Lev Tolstoj ha scritto il racconto perfetto

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Per chi legge e ama la letteratura, per chi vuole approfondire la conoscenza di questo mondo incredibile che sono le storie che gli autori, più o meno grandi, ci hanno lasciato, forse un tema fra i più affascinanti è quello che proviamo ad affrontare oggi, qui a #LettureInclinate.

Esiste il racconto perfetto?

Un racconto, o un romanzo, che per equilibrio compositivo, per qualità della lingua e delle parole utilizzate, per profondità dei sentimenti esplorati e per come sono esposti, per difficoltà della prova cui l’autore si sottopone, può essere definito perfetto? O almeno difficilmente arrivabile?

Noi questo racconto lo abbiamo incontrato ed è il libro di oggi: La Morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj (abbiamo letto la nuova e recente edizione Feltrinelli, del 2020, curata e tradotta da Paolo Nori, che ci ha anche regalato una ghiotta introduzione; 94 pagine, Euro 8).

Ovviamente, il nostro è un giudizio opinabile, non pretendiamo di convincere nessuno, è la nostra opinione e la lasciamo qui, al pari di molte altre; ma certo, l’invito a leggere questo breve ed intensissimo racconto lo vogliamo rivolgere a tutti: potrete non essere d’accordo con noi, ma non ve ne pentirete.

L’autore

Non è che dobbiamo qui ricordare chi sia Lev Nikolaevic Tolstoj (1828-1910), non è che possiamo noi, in questa umile rubrica letteraria, aggiungere molto a ciò che di lui è stato detto e scritto: possiamo dire che proviene da una famiglia nobile, possidente di terre, che si arruola nell’esercito, con il quale combatte in Crimea (la famosa guerra cui anche Cavour decise di intervenire, per entrare sul palcoscenico della grande politica internazionale, che allora comportava di guerreggiare, spesso e volentieri). Possiamo aggiungere che già nei Racconti di Sebastopoli (1855) inizia a vedersi la sua vena letteraria, ed anche il suo interesse per la società che gli sta intorno: Tolstoj descrive il mondo rurale che incontra come soldato, inizia a scontrarsi con l’autorità costituita, inizia un lavoro di critica sociale, pur essendo parte integrante di quel tessuto sociale che aveva ancora gran parte della popolazione fatta di servi della gleba.

Questa contraddizione è còlta molto bene da uno che dovrebbe intendersene, Lenin, che scrisse:

“Tolstoj è ridicolo in quanto profeta che avrebbe scoperto nuove ricette per la salvezza dell’umanità. Tolstoj è grande in quanto portavoce delle idee e degli stati d’animo che si sono formati in milioni di contadini russi…”

Una contraddizione fra il Tolstoj nobile proprietario di terre e il Tolstoj che fa nascere una scuola per figli di contadini; fra il grande narratore di Guerra e Pace e Anna Karenina e il “santone”, che a un certo punto viene scomunicato dal Santo Sinodo (nel 1901) per avere cercato di creare un culto tutto suo; una lunga vita, la sua, interrottasi mentre stava fuggendo dalla tenuta di Jasnaja Poljana, in una piccola stazione, dove ebbe un malore e morì.

Il libro

Ma veniamo al nostro racconto perfetto: La Morte di Ivan Il’ič è stato scritto fra il 1881 ed il 1886 e, come dicevamo, rappresenta un esercizio di grandissima letteratura.

Il racconto si apre con la notizia: siamo al palazzo di giustizia e alcuni funzionari comunicano che Ivan Il’ič è morto; il lettore lo apprende quindi immediatamente e nelle prime righe della narrazione iniziamo a notare il primo effetto perverso di questo annuncio: tutti pensano ai vantaggi di carriera che potranno avere:

“Ivan Il’ič era un collega dei signori che c’erano lì, e tutti gli volevano bene”.

Ma, qualche riga dopo, comprendiamo meglio la situazione:

“Così, appena sentito della morte di Ivan Il’ič, il primo pensiero di ciascuno dei signori riuniti nello studio fu sul significato che poteva avere questa morte in relazione ai trasferimenti o alle promozioni loro e dei loro conoscenti”.

Poi, uno dei funzionari di palazzo e compagno di corso di Ivan Il’ič, Petr Ivanovic, decide di approfondire, ed è l’espediente narrativo usato da Tolstoj per spostarsi presso l’abitazione del morto; ecco il modo mirabile con cui viene descritto:

“Il morto giaceva, come fanno sempre i morti, in modo particolarmente pesante, sprofondato, con le membra irrigidite, nel giaciglio della bara, da morto, con la testa piegata, per sempre, sul cuscino, esibendo, come sempre esibiscono i morti, la sua gialla, cerea fronte stempiata e incavata ai lati, e un naso che sporgeva, come se schiacciasse il labbro superiore”.

Ecco la vedova:

“…Praskovja Fedorovna, una donna bassa, grassa, che, nonostante tutti i suoi sforzi per ottenere l’effetto contrario, continuava ad allargarsi dalle spalle in giù”.

Qui inizia un delizioso minuetto, la vedova chiede a Petr di appartarsi, e il narratore descrive i loro movimenti, è come li vedessimo, impacciati, nel salotto buono, dove a lei si impiglia il merletto nel divano, lui traballa su un pouf di broccato, e segue la ipocrita descrizione delle sofferenza del marito e, infine, il vero motivo per cui lei aveva scelto di parlarsi in privato:

“Dopo varie parole e dettagli sulle sofferenze fisiche sopportate da Ivan Il’ič…la vedova, evidentemente, aveva pensato che fosse arrivato il momento di parlare d’affari”.

Prima le carriere, dentro l’ufficio, ora la vedova e la necessità di sapere come ottenere la pensione dallo Stato: ecco cosa interessa maggiormente del morto.[sociallocker id=47408].[/sociallocker]

In seguito, Tolstoj sposta ancora la sua visuale, fa un passo indietro nel tempo ed ora ci racconta chi è Ivan Il’ič, da dove viene, quali sono state le sue aspirazioni ed in brevi ed intense pennellate ci racconta i suoi sogni di borghese, il suo arrivismo, non sempre sano:

“La storia della vita precedente di Ivan Il’ič era la più semplice e comune e la più orribile”.

Poi entriamo nel suo modo di ragionare, assistiamo all’andare a male di tutti i sentimenti che avevano ispirato la sua ascesa: il rapporto con la moglie peggiora e Tolstoj ci restituisce questi stati d’animo con una precisione cinica e spietata, senza remore, senza sconti:

“il suo impiego era l’unica cosa che si imponeva a Praskovja Fedorovna e Iva Il’ič attraverso l’impiego e gli impegni che ne derivavano, aveva cominciato a lottare con la moglie, segnando i confini di un proprio mondo indipendente”.

Come poteva andare? Male:

“Rimanevano solo quei rari momenti di intimità amorosa che c’erano ancora, tra i due coniugi, ma non duravano molto. Erano isolette dove approdavano ogni tanto per poi ripiombare nel mare dell’ostilità repressa che si esprimeva in una reciproca alienazione”.

Ed infine, a completare la descrizione di una vita che sappiamo essere già finita, ecco l’irruzione del caso: una botta fortuita al fianco e la malattia che inizia; non serve descriverla bene, identificarla correttamente; forse è intestino cieco, forse è altro, ma importa davvero, in fondo? Si susseguono i consulti con medici famosi, ma Ivan Il’ič sta male, sempre peggio e qui, di nuovo, la prospettiva si sposta, perché ora è con lui che percorriamo un piano inclinato inesorabile verso la morte; noi lo sappiamo che arriva, lui lo capisce piano piano, lotta, finché può, e poi la affronta, la morte, in pagine memorabili:

“In fondo all’anima Ivan Il’ič sapeva che stava morendo, ma non solo non era abituato a una cosa del genere, proprio non la capiva, non riusciva in nessun modo a capirla”.

E ci parla, lotta, con la morte (notare il corsivo, nel testo originale di Tolstoj):

“Tornava nello studio, si coricava e restava di nuovo solo con lei. Faccia a faccia con lei, e con lei non c’era niente da fare: solo guardarla e rabbrividire”.

La perfezione di questo romanzo sta certamente nel suo equilibrio formale, nel suo essere un perfetto meccanismo che ci fa conoscere, per cerchi concentrici, quest’uomo già morto: partiamo dalla sua morte e lì ritorniamo, dopo un breve, intenso, profondo viaggio nella sua vita, nei suoi rapporti, nei suoi sentimenti.

Nulla sfugge a questo meccanismo perfetto, in cui, in fondo, Tolstoj fa quello che deve fare la letteratura:

“Sono rimaste la filosofia e la letteratura, a parlare di morte. Tolstoj fa quel che deve fare la letteratura, porta l’umano al massimo grado di dignità”

ha dichiarato Nicola Lagioia: massimo grado di dignità, ed anche di bellezza. La perfezione, appunto.

 

P.s.: proprio poche ore prima della pubblicazione di questa recensione,
Paolo Nori ha postato questa lettura dal nostro racconto perfetto: coincidenza?
Noi non crediamo.

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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