L’anima gemella

Un rumore qualsiasi la richiamò da un sonno leggero e agitato, già prossimo al risveglio. Tese l’orecchio al fruscio liquido delle auto sull’asfalto e ne dedusse che pioveva ancora.

Si rannicchiò sotto le coperte in attesa del gorgoglio profumato del caffè in ebollizione nella vecchia moka, ma udì soltanto qualche rumore indistinto dall’appartamento adiacente: eppure era sabato, e come tutti i sabati sua madre avrebbe dovuto essere già alzata…

Malgrado la sua riluttanza, una forza misteriosa e cattiva la sospinse brutalmente fuori da quello stato sospeso di dormiveglia nel quale i sogni assumono lo spessore materico della realtà. Si liberò delle coperte con un movimento brusco, scese dal letto e infilò la vestaglia di un soffice tessuto sintetico azzurro che la infagottava senza grazia alcuna e si elettrizzava al minimo sfregamento, emettendo crepitanti scariche alle quali invariabilmente reagiva con un piccolo sobbalzo.

Sollevando la tapparella della camera da letto constatò che non aveva smesso di piovere: la strada riluceva di umidità in un mattino senza chiarore e i fari delle auto generavano scie filanti come la coda delle stelle comete. Sospirò e pensò che doveva sbrigarsi, di lì a poco avrebbe dovuto recarsi al lavoro e se voleva il caffè avrebbe dovuto prepararselo: da quando sua madre era morta, non vi era proprio nessuno che potesse farlo per lei.

“Non può piovere per sempre”, che film era? Ah, sì: Il Corvo, una storia d’amore e di vendetta, bella e tremenda. Certo che l’acqua è vita ma troppa pioggia può infradiciare ogni cosa fino a farla marcire, al pari della malinconia che sgocciola penetrando fin nei più profondi recessi dell’animo, fino a disancorare qualsiasi certezza.

Camilla rinunciò al caffè per pigrizia, si preparò e uscì nel grigiore della giornata autunnale dirigendosi a piedi verso il supermercato in via Trilussa, dove era impiegata come cassiera. Da via Capuana erano due passi, la sua vetturetta poteva stare parcheggiata sotto casa, dove la scorse con sollievo: aveva passato indenne un’altra notte, nessuno l’aveva rubata né danneggiata e a Quarto Oggiaro non era una cosa così scontata. Il supermercato avrebbe aperto al pubblico di lì a poco; entrò insieme alle colleghe, ai magazzinieri e al direttore, raggiunse gli spogliatoi e indossò la divisa.

“Tu alla cassa numero 3, Camilla”.

Non appena sbloccarono le porte, i primi clienti presero ad aggirarsi per i corridoi spingendo i carrelli. A quell’ora vi erano molte persone anziane, le quali per ragioni ai più incomprensibili sovente si piazzavano davanti all’ingresso un quarto d’ora abbondante prima dell’orario di apertura, quasi temessero di non trovare posto arrivando più tardi. Una volta entrati si attardavano tra le file di mercanzie variopinte discorrendo amabilmente tra di loro; terminata la spesa cercavano sempre di individuare tra le cassiere quella che ognuno trovava più simpatica, per poter continuare la conversazione. Era un rituale rispettato sia dalle persone sole che dalle coppie di coniugi; questi ultimi si muovevano con rigorosa sincronia di movimenti da ballerini un poco arrugginiti e davano l’impressione di vivere in una simbiosi così perfetta da operare infine una sovrapposizione, trasformando i dialoghi in monologhi.

Era successo anche ai suoi genitori: da quando il papà a 68 anni si era deciso a chiudere la piccola officina di elettrauto che ormai rappresentava più un debito che una fonte di sostentamento, avevano preso a condividere ogni singolo istante della giornata in una sorta di dipendenza fisica.  Era stato così fino a cinque anni prima: una sera di primavera, terminato di cenare suo padre si era improvvisamente rattrappito e aggrappandosi alla mano della moglie, mentre il volto si contraeva in una smorfia di attonito dolore, aveva sibilato:

“Caterina, non sto bene, forse non ho digerito”

e un istante dopo si era accasciato sul piatto, già privo di vita. La mamma non aveva pianto, nemmeno una lacrima, neppure al funerale né a Musocco, mentre la bara di lucido mogano veniva calata nella terra bruna. Quella notte, risolvendosi infine a coricarsi per cercare conforto nell’inconsapevolezza  del sonno, guardando il letto matrimoniale aveva mormorato

“E io come faccio, adesso, senza il mio Gino?”

Camilla non aveva trovato le parole per confortarla, ritenenendo che in realtà non ve ne fosse alcuna che avesse senso. Un paio di mesi più tardi, la mattina di un sabato aveva atteso invano raggomitolata nel letto il profumo del caffè, finché levandosi aveva trovato la mamma stesa nel letto e ci aveva messo diversi istanti a realizzare che neppure lei aveva trovato soluzione alla domanda bisbigliata a un letto vuoto, e che dunque non si sarebbe mai più risvegliata.

Poiché era figlia unica proprio come i genitori si era così ritrovata improvvisamente sola e in balia di un’inattesa libertà, ma l’indipendenza tanto agognata nei decenni precedenti a cinquant’anni incominciava ad acquisire il peso di un fardello: i sogni erotici si erano sgualciti nel corso degli  anni sugli scomodi sedili di qualche utilitaria o nel letto anonimo di certi motel di provincia, quelli d’amore e di carriera si erano dileguati in un’irresolutezza mai superata. Nel frattempo i giorni erano trascorsi e non era più tempo per un sacco di cose.

Da ragazzina sognavo di lasciare questa torva periferia milanese che sembra sempre pencolare dinanzi a un baratro, sognavo l’emancipazione dai miei amatissimi genitori e dalle loro ristrette vedute, mi immaginavo protagonista delle avventure amorose più disinibite. Mi figuravo nel mio lindo appartamentino (magari in via Paolo Sarpi, o dalle parti dell’ippodromo di San Siro)  finalmente libera di fare ciò che volevo e di incontrare chi mi garbava. Invece, paragonando la vita a uno spettacolo (non è così, in fondo? Non recitiamo tutti, in una qualche misura?), pare che il regista abbia assegnato il mio ruolo a qualcun’altra, relegandomi in una parte di anonima comparsa.

Di statura media, di corporatura media (forse un poco corta di gamba), non brutta ma neanche bella, forse nemmeno carina. Il faccino a triangolo con la carnagione dal colorito pallido, gli occhi marroni leggermente ravvicinati, il naso dritto e sottile, la bocca piccola dalle labbra esangui, i capelli castani né dritti né lisci, appena mossi da onde larghe disposte a caso: Camilla aveva una fisionomia destinata a passare inosservata, complice anche il suo incedere un poco insicuro e guardingo e la sua indole assai riservata. Sebbene si sentisse usurpata di ciò che avrebbe dovuto appartenerle di diritto, ritenendo che la sorte a lei destinata fosse stata arbitrariamente conferita ad altri, aveva le sembianze perfette di chi è destinato a osservare da una certa distanza le vite degli altri.

Non era dunque affatto impropria l’ambizione di studiare psicologia, annotare e decifrare il comportamento dei suoi simili per individuarne le motivazioni recondite. Dopo il liceo classico avrebbe voluto trasferirsi a Trento: all’Università vi era una Facoltà di Psicologia piuttosto rinomata in quegli anni e sarebbe stata l’occasione di sfuggire all’asfissiante protezione dei genitori, i quali difatti si opposero adducendo l’unica motivazione che Camilla non poté contestare e alla quale non seppe trovare soluzione: non si potevano permettere la lunga trasferta in una città tanto lontana.

Si trovò dunque un impiego e nel corso degli anni ne cambiò diversi, ma occupò sempre posizioni di modesto rilievo. Nel medesimo anno in cui scomparvero i genitori la piccola cartotecnica presso la quale lavorava da un decennio fallì, dimostrando ancora una volta la perfidia della sorte nell’accanirsi su di una persona in un dato momento della sua esistenza.  Incominciò allora la frustrante sequela di impieghi precari e malpagati che perdurò per un paio d’anni, finché approdò al piccolo supermercato di via Trilussa dove, dopo un periodo di assunzione a scadenza, ottenne l’agognato contratto a tempo indeterminato. Alle aspirazioni giovanili aveva rinunciato da un pezzo: le bastava riuscire a pagare  l’affitto e le bollette, mangiare e vestirsi dignitosamente senza rinunciare alla seduta mensile dal parrucchiere per una tinta decente. Forse avrebbe potuto persino permettersi una vacanza estiva: certo non in California (anche quello era un sogno da accantonare), ma almeno a Rimini, via da quel sobborgo fosco nel quale la malavita aveva imparato a essere appena un poco più discreta e più subdolamente radicata. Via almeno per qualche giorno, anche se era Rimini e non Malibu.

Dopo un periodo di rinuncia a qualsiasi tipo di relazione sentimentale ancorché di breve durata, come conseguenza di una sorta di rassegnato disinteresse in tali faccende, nella settimana di ferragosto a Rivabella di Rimini le capitò di inciampare in un bellimbusto del luogo con il quale intrecciò un amorazzo estivo sul quale fece l’errore di riporre soverchie illusioni. Dopo il rientro in città, con lo scolorire progressivo dell’abbronzatura svanirono anche le speranze di coltivare una storia con il tizio, il quale si era dileguato con la rapida discrezione dell’onda che si ritrae dall’arenile dopo una fugace carezza.

Accadde pure che certe piccole cose di scarsa utilità,  dimenticate dai genitori in fondo a qualche cassetto, si elevarono al rango di struggenti ricordi di un passato amato e in una qualche misura rimpianto. Forse quella breve avventura le aveva fatto intravvedere una soluzione a un malinconico isolamento che la stava avviluppando come una robusta ragnatela, rendendo le giornate e le notti tutte uguali ed egualmente piatte, senza che nulla potesse spezzarne la neghittosa monotonia, come una brulla pianura senza nemmeno un albero a interrompere la linea dell’orizzonte: la vita era fuori da quel bozzolo ottundente, poteva osservarla scorrere ma non parteciparvi.

Prese allora a frequentare un sito internet di incontri, ma ne ricavò solo alcuni appuntamenti per una ragione o per l’altra francamente deludenti; si rassegnò allora allo scorrere opaco del tempo covando un sotterraneo quanto confuso risentimento nei confronti della sorte, degli uomini, delle famiglie felici, delle belle ragazze e della gioventù: una cosa lieve ma sempre presente, quasi una compagnia.

Tutti recitano una parte e alcuni anche malamente. Come quel tizio, milanese di Cinisello migrato a Quarto Oggiaro per fare il meccanico in un’autofficina, uno sfigato con una calvizie incipiente goffamente dissimulata disponendo puntigliosamente sul cranio dalla forma oblunga i quattro peli stopposi che gli erano rimasti. A giudicare dagli argomenti di conversazione, non era certamente a causa del surriscaldamento della scatola cranica per l’intenso lavorio cerebrale che i bulbi piliferi si erano atrofizzati. Con quel vezzo insopportabile di guardare di sottecchi dietro le lenti degli occhiali tondi dall’assurda montatura arancione, il capo leggermente reclinato, ma poi che ruolo stava interpretando, quello del cinquantenne dal fascino pensoso? Eppure, a volte il vuoto di certe notti è talmente opprimente che per un attimo ho pensato che avrei potuto accontentarmi. E’ sparito dopo due incontri, il tizio, senza nemmeno avere il coraggio di dire “grazie, non mi interessa”. Ma io sono andata a cercarlo, e gli ho detto ciò che si meritava.

Smise di piovere solo il venerdì della settimana successiva e una fitta coltre di nebbia unta avvolse Milano, inghiottendo persino il Duomo con tutti i suoi leggiadri pinnacoli. I fari delle auto sbucavano all’improvviso dalla spessa caligine rivelando sagome indistinte di fantasmi; persino i rumori erano ovattati e si propagavano con difficoltà, intrappolati nella foschia vischiosa.

Seduta sulla poltroncina ergonomica della cassa che le era stata assegnata, nel tepore dell’ambiente, con il sottofondo di musica discretamente diffusa dagli altoparlanti e di chiacchiere degli avventori, Camilla provava una sensazione di rassicurante familiarità. Era un supermercato di dimensioni ridotte con una clientela prevalentemente abitudinaria; la divertiva cercare di intuirne abitudini e situazione finanziaria dalla composizione della spesa, sempre per l’antica passione degli studi di psicologia che negli anni si era sforzata  di coltivare dedicandosi con impegno a letture specifiche.

Per esempio, i due coniugi certamente in pensione perché venivano sempre il venerdì mattina, abbigliamento un poco datato ma di una certa classe, non se la passavano male: salumi e formaggi tipici, olio extravergine di buona qualità, taglio di vitellone per arrosto, pesce fresco, caffè di marca come i detersivi, sempre gli stessi, incuranti delle offerte. A giudicare dai dolciumi e dalle merendine che acquistavano a iosa, dovevano avere dei nipotini ai quali stavano garantendo un futuro di obesità. La signora sulla cinquantina maldestramente tinta di biondo rame e carica di vistosa bigiotteria, tre inverni con lo stessa pelliccetta sintetica, la quale talvolta si trascinava accanto un ometto insignificante dall’aria spaurita, faceva la spesa più volte la settimana acquistando lo stretto necessario e solo prodotti scontati; mai carne rossa, esclusivamente pollo e tacchino e non pareva una scelta salutistica ma piuttosto una necessità, dettata da una situazione di malcelata ristrettezza economica.

La giornata si trascinava lentamente e alle tre del pomeriggio dominava il medesimo chiarore lattiginoso delle nove del mattino, in uno straniante dilatarsi all’infinito del medesimo istante. Di lì a poco l’oscurità sarebbe calata  velocemente, rendendo ancor più imperscrutabile la cappa brumosa che avvolgeva la città escludendola dal resto del mondo ed erigendo muri di impenetrabile ovatta tra casa e casa.

L’uomo che si presentò alla cassa di Camilla non era un cliente abituale, di questo era certa. Poteva essere vicino alla cinquantina, era alto e magro, il portamento quasi militaresco, indossava un loden blu sotto il quale si intravvedeva un maglione celeste sopra la camicia bianca, jeans e pesanti francesine nere. Aveva tratti piuttosto anonimi, un accenno di stempiatura, i corti capelli brizzolati accuratamente pettinati con una perfetta scriminatura a destra. A colpirla furono gli occhi: neri e freddi, ma quando si posarono sulla sua persona si accesero di un lampo di curiosità e brillarono per un attimo di una luce calda e attenta.

Birra tedesca, pizza surgelata, varie vaschette dal banco gastronomia, formaggio francese, ananas fresco, bagnoschiuma al profumo di pino, lamette e schiuma da barba. Di sicuro un uomo che vive solo, non porta anelli e ha un buon profumo, fresco e appena speziato.

Quando prese lo scontrino le sfiorò la mano in una specie di carezza lieve e di nuovo quel bagliore accese lo sguardo scuro. Camilla avvampò, mentre un rimescolio profondo come una turbolenza sott’acqua la faceva riemergere, restituendola alla vita.

Giunto l’orario di chiusura,  non si stupì di vederlo sbucare dal buio  e si rese conto che se non fosse stato così la delusione sarebbe stata insopportabile, poiché aveva subito afferrato l’ineluttabilità di quell’incontro apparentemente casuale. Si presentarono con l’impaccio di due persone mature quando sono in preda alle emozioni che avevano ormai riposto, considerandole pertinenti a un’età assai giovanile.  Camminarono  nell’oscurità nebbiosa rinchiusi nel medesimo guscio; le parole arrivarono con una certa prudente lentezza, fluttuavano nel buio accompagnate da piccole bolle di vapore. Entrarono in un bar e sedettero a un tavolino appartato; ordinarono l’aperitivo e Camilla si accorse dopo un poco che stava ascoltando il suono della voce fonda dell’uomo  che le stava seduto di fronte, suggestionata dal ritmo lento e cadenzato come un vecchio blues, senza curarsi di afferrare il significato di ciò che raccontava. Era ancor più distratta dall’irrequietezza nervosa delle mani che smentiva la composta rigidità della figura lunga e secca, lasciando trapelare una sotterranea energia e si chiedeva che effetto le avrebbe fatto sentirle scorrere sulla sua pelle.

Penso alle dotte divagazioni sulle anime gemelle, come le definì Aristofane nel Simposio di Platone e alle compiaciute digressioni sulle affinità elettive, tuttavia io so soltanto che per qualche ragione che non saprò mai spiegare riconosco in quest’uomo qualcosa che mi appartiene e a lui mi accomuna, ed è per questo che lo voglio.

Sarebbe stato ragionevole iniziare con una serata in pizzeria o al cinema o con una domenica a passeggio al Parco Sempione o ai Giardini di Porta Venezia: invece si accordarono per una cena a casa di lei l’indomani sera (l’uomo abitava da poco nel quartiere e le disse che non si era ancora sistemato adeguatamente), incalzati dal convincimento di non avere più tanto tempo a disposizione, o da chissà cos’altro.

Camilla si recò dal parrucchiere durante la pausa pranzo e riuscì anche a comprare un abito in maglina azzurro scuro che le fasciava un po’ troppo i fianchi ma la ringiovaniva, forse per via di quel colore intenso ma non chiassoso. Pensò a un menù semplice e collaudato poiché non era una gran cuoca e apparecchiò il tavolo in soggiorno con particolare cura.

L’uomo fu puntuale e si presentò con un piccolo vaso bianco contenente un’orchidea di colore viola cupo; la donna ringraziò e osservando la conturbante bellezza di quel fiore trovò che vi era qualcosa di inspiegabilmente osceno nei petali carnosi e quasi neri. Si sentì a disagio, colta dal pensiero che forse si era spinta troppo oltre. Cenarono conversando con una vaga distrazione, tradendo una palpabile fretta. Fu lui a prendere l’iniziativa, le tese una mano attirandola a sé, Camilla vide di nuovo quello scintillio bollente accendergli lo sguardo e gli si abbandonò, respirando il suo odore.

Nel corso della notte, nel buio tepore della stanza da letto che sino ad allora aveva accolto esclusivamente il suo riposo o la sua insonnia, la donna si figurò più di una volta l’orchidea dal fascino oscuramente torbido e fu in un momento di intensa eccitazione che decise che nessun fiore avrebbe potuto essere più adatto a lei, e l’uomo lo aveva intuito. Non si oppose quando lui le appoggiò la sciarpa odorosa di muschio e spezie sugli occhi, né quando le legò i polsi alla testiera a volute di ferro del letto.

Forse è proprio questo ciò di cui avevo bisogno, forse è quello che ho sempre voluto.

Le mani scarne e lisce le carezzarono il collo e arrovesciò docilmente il capo, offrendogli la gola. Sentì le dita farsi artigli  e stringere sempre più forte; fu allora che riconobbe finalmente la pulsione di selvaggia ferocia nella luce che di tanto in tanto riscaldava gli occhi cupi dell’uomo, comprendendo di avere accettato il ruolo di preda.

Se ne andò con il pensiero che se non le fosse mancato il respiro avrebbe riso, considerando l’enorme malinteso che era stata la sua vita: fino alla fine.

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in un certo senso questa storia è indiscutibilmente finita qui, ma non è proprio così: vi sono altri fatti da scoprire. Stay runed, ma anche “state in campana”, ché sovente le cose non sono come appaiono. Comunque, due settimane passano perfino troppo in fretta.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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