L’ultimo amore

E’ piccolina e snella, la vita sottile stretta nell’alta cintura della sottana a campana di leggera stoffa celeste, le spalle morbidamente spioventi che la camicetta bianca con le corte maniche a palloncino lascia scoperte, i capelli neri ricadenti in morbide onde fino alla base del collo, affusolato come nei ritratti femminili di Modigliani.

La gonna svolazza lieve scoprendo le ginocchia delle belle gambe dai polpacci torniti e dalle caviglie talmente fini che sugli alti tacchi dei sandali al minimo inciampo potrebbero spezzarsi in un istante. Ha la pelle dorata e sembrerebbe una bimba vestita da donna, se non fosse per la malinconica voluttà che traspare dal suo volto delicato dalle labbra dipinte di rosso geranio, mentre balla da sola con gli occhi semichiusi e il capo appena reclinato all’indietro al centro della pista da ballo ormai deserta.

E’ mezzanotte passata e l’orchestrina sta sbaraccando, ma il vecchio continua a suonare la fisarmonica solo per lei, accompagnandola in quella danza trasognata e sensuale, e lei volteggia accarezzando l’aria densa e tiepida di una notte di luglio con dei movimenti lenti delle braccia, muovendo piano le dita delle piccole mani.

La corte della trattoria con annessa balera nel bel mezzo delle risaie in via Ripamonti (“Al Vigentino, specialità risotto con le rane”) si va svuotando e sotto la luna pallida di un’afosa notte milanese la gente si avvia a piedi o in bicicletta verso casa parlottando senza fretta, tanto ormai l’ultima corsa del tram 24 è passata da un pezzo. Coppie appena nate si annusano e si sfiorano nel buio, senza stare a chiedersi se alla luce impietosa del mattino potrà ancora essere amore.

Un uomo solo è rimasto seduto a un tavolino di metallo dalle gambe traballanti sul duro terreno sassoso, proprio davanti al rozzo impiantito di legno che funge da pista da ballo di quella balera di campagna. Osserva rapito la grazia struggente di quella figuretta solitaria e mentre si persuade che stia ballando solo per lui, gli sembra di vedere tutti i suoi dispiaceri diluirsi e disfarsi nel fondo di robusto vino di fiasco rimasto nel bicchiere.

L’incanto svanisce quando la fisarmonica tace all’improvviso e la ballerina si ferma, ma non pare uno strappo quanto piuttosto un intimo accordo, e la ragazza e il vecchio musicista si salutano con un accenno di sorridente inchino.

Come guidato e sospinto da una forza misteriosa, l’uomo si alza di scatto rovesciando la seggiola, si sente la gola riarsa e le gambe di pezza ma si avvicina alla ragazza che ora è ferma sul bordo della pista e si guarda d’attorno, cingendosi il busto con le braccia come se sentisse freddo in quell’oscurità mite, nel silenzio increspato dalle voci che si fanno sempre più lontane, dal gracidio delle rane e dal frinire dei grilli. Il giovane corpo imponente dell’uomo, forgiato dalla fatica nei campi e temprato da due anni sui monti dell’Ossola con i partigiani delle Brigate Garibaldi, sovrasta di quasi mezzo metro la figura minuta della ragazza. Egli si accorge che da vicino il suo volto e la sua intera persona possiedono la fragile finezza di una bambola di porcellana, ma nei suoi  fondi occhi neri alberga una quieta disperazione.

E’ in quel preciso istante, nel quale i due si fronteggiano muti, che l’uomo decide che si prenderà cura di lei, perché non può farne a meno, mentre la ragazza pensa che si lascerà stringere da quelle braccia forti, perché non può davvero farne a meno…

Felice Ghisberti era tornato a Milano il 25 aprile del 1945 ed era stato accolto da una città ferita e tuttavia festosa. Era pieno di speranza e di voglia di ricominciare a vivere una vita normale, come tutti quelli che in un modo o nell’altro erano sopravvissuti alla guerra. Dal  cassone del camion che attraversava il centro di Milano guardava i palazzi sventrati dalle bombe e i selciati divelti e provava un sordo sgomento, ma pensava “fa niente, adesso ci mettiamo lì tutti e rifacciamo Milano più bella di prima”, perché si era pervasi da un bisogno di fratellanza e da una provvisoria coscienza della collettività che furono poi la spinta essenziale per una ricostruzione rapida e ambiziosa della città.

Era balzato giù dal camion ai Bastioni di Porta Vigentina salutando i compagni e da lì aveva preso per via Beatrice d’Este, proseguendo sulla lunga via Ripamonti, il pensiero rivolto alla sua famiglia e a Marisa, la giovane fidanzata con la quale aveva scambiato una promessa di eterno amore prima di partire con i partigiani. In tutta la città le linee tramviarie erano danneggiate al pari dei tram e il solo modo per spostarsi era andare a piedi, poiché anche le biciclette faticavano a percorrere le strade dissestate e interrotte da voragini e da mucchi di macerie.  A mano a mano che avanzava, sentiva il cuore farsi pesante: lì i bombardamenti avevano colpito duramente e al posto di molte case di ringhiera vi erano cumuli di calcinacci. Aveva allungato il passo a dispetto della stanchezza, pressato da un oscuro presagio.

Quando era arrivato in fondo alla via, dove ormai era campagna, risaie e cascine, era rimasto immobile e ammutolito davanti al poco che rimaneva del casolare della sua famiglia: una metà era crollata, l’altra metà benché gravemente danneggiata aveva retto, muta testimone di una vita familiare brutalmente interrotta. Scomparsa la stalla, disintegrato il pollaio, tutto attorno non vi era traccia di gente né di bestie: solo il silenzio attonito delle risaie che nessuno più aveva allagato e seminato e che giacevano asciutte e sterili. Aveva appena vent’anni ed era crollato sulle ginocchia, il volto tra i ruvidi palmi delle mani e le spalle larghe scosse dai singhiozzi, piangendo sull’ingenuo sogno di tornare a casa e riprendere la vita dal punto esatto in cui si era interrotta nel settembre del ’43. Dopo un tempo che gli era sembrato lunghissimo, si era riscosso e si era diretto quasi di corsa verso la casa degli zii paterni che distava circa mezzo chilometro, sorretto dalla speranza che i genitori e i due fratelli più piccoli fossero in salvo da loro. Lo aveva accolto il vecchio nonno Cesarino, che alla sua domanda aveva risposto con un abbraccio, mentre lacrime silenziose scorrevano sul volto rugoso.

Erano stati lo zio e i tre cugini, i quali avevano pensato a mettere in salvo la mobilia superstite della metà sana della casa prima che qualche farabutto se ne appropriasse, ad aiutarlo a ricostruire una parte del grande casolare e lo avevano anche ospitato e sfamato nell’attesa che i lavori fossero terminati. La campagna ormai era andata in malora, e Felice era stato assunto come operaio alla metalmeccanica Brown Boveri all’Isola.

Il recupero della parte sana della casa, a fianco del vetusto platano scampato alla furia delle bombe, era stato ultimato alla fine di quell’estate. La prima notte in cui aveva dormito da solo tra quelle mura ancora odorose di pittura era stato ridestato all’improvviso da un furioso raspare alla porta. Aprendo con circospezione l’uscio si era ritrovato tra le braccia una massa nera, pelosa e puzzolente. Dopo un attimo di spavento confuso si era accorto che si trattava di Ombra, il cucciolo di pastore tedesco incrociato con un terranova e con chissà quante altre razze canine che aveva portato a casa nell’estate del ’43: un sopravvissuto come lui, e il solo che avesse mantenuto la promessa di amore eterno, visto che la Marisa si era sposata l’anno prima con quel cretino del Martinelli, simpatizzante fascista nemmeno per fede politica ma piuttosto per vile convenienza. Aveva accolto in casa l’animale, che benché magro aveva nel frattempo raggiunto una taglia ragguardevole, e la sua frenetica gioia lo aveva fatto sentire un poco meno solo.

I primi giorni aveva dovuto faticare non poco per dissuadere il cane dal seguirlo, quando la mattina usciva in bicicletta per recarsi all’Isola, e si era reso conto che il nome che gli aveva dato alludendo al colore scuro del mantello era del tutto appropriato, visto il modo in cui gli stava appiccicato. Ritrovarlo ogni pomeriggio accucciato davanti alla soglia di casa pronto ad accoglierlo con festosa irruenza lo aveva aiutato a superare lo sconforto dei primi mesi, che nemmeno l’aiuto e la silenziosa vicinanza dei parenti paterni riusciva ad alleviare. L’anno successivo aveva deciso che era ora di riportare in vita la risaia, perché a suo padre e a sua madre di certo sarebbe dispiaciuto vederla ridotta a un gerbido. Era terra buona per il riso, quella, e in estate l’appezzamento intorno alla  casa era rinato nel verde vivido dei teneri steli che spuntavano dall’acqua.

Milano era risorta a partire dai miseri resti del glorioso Teatro alla Scala, più bella di prima e a tempo di record lasciandosi alle spalle il ricordo della guerra, e sebbene negli anni successivi al ’45 si fossero consumate diverse meschine vendette personali, vi era una potente spinta propulsiva verso il progresso e la modernità che condusse il capoluogo meneghino e l’Italia  agli anni del boom economico. Nell’aprile del ‘49, quando ormai era chiara la suddivisione del mondo occidentale in due grandi blocchi contrapposti, uno che faceva capo agli Stati Uniti d’America e l’altro che aveva come punto di riferimento l’Unione Sovietica, dopo molte sofferte discussioni in Parlamento l’Italia aveva aderito al Patto Atlantico. Tuttavia, Felice Ghisberti si sarebbe per sempre ricordato di quell’annata per le insolite e caparbie gelate nel mese di marzo, e per l’incontro con Gisella avvenuto in luglio nella balera della Trattoria “Al Vigentino”.

…Felice osserva la ragazza che ora ha l’aria smarrita; vorrebbe dire qualcosa ma si sente la lingua infeltrita e le parole gli sfuggono come biglie di vetro su di un piano inclinato. La ragazza lo scruta con un ombroso sguardo vellutato; ha gli occhi grandi con l’angolo esterno che tende verso il basso, sottolineando l’espressione vagamente triste del visetto ovale. Getta una lenta occhiata attorno, osservando gli orchestrali salire su di una scassata camionetta e la gente ormai avviata su via Ripamonti. Allora pare riscuotersi da quell’indolenza, lo affianca, gli porge il braccio e gli dice solo

“…andiamo?”,

e in realtà non è nemmeno una domanda, ma una decisione già presa.

Gli racconta che è di Lodi e abita in una stanzetta in San Cristoforo insieme a un’amica che come lei è operaia alla Richard Ginori, ed erano venute lì assieme perché l’amica aveva appuntamento con un tizio con il quale se ne era andata quasi subito, così lei aveva perso la cognizione del tempo ed infine anche l’ultimo tram. Felice non sa dove andare ma i piedi lo conducono automaticamente verso casa, che dista dalla Trattoria poche centinaia di metri e quando si avvicinano all’aia lei tace da un po’ ma ha insinuato la sua piccola mano in quella larga e forte di lui, e lui l’ha accolta con delicatezza, come una cosa preziosa che si potrebbe facilmente rompere.

Ombra ha sentito i loro passi da un pezzo e se ne sta piantata davanti a casa nel flebile chiarore della luna. Si avvicina guardinga, annusa la ragazza allungando il collo per non avvicinarsi troppo e dopo un poco strofina il muso sui calzoni di Felice e lecca timidamente la mano libera di Gisella. Quella notte, mentre Ombra dorme tranquilla come di consueto sotto il letto, Gisella e Felice giacciono a lungo abbracciati e muti, fino a quando le carezze non scivolano da un imperioso languore all’affanno dei fiati che si mescolano e dei corpi che si cercano, aggrappati l’uno all’altra come due naufraghi in mezzo al mare. Quando il mattino dopo Felice la accompagna al capolinea del 24, Gisella ha un’espressione malinconicamente assente, e il ragazzo pensa che forse non la rivedrà mai più.

Invece qualche sera dopo, mentre affiancato da Ombra se ne sta seduto sotto il grande platano a osservare con orgoglio il suo riso, che cresce ricompensandolo dalle fatiche di un doppio lavoro, la vede arrivare in bicicletta sulla strada sterrata. Il cane rimane fermo per qualche istante con le orecchie ritte, poi le corre incontro, abbaiando festoso. Torna tutte le sere, e anche nelle settimane successive Felice non osa chiederle per quanto tempo perché vi è qualcosa di irrimediabilmente sfuggente in questa donna taciturna che seguita ad apparirgli fragilissima ed evanescente persino quando decide di trasferirsi da lui: nemmeno le sue cose in casa hanno il potere di rassicurarlo sulla continuità della sua presenza e ogni mattina, quando la vede allontanarsi in bicicletta per recarsi al lavoro, teme che non ritornerà mai più.

Non sa davvero molto di lei, a parte che ha ventisette anni, che la sua famiglia vive nel lodigiano e che aveva un fidanzato il quale nel’41 era partito per la Russia e là era scomparso. Lui le ha raccontato la sua storia e anche quella di Marisa, che una domenica pomeriggio hanno incontrato ai Giardini Pubblici con quel cretino del Martinelli e un bimbo piccolo in braccio.

Felice non pensa più a  Marisa, della quale Gisella ha spazzato via qualsiasi rimpianto. Pensando alla sofferenza che spesso legge sul suo viso, allorché si abbandona al sonno, e alla sua sotterranea distanza comprende che Gisella non ha mai dimenticato quell’amore perduto, ed è per questo che ogni sera lui scruta la strada sterrata con il presagio della sua assenza annidato in fondo all’animo.

Le giornate si sono accorciate, alle cinque è ormai buio e dalla terra delle risaie ora a riposo si leva un vapore brumoso. Dai vetri della finestra della cucina, sui quali si riflette il riverbero rossastro delle fiamme nel camino, dove la legna scoppietta sollevando di tanto in tanto eteree scintille, Felice tiene d’occhio la strada di accesso sperando di scorgere il chiarore del fanale della bicicletta. Mentre le ore scorrono lente, gli torna in mente il progetto che le ha illustrato poche sere prima con infantile entusiasmo: costruire un corridoio per collegare il casotto del gabinetto posto dietro alla casa con la porticina che aveva saggiamente costruito in camera da letto, per non dover girare attorno all’edificio.

“…così avremo il bagno in casa come i sciuri, ci pensi, Gisella?”

Ma Gisella non arriva, e lui affida le sue illusioni ai pochi abiti di lei appesi nell’armadio accanto ai suoi e ad altri oggetti sparsi per la casa, unica rassicurazione che non si sia trattato di un sogno.

“E’ stata una dolce estate ed è stato bello sognare al ritmo confortante del suo respiro tranquillo, di bravo ragazzo onesto e sincero. Mi è sembrato di poter ricacciare indietro le lacrime, di scrollarmi di dosso il dolore per un amore che non può tornare e la sporcizia di tanti incontri squallidi, per dimenticare e per non sentire questa solitudine amara. Ma tutto cambia sotto la luce opaca dell’inverno, e io non ce la faccio più.  Lascerò che la tristezza mi coli addosso, appiccicosa e ottenebrante, finché non sarà il rubinetto del gas lasciato aperto in una notte buia, o le gelide acque del Naviglio oppure l’ultimo tram, quello che ho lasciato andare quella sera che ho incontrato Felice”.

Se lo trova davanti alla Richard Ginori qualche sera dopo, piantato contro il parapetto che separa la strada dal fiume: è pallido e sofferente ma quando la scorge uscire dalla fabbrica le va incontro con passo deciso. Lo aspetta, immobile, sembra persa in un pensiero. Poi si muove d’improvviso e gli va incontro, gli afferra il braccio stringendosi contro il suo fianco e dice solo

“Andiamo a casa”,

perché guardandolo ha sentito il suo cuore fare una piccola capriola, una cosa da niente ma quasi allegra e  timidamente speranzosa, e si è aggrappata con indicibile sollievo al pensiero di lui che si sta facendo strada nella sua mente: lui, l’ultimo amore.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

Una risposta a “L’ultimo amore”

  1. Quel che più mi piace dei tuoi racconti oltre alla scrittura fluida e precisa è la descrizione accurata dell’ambientazione,segno di una conoscenza profonda dei luoghi.

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