimo ma indispensabile.

Fu in quel momento che prese Lucy per mano, con la ferma intenzione di non lasciarla mai più.

Quando fecero ritorno quella sera era tardi, e gli altri avevano già cenato; Lucy portò nella baracca di Nino qualcosa da mangiare insieme. Attraversò l’aia in senso inverso solo all’alba del mattino dopo, forte di due inconfutabili certezze: quello era l’uomo che voleva, e Fred Astaire, che come tutti i koala si nutriva di notte, masticando biascicava come un vecchio.

I Thompson non ostacolarono in alcun modo la loro storia: si erano affezionati a Nino, e lo consideravano persona degna di stima e di rispetto; Ned incominciò a pagare Nino come se fosse un bracciante australiano anziché un prigioniero di guerra. A causa del suo stato di prigionia, la legge australiana non consentiva a Nino di sposare Lucy. Tuttavia, nessuno se ne fece un cruccio.

La capitolazione della Germania l’8 maggio del 1945 sancì di fatto la fine della seconda guerra mondiale.

Quella sera Sarah irruppe sull’aia con il suo pick up, frenò sollevando una gran polvere, si catapultò fuori e corse verso il patio dove tutti sedevano tranquilli, ristorati dalla brezza crepuscolare:

“…è finita! La guerra è finita! I tedeschi si sono arresi, è finita!!”

La guardarono per un istante frastornati, poi si alzarono e si abbracciarono tutti.

Nino tornava ad essere un uomo libero di fronte alla legge, ma la paradossale verità era che nella sua condizione di prigioniero aveva dapprima intravisto e poi conquistato una libertà differente, della quale non aveva mai neppure sospettato l’esistenza, e della quale non poteva più fare a meno. Incominciò a sentirsi inquieto, combattuto tra il richiamo della terra e della famiglia nelle quali era nato ed il profondo legame con i luoghi e con la gente conosciuti in Australia.

In un assolato mattino di fine giugno la signora Iside, la mamma di Nino, ricevette dalle mani del portalettere una busta ricoperta di strani timbri colorati. Poiché il figlio maggiore era al lavoro e lei, al pari del marito Ezechiele, non sapeva leggere, corse dal prevosto. Gli  porse la busta con mani tremanti: apprese così che Nino stava bene, che lavorava in Australia e che era sempre stato trattato bene. Ne fu felice, ma capì che lo aveva perso, come tre dei quattro figli che non erano mai più discesi dagli Appennini, e per i quali non avrebbe avuto nemmeno una tomba sulla quale piangere.

Trascorsero le settimane, i mesi e le stagioni.

Nelle  rare lettere che riceveva da casa (e dalle quali apprese della morte dei suoi tre fratelli) Nino percepiva la freddezza del fratello maggiore, che gli indicava chiaramente che la famiglia non aveva preso bene la notizia – non enunciata, ma sottintesa – che non sarebbe tornato a casa.

Verso la fine di gennaio del ’48 Nino ricevette una breve missiva con la quale il fratello gli comunicava che la sua presenza a casa era indispensabile poiché dovevano prendere delle decisioni su delle proprietà comuni. Nino si sentì di colpo in trappola: ebbe la sensazione di avere ingannato se stesso pensando che la vita di quegli ultimi anni fosse quella a cui era destinato, e non una parentesi casuale destinata a chiudersi. Spiegò a Lucy che doveva partire. Lei lo guardò a lungo con lo sguardo fermo e gli disse solo:

“vai e trova la tua strada, Nino. Sarà quello che deve essere”.

Tutti gli altri lo salutarono con una stretta di mano che sembrava già voler prendere le distanze, o almeno così parve a Nino.

Partì all’alba con il cuore pesante e l’animo incerto, mentre il sole ignaro illuminava l’orizzonte rischiarando le sagome delle acacie, degli eucalipti e di quella casa che per Nino era ormai casa sua. Approfittò del passaggio di uno stagionale che tornava a Melbourne, da dove si sarebbe imbarcato per Genova.

Circa un mese dopo, un freddo pomeriggio di fine febbraio, la corriera lo depose sulla piazza di Fabbrico e poiché non aveva avvisato nessuno del suo arrivo, trovò solo la nebbia ad attenderlo. Guardò la chiesa e le case che ricordava così bene, e gli sembrarono incombenti. Si avviò a piedi verso l’Albergo Italia. Alcuni uomini uscirono dal Caffè e guardarono l’uomo con il volto cotto dal sole ed i lunghi capelli biondi legati a coda di cavallo che camminava verso di loro con una valigia in mano. Lo osservarono incuriositi, poi qualcuno gridò:

“Vé, ma è Nino dell’Iside!”

E furono strette di mano e pacche sulle spalle, e racconti di gente che non era tornata dal fronte e di vecchi che non avevano saputo sopportarlo, e di altri che invece ce l’avevano fatta ed erano tornati per riprendere faticosamente il filo interrotto della propria vita.

Nino si diresse a piedi fuori dal paese, verso la cascina dei suoi. Fece fatica a trovarla, erano solo le sette ma era buio e la nebbia lo confondeva.

Non fu accolto dall’abbaiare di Poldo, che nel frattempo era morto. La stretta di mano che gli riservò il fratello Ennio gli sembrò meno calorosa di quella degli amici incontrati sulla piazza; Ezechiele e Iside gli apparvero come due vecchi che infine avevano ceduto e si erano ripiegati su sé stessi: lo abbracciarono, gli sguardi leggermente vacui lucidi di commozione, e Nino percepì la fragilità dei loro corpi, provandone un dispiacere struggente.  Apprese che Ennio lavorava alla Landini Trattori ed abitava con la moglie ed il figlio (che Nino ricordava neonato) insieme ai vecchi genitori, per non lasciarli soli. Aveva ricevuto un’offerta dai proprietari del Mulino Dallari per l’acquisto della terra della famiglia, che ormai nessuno lavorava più: i cugini erano tutti d’accordo, mancava solo il suo assenso. Acquistando i terreni, i proprietari si erano detti disposti ad assumere Nino alle loro dipendenze.

Nino era frastornato, guardò i volti ansiosi del fratello e dei genitori e non poté fare altro che accettare.

Incominciò a lavorare al Mulino, riprese a scendere al fiume a pescare (spesso con l’anziano padre, per non lasciarlo andare solo) e a frequentare gli amici del Caffè Italia, che lo chiamavano “l’Australiano”, non immaginando neppur lontanamente quanto questa definizione fosse vera.  Cercava di non pensare a ciò che aveva lasciato in Australia, ma quando si svegliava al mattino conservando un vago ricordo dei sogni notturni si rendeva conto che in realtà una parte di lui non aveva affatto lasciato quei luoghi.

Un tardo pomeriggio di fine luglio tornando a casa dal lavoro Nino trovò tutti in uno stato di grande agitazione: Ezechiele era sparito dal mattino e nessuno sapeva dove fosse. Nino corse deciso al fiume, seguito dal fratello. Il papà era adagiato sull’argine all’ombra di un pioppo, un leggero sorriso distendeva i tratti del suo volto raggrinzito, pareva che dormisse. Stringeva nella mano la cordicella del guadino, nel quale un enorme pesce gatto aveva rinunciato a lottare già da un po’.

Di ritorno dal funerale del padre, Nino scese al fiume, passò qualche ora seduto all’ombra a guardare l’acqua che scorreva ed infine seppe cosa doveva fare. Tornò a casa e comunicò alla famiglia che aveva deciso di ripartire per l’Australia: salutò tutti, e stavolta fu chiaro che era un addio.

Investì i soldi della vendita della sua parte di terra nell’acquisto di una Guzzi GTW500 che imbarcò sul piroscafo che da Genova lo avrebbe riportato a Melbourne. Una volta sbarcato, circa un mese dopo, impiegò 4 giorni per raggiungere William Creek, fermandosi più volte a togliere la polvere dagli ingranaggi della Guzzi per non grippare.

Giunse sull’aia del Lone Gum la sera del 15 settembre, e nessuno riconobbe l’uomo avviluppato in una tuta impolverata in sella a quel bolide rosso, appena meno impolverato di lui. Quando si tolse il fazzoletto dal volto e il caschetto di cuoio dal capo liberando i lunghi capelli biondi, Lucy superò con un balzo i tre gradini del patio e lo stritolò in un abbraccio poderoso. Gli altri lo salutarono come se fosse mancato appena per qualche giorno; Aldo gli disse

“tra qualche giorno dovremo radunare le mandrie più su e portarle fino ad Alice Springs per la fiera del bestiame”.

Era a casa.

Quando si fu lavato e cambiato ed ebbe (finalmente) consumato un pasto decente, si accorse che non aveva ancora visto Fred Astaire.

“Mi spiace, è sparito qualche giorno dopo la tua partenza e non lo abbiamo più visto”.

Nino si rattristò e pensò che qualsiasi scelta comporta già una rinuncia (o questo o quello, in definitiva), ma implica anche ulteriori prezzi da pagare, seppur modesti.  Si coricò con la schiena a pezzi e dormì come un sasso.  Si svegliò all’alba, come se fosse ansioso di riprendere subito il ritmo abituale, e quando uscì sull’aia scorse Fred Astaire che scendeva lentamente da uno degli eucalipti e si dirigeva con la medesima serena lentezza verso di lui. Gli sembrò un segno o gli piacque crederlo, e si sentì in pace.

La mattina del 23 gennaio del 1950 Lucy disse a sua madre che non se la sentiva proprio di aiutarla a rigovernare la casa: a mezzogiorno nacque Nyoongah, un maschietto del ragguardevole peso di quattro chili, che così volle chiamare la madre in omaggio al popolo aborigeno. Suo padre lo vide al tramonto, rincasando dopo tre giorni di bivacco tra le mandrie, e rimase lì impalato con il cappello in mano e Fred Astaire aggrappato alla sua spalla con la solita espressione di lieve sbigottimento.  Si sentì stordito da un groviglio di emozioni che fluivano disordinatamente in tutto il suo essere, e le lasciò scorrere.

Tre anni dopo nacque Ezechiele, che fu sempre chiamato Eze poiché nessuno riusciva a pronunciare correttamente il suo nome.

Nino prese la cittadinanza australiana e trascorse tutta la sua lunga vita al Lone Gum, e l’ultima cosa che vide in una mite sera di settembre, oscillando dolcemente la vecchia sedia a dondolo sul patio e pensando che stava arrivando un’altra primavera, fu il cielo blu che si incendiava di carminio e di arancio sopra gli eucalipti e le acacie.

https://youtu.be/EATZpASejvQ

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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