L’incubo di Pechino: Occupy Central a Hong Kong

Un sussulto di orgoglio attraversa Hong Kong, un tentativo di resistere all’assorbimento della Cina continentale. Le classifiche internazionali continuano ad assegnarle le prime posizioni per trasparenza, facilità di condurre gli affari, prosperità collettiva e numero di milionari. Nonostante la pressione di Pechino, l’ex colonia è riuscita a mantenere una relativa indipendenza all’interno della sintesi che ha incorniciato il ritorno alla Cina: One country, two systems. I processi per corruzione, eclatanti perché scarsi, sono sulle prime pagine dei giornali, nonostante il blasone degli accusati. La magistratura rimane ancora imparziale e anche l’opinione pubblica non appare rassegnata alla silenziosa assimilazione alla Cina. Come succede dal 1989, anche quest’anno migliaia di persone, molte delle quali non erano allora nate, si sono riunite a Victoria Park per ricordare la repressione dei carri armati cinesi a Piazza Tian An men e a celebrare il ricordo dei compatrioti che ne sono stati vittime. L’evento è analizzato per capire la temperatura politica di Hong Kong, scissa tra la sua evidente diversità da Pechino e la fatidica data del 2047, quando il rientro nella Cina sarà completato e anche ufficialmente non ci saranno più differenze. Quest’anno la partecipazione è stata la più numerosa mai registrata. Vestiti di nero, con le candele in mano, giovani studenti, esponenti della classe media, profughi da Pechino, intellettuali e professionisti hanno sfilato con coraggio e dignità.

Per la prima volta la protesta potrebbe prendere un crinale preoccupante per la Cina. Molti dimostranti hanno auspicato un movimento inedito per alleggerire la pressione di Pechino. La sua formula comunicazionale è collaudata e fortunata: Occupy Central,dal nome del distretto finanziario di Hong Kong, analogamente con quanto è avvenuto a Wall Street. La protesta non è tuttavia contro la finanza internazionale, quanto tesa a strappare una bilanciata riforma elettorale che dovrebbe condurre alle prime elezioni democratiche a suffragio universale previste nel 2017. Finora, le votazioni a Hong Kong sono state parziali e il Chief Executive è stato sostanzialmente imposto da Pechino, con articolate manovre istituzionali. La scadenza tra 3 anni potrebbe condurre al governo di Hong Kong una persona scelta dai cittadini, un rappresentante possibilmente del movimento per la democrazia. La Cina ovviamente non gradirebbe questa contraddizione con il suo sistema politico e sta offrendo segnali di nervosismo, per prevenire un movimento che registra sondaggi favorevoli, pur se è soltanto annunciato. Sono infatti bellicose le dichiarazioni di Zhou Nan, un politico di Pechino che ha segnato la storia di Hong Kong: vice ministro degli esteri, ambasciatore alle Nazioni Unite, capo negoziatore con il Regno Unito, mentre era il direttore dell’Agenzia Xinhua a Hong Kong, una funzione simbolica che non celava il suo ruolo chiave nella trattativa. Come da tradizione, Zhou non ha lesinato schiettezza: “Occupy Central è illegale”. “Non permetteremo che Hong Kong diventi una base per sovvertire il regime socialista della Cina con la maschera della democrazia”. La conclusione sembra ancora più drastica, al pensiero che finora l’esercito cinese ad Hong Kong è rimasto con discrezione nelle caserme: “Le nostre guarnigioni militari hanno altre funzioni, oltre a quella simbolica di certificare la sovranità”. Dopo 25 anni a Pechino, la minaccia ritorna. È ancora troppo presto per immaginare scenari drammatici, ma certamente il timore di repressioni ha soffiato sul fuoco della protesta, smentendo il clima di torpore e rassegnazione che si respirava a Hong Kong.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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