L’eredità della zia Fausta

“Che imbecille sono stato a intraprendere con tanta incoscienza lo studio di misteri che l’uomo non dovrebbe affatto conoscere!” (H.P. Lovecraft, “Hypnos”)

Sono partita di primo mattino da Milano sotto un’acqua fine e deprimente, e anche qui è una giornata di primavera spenta e mogia come un giorno di novembre, cornice perfetta per un funerale in un paese della bassa emiliana. C’è persino un alito di nebbia che stempera i contorni di questa terra generosa ma piatta e monotona, che la Fiuma, il canale di bonifica dove i fratelli della nonna pescavano carassi, breme, pesci gatto e carpe, taglia in due come una coltellata creando un confine. Di qua dalla Fiuma, di là dalla Fiuma: per decenni un punto di riferimento e di demarcazione che tutti comprendevano.

La zia Fausta è l’ultima ad andarsene di sei tra fratelli e sorelle, alla stupefacente età di 109 anni. Per il suo centenario in paese fecero una grande festa, conservo ancora una copia del giornale locale che mi aveva fatto inviare con la foto in prima pagina che la ritrae grinzosa e sorridente, in mezzo a un gruppetto di nipoti e pronipoti. Ma la sua fama era incominciata moltissimi anni prima, ed aveva ampiamente oltrepassato i confini di quel paese nel mezzo dell’Emilia, creando anche un certo imbarazzo nella famiglia: perché la zia aveva incominciato da ragazzina a “segnare i vermi”, ma aveva presto scoperto di poter predire il futuro. Nel corso degli anni, nella casa dove era cresciuta e nella quale era infine rimasta sola, non essendosi mai sposata

(“non voglio fare figli disgraziati come me”,

ebbe modo di dire con riferimento al suo dono),  migliaia di persone erano andate a consultarla, tra le quali molti facoltosi imprenditori da tutta Italia. Figlia di contadini, sapeva a malapena leggere e scrivere: non aveva nemmeno finito le elementari perché invece di andare a scuola scappava per i prati e lungo la Fiuma a cercare erbe curative e animali sperduti o feriti[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Negli anni ’60 ho trascorso molte estati nella grande cascina alla fine della strada polverosa che usciva dall’abitato, proprio in faccia a quella dello zio Ezechiele, uno dei fratelli della zia Fausta. Confinata per il resto dell’anno sul balcone di un caseggiato popolare nella periferia milanese, lì si realizzavano i miei sogni di libertà. Dalla zia ho imparato a fare colazione a pane e mortadella, a mangiare le pesche e i pomodori appena colti e senza lavarli, a entrare in sintonia con gli animali, anche i più ombrosi, peculiarità che senza dubbio ho ereditato da lei.

Poi arrivò il liceo e gli anni ’70, il primo amore e poi il secondo, il terzo e tante altre cose. Le mie visite alla cascina divennero via via più brevi e sporadiche, tuttavia non mancai mai di telefonarle almeno una volta alla settimana. Quando mi disse

“Vieni, perché tra un mese non ci sarò più. Sono stufa di vedere tante cose”,

non dubitai nemmeno per un attimo dell’esattezza del suo pensiero. Erano trascorsi molti anni dalla mia ultima visita e faticai a riconoscere quel luogo, non più appartato ma ormai fagocitato dal paese che si è allargato fin qui, con una schiera di graziose villette che sorgono tuttavia a rispettosa distanza. Anche la casa mi parve più piccina, come pure il giardino piantumato dove amavo passare molte ore con i cani e i gatti della zia.

Di sicuro, come capita alle persone anziane lei si era rattrappita e ormai stava tutto il giorno sulla sua vecchia poltrona vicino alla finestra, gli occhi azzurri un poco opachi, privi della vivacità che ricordavo: tutto nella sua persona denotava un’immane, irrimediabile stanchezza. Una silenziosa e possente badante slava vegliava su di lei con espressione possessiva ed affettuosa.

Esattamente un mese dopo, la sera non volle saperne di coricarsi e pretese di indossare il suo abito migliore. L’amorevole badante rimase sveglia, seduta accanto a lei, fino alle tre del mattino, poi cedette al sonno e la zia Fausta ne approfittò per andarsene con signorile discrezione.

Oggi non c’è molta gente alla cerimonia funebre: i vecchi sono scomparsi e la discendenza si è sparpagliata in giro per l’Europa, così in questa pianura sono rimasti in pochi. Gli eredi dello zio Ezechiele che occupano la casa di fronte a quella della zia non si sono visti, ma un cugino mi dice che vivono reclusi dal ’69, quando il loro unico figlio, un bimbo di 4 anni affetto da qualche deformità fisica che pochi avevano avuto modo di vedere poiché non lo portavano mai fuori, precipitò da una finestra del primo piano. Ricordo anch’io questa storia ed anche le chiacchiere che seguirono, perché quel ramo della famiglia non ha mai legato con gli altri, che ha sempre snobbato con immotivata alterigia.

Molti anni fa la zia Fausta aveva fatto testamento e scopriamo con stupore che aveva accumulato un discreto gruzzolo, che ha suddiviso in parti eguali tra i nipoti, mentre ha lasciato a me la casa. Benché io cerchi di sottrarmi, perché riterrei più giusto che rimanesse a uno di loro, non ne vogliono sapere: se lei ha voluto così, che così sia.

Sbrigate le formalità con il notaio sono quindi tornata alla cascina, che la badante prima di andarsene ha lasciato in perfetto ordine. E’ quasi sera, ha smesso di piovere e tra le nubi sfilacciate si intravede qualche sprazzo di cielo limpido. Prima di entrare rimango un attimo ad osservare la casa di fronte: il basso cancello incrostato di ruggine è chiuso da una catena con un pesante lucchetto e il giardino è rigoglioso ma incombente, i numerosi cespugli fioriti avrebbero bisogno di una potatura drastica. Il vecchio cassero è stato chiuso malamente con delle tavole di compensato e la struttura della casa, già massiccia, è ulteriormente appesantita. I muri finiti ad intonaco grezzo presentano macchie di umidità e anche le persiane in legno colorato di grigio avrebbero bisogno di una mano di vernice; sono tutte accostate e ho la sensazione che dietro una di esse qualcuno stia sbirciando nella mia direzione. In questa luce crepuscolare la vecchia dimora ha un aspetto sciatto e vagamente ostile; entro e chiudo la porta a chiave, poi inserisco anche il chiavistello.

Qui dentro tutto parla della zia Fausta, dal caminetto in cucina, odoroso di legno e di cenere alle vecchie foto appese ai muri della sala, e la percezione della sua presenza è confortante. La stanza dove dormivo quando ero bambina è al primo piano, e mentre salgo la larga scala di legno l’idea di entrare nel medesimo lettino di allora mi mette allegria.

Nel mezzo della notte mi sveglio di soprassalto, come se avessi sentito un rumore improvviso: in realtà sento una musica ma ho la sensazione che sia nella mia testa, come se appartenesse ad un sogno che è stato bruscamente interrotto. Non ho chiuso le persiane, e aprendo i vetri per agganciarle vedo che nella casa di fronte una finestra del primo piano  è spalancata su una stanza illuminata: vi scorgo un bambino in pigiama, che agita una manina come per richiamare l’attenzione, mentre nella mia testa il volume della musica diventa sempre più alto.

Ripensandoci la mattina dopo non ricordo nemmeno di essere tornata a letto, ne deduco quindi di avere sognato, probabilmente perché ieri abbiamo ricordato la tragedia del bimbo morto.

Alla luce del sole la casa dello zio Ezechiele  trasmette comunque un’inquietante sensazione di abbandono: le persiane sono sempre chiuse o appena socchiuse e sette gatti scuri e troppo grassi, che si aggirano per il giardino, rappresentano l’unico segno di vita. Quando esco per raggiungere alcuni cugini a pranzo ho di nuovo la percezione disturbante che dietro quelle imposte scrostate qualcuno mi stia spiando.

Sono qui ormai da una settimana, in ferie: mio marito è all’estero per lavoro, quindi ho deciso di godermi l’espansiva e corroborante compagnia dei miei parenti emiliani, la cui vigorosa fisicità ha colmato in pochi giorni l’inevitabile distanza depositata da anni di separazione.

Continuo a vedere ogni notte il bambino alla finestra e a sentire la stessa canzone,

“…so won’t you please, be my, be my baby, be my little baby…”,

le Ronettes che cantano “ti prego, non vorresti essere il mio piccolo bambino?” e rotolo all’indietro fino agli anni ’60, quando qui la strada era polverosa e appena più in là c’era solo campagna. Mi sto convincendo che non si tratti di un sogno: che i cugini abbiano adottato un bambino senza lasciar trapelare la notizia? Ma che fa tutte le notti alla finestra, e da dove arriva quella canzone? Ho bisogno di sapere, quindi andrò a far visita a questi originali parenti.

Stamattina il tempo è di nuovo imbronciato, il cielo basso è una cappa uniforme e biancastra ed emana un chiarore freddo che ferisce gli occhi. Non vedo nessun campanello sui pilastri del malconcio cancello, al di là del quale tutto tace. Ma io voglio entrare, e allora grido il nome di quella lontana cugina:

“Elettra! Elettra!…”

Dopo qualche istante la porta di ingresso si apre e ne esce un uomo corpulento in maniche di camicia, che muove nella mia direzione schermandosi lo sguardo con una mano dalle dita grassocce.

“…sono Alice, la figlia di Mario, che sarebbe il figlio della Chicca, sorella della Fausta…”,

ed è complicato, lo so, ma l’uomo ha capito perfettamente chi sono:

“ah, la cugina milanese! Ma prego, entri, Elettra si sta cambiando, scende subito…”.

Lo seguo nel giardino rigoglioso e selvatico, affascinata dalla sottile barba caprina e dai capelli lunghi di un bianco giallastro, che porta legati in una treccia. Insiste per farmi entrare, ma per qualche ragione preferisco stare all’aperto, e fingo interesse per un enorme cespuglio spinoso a palla e per tutti quei gatti che gironzolano intorno alle mie gambe, miagolando petulanti. Visti da vicino mi paiono ancora più grassi e, fatto per me molto insolito, non ho nessuna voglia di toccarli, anzi direi che mi ispirano ribrezzo.

E finalmente compare Elettra. L’ultima volta che ci incontrammo io ero bambina e lei avrà avuto poco meno di vent’anni: la ricordo alta e formosa, di una bellezza opulenta, i capelli biondi, lunghissimi e ricci, la carnagione candida e gli occhi azzurri, grandi e leggermente tondeggianti. Osservava sempre tutti con paziente supponenza, come a significare che era lì solo di passaggio, proiettata verso ben altri destini più adeguati alla sua levatura. Mi riferirono che si era sposata con uomo più anziano, poi ci fu la disgrazia di quel figlio nato con qualche anomalia e la tragica morte in tenera età, con il suo conseguente isolamento: ricordo che papà ragionava sul fatto che conoscendo l’ambizione e la presunzione di Elettra si poteva immaginare che avesse vissuto quel dramma come un suo personale ed insopportabile fallimento.

Dell’antica e sensuale avvenenza oggi rimane solo il vezzo di porsi all’interlocutore con un’anca spostata in avanti, la gamba leggermente piegata ad esibire graziosamente la linea della coscia, la spalla appena inclinata all’interno, il braccio flesso a sostenere la mano abbandonata. A settantacinque anni – più o meno – Elettra ha il corpo appena appesantito, la pelle delle braccia piene di bracciali tintinnanti è floscia, le mani cariche di anelli, con le unghie laccate di nero, hanno il dorso macchiato. I capelli sono ancora lunghi e ricci ma sbiaditi in un incerto biondo platino; ciò che più mi colpisce è la disfatta del suo volto, rugoso come questa pianura nei periodi di siccità, quando larghi solchi si aprono nelle zolle inaridite, e senza la tesa freschezza della gioventù la volgarità traspare prepotente dai suoi tratti. Solo gli occhi, ombreggiati da un trucco troppo vistoso, conservano un’eccezionale brillantezza, e l’acuta curiosità con la quale mi osserva mi sta mettendo a disagio.

Lei non mi invita ad entrare, e discorriamo del più e del meno, fingendo di voler riannodare fili spezzati da troppi anni. Continuo a guardare la vecchia casa e la finestra al primo piano le cui imposte si aprono solo la notte rivelando quello che mi appare come un piccolo prigioniero.

Si è levato all’improvviso un vento forte e fresco, una folata spalanca le persiane di quella finestra lassù e la voce carezzevole delle Ronettes si riversa tutto attorno, mentre i gatti finalmente tacciono.

L’uomo è immobile, gli occhi dalle pupille dilatate sono fissi su Elettra, che chinandosi ad accarezzare il più brutto di quei pingui felini, nero, con un orecchio mozzato e una vistosa cicatrice sulla schiena, sorride melliflua:

“ho dimenticato di spegnere il giradischi, ascoltavo una delle mie raccolte preferite di successi degli anni 60…”

Sento distintamente il lieve fruscio di sottofondo tipico del vinile e noto ora che anche il suo inopportuno abbigliamento un po’ da figlia dei fiori rimanda a quegli anni. Comunque, alla finestra non si affaccia nessuno, non ho trovato le risposte che cercavo e ho solo voglia di andarmene da questo posto.

Saluto il marito dalla barba caprina  e poi mi volgo verso Elettra, che afferra la mano che le porgo  e si avvicina accennando un abbraccio. Incrocio per un attimo il suo sguardo vivido e mentre appoggia una guancia fredda e appiccicosa alla mia, sono trafitta da un’immagine che si presenta chiarissima nella mia mente.

E’ una notte d’estate rischiarata da una luna piena e scintillante, che crea ombre lunghe e dense. Una finestra al primo piano si apre e mentre  una musica dolce sovrasta il frastuono dei grilli, una giovane donna dai lunghi capelli biondi stringe tra le braccia il suo bambino che dorme, ascoltando il battito del suo cuore contro il seno. Posa un bacio leggero sulla sua fronte, poi lo scaglia nel vuoto e richiude la finestra.

Mi ritraggo da quell’abbraccio rapace con un gesto brusco, lei mi fissa leggermente stupita e poi capisce.

Ora sa che io so.

Trascorro il resto della giornata in uno stato di attonito terrore: non tanto per ciò che ho visto, ma per la capacità di vederlo, e per la folgorante consapevolezza che oltre alla casa è questa l’eredità della zia Fausta. Mi corico con l’apprensione di scoprire cosa mi rivelerà la notte.

E’ un rumore concitato e variamente composto a svegliarmi poche ore più tardi, mentre un bagliore rossastro filtra dalle persiane chiuse: mi affaccio alla finestra e vedo che la casa di fronte sta bruciando, fiamme altissime lambiscono il cielo senza stelle, si odono crepitii, schiocchi potenti e le grida dei pompieri che cercano di spegnere l’inferno.

Il mattino dopo dalle mura annerite si sprigionano sottili volute di fumo nero, le finestre sono occhi vuoti e oscuri e un odore acre e greve ammorba l’aria. Corre voce che siano stati rinvenuti i resti carbonizzati dei due coniugi, ma che non vi sia traccia alcuna dei sette gatti. Sopra quelle macerie silenziose una musica dolce arriva da molto lontano, ma so di essere l’unica a sentirla.

 

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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