Poliziotti yiddish, Michael Chabon e il recupero della memoria

il sindacato dei poliziotti yiddish

Parlando di quando vinse il Pulitzer per “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” (Rizzoli, 2001), Michael Chabon (Washington, 1963) ha dichiarato che il sentimento che prevalse fu quello di ricompensa per tutto il lavoro di ricerca fatto e anche di rivalsa, pensando all’incredulità e sufficienza che vedeva nei suoi interlocutori quando raccontava che stava lavorando a questo grande progetto narrativo su due ragazzi che, negli anni Trenta, avevano l’intuizione di mettersi a creare l’industria dei fumetti.

Questo aneddoto ci dà un’idea della cifra di questo autore che dopo quel romanzo, del 2000, ha continuato a essere protagonista della scena letteraria, spaziando dalla narrativa al lavoro di sceneggiatore, dalla fiction alla non-fiction (bellissimo il memoir “Uomini si diventa”, pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2010).

Il romanzo di oggi è del 2007 ed è un altro esempio di grande fantasia ed intuizione: Il sindacato dei poliziotti yiddish (Rizzoli, 2008, pagine 347, Euro 12). Alcune puntate orsono di Letture Inclinate abbiamo parlato di “Ogni cosa è illuminata”, di Jonathan Safran Foer, nato anche lui a Washington 14 anni dopo Chabon: abbiamo notato come quel romanzo fosse un modo, per Foer, di recuperare e rivivere le sue radici ebraiche: un esperimento di testimonianza.

Anche il libro di oggi segue questo filone ed è un tentativo di recupero di una grande eredità culturale, quella degli ebrei della diaspora ashkenazita e della lingua yiddish; ma Chabon lo fa in modo molto diverso da Foer e del tutto originale.

Come è nato questo romanzo, l’autore lo ha raccontato molto spesso, fra gli altri in questo colloquio con Robert Alter all’Università di Berkely nel 2010, dove racconta di aver trovato in un negozio un “phrasebook”, un frasario per tradurre in yiddish frasi comuni, del vivere quotidiano; ebbene, si sa, l’yiddish può definirsi una lingua morta, o quasi: era parlato negli shtetl dell’Europa Orientale, spazzati via dall’orrore della Shoah; è certamente usato ancora in alcune comunità ebraiche americane ma di certo non è diffuso:

“una lingua morta e sepolta, parlata da pochi attempati apolidi sopravvissuti alle purghe hitleriane per il rotto della cuffia”

scrive in modo spietato Alessandro Piperno*.

Chabon fu incuriosito da questa ipotetica necessità di tradurre frasi in questa lingua, tanto più che il sottotitolo di quel libro era “For Travellers”: ma viaggiare dove?
E perché?
A cosa serve oggi l’yiddish?

Queste domande accendono la miccia del narratore, che crea una sorta di controstoria, inventando Sitka, un distretto federale degli Stati Uniti (in Alaska), dove la finzione fa arrivare negli anni ’40 milioni di ebrei europei e poi, nel 1948, quelli messi in fuga, di nuovo (sempre nell’invenzione dell’autore), dalla nazione d’Israele appena nata.

La narrazione di Chabon, va ricordato, ha sempre ben presente la necessità di intrattenere, che gli deriva sicuramente dal fatto di essere anche sceneggiatore (suo il plot di Spiderman 2, fra gli altri).

E allora, sullo sfondo di questa regione inventata abitata da ebrei che parlano yiddish, si intrecciano due piani narrativi: uno è quello del ricordo e del ritorno alle radici della cultura ebraica, con la Torah, i tefillin, la cucina kasher e i rabbini, l’altro si dipana in una storia poliziesca di grande livello, con il poliziotto Meyer Landsmann, il collega e cugino Berko Shemets, la ex moglie Bina (poliziotta anche lei) e altri personaggi che fanno parte di questo strano “sindacato”.

Il libro

Il romanzo, infatti, si apre con una classica scena hard-boiled, ecco l’incipit:

“Da nove mesi Landsman dorme all’Hotel Zamenhof, e fino a ieri nessuno degli altri clienti era riuscito a farsi ammazzare. Ora qualcuno ha piantato una pallottola in testa all’occupante della 208, un ebreo di nome Emanuel Lasker”.

Notare che l’hotel si chiama Zamenhof, come l’inventore dell’esperanto (ci torneremo), e vicino al cadavere ci sono un testo sul gioco degli scacchi e la scacchiera di una partita lasciata incompiuta. Ma chi è Landsman? Ecco come lo ritrae Chabon con la sua prosa evocativa, pastosa, spesso pirotecnica:

“Secondo i medici, gli psicologi e la sua ex moglie, Landsman beve per curarsi, per sintonizzare le valvole e i quarzi dei suoi stati d’animo con un rozzo martello fatto di slivovitz. La verità è che Landsman possiede solo due stati d’animo: operativo e spento…. Ha la memoria di un carcerato, le palle di un pompiere, e la vista di uno svaligiatore”.

Due piani narrativi

sì perché seguire Landsman e la sua indagine ci fa scoprire Sitka, e scoprire Sitka significa immergersi nel recupero dell’identità ebraica, che Chabon tratta – a differenza di Foer – con disincanto, con sguardo sardonico e canzonatorio; il racconto della colonizzazione di Sitka negli anni Quaranta, quando la ricostruzione di Chabon fa arrivare lì molti ebrei dall’Europa, sembra riprodurre il tormentone della “Terra Promessa”, ma subito ecco la dissacrazione, l’ironia e la disillusione, perché Sitka non sarà “la Terra Promessa, ma certo la Terra delle Promesse”.

Questo registro narrativo è chiaro: mentre Foer recuperava per testimoniare e celebrare, Chabon recupera per dissacrare (in questo ricorda Roth), anche se ciò– a nostro parere – non toglie affatto valore al suo lavoro ed alla sua testimonianza: li vediamo, questi ebrei sballottati, che arrivano a Sitka e vengono “numerati, vaccinati, spidocchiati, etichettati come uccelli migratori”: ma arrivano, lavorano, costruiscono, prosperano.

L’indagine di Meyer Landsman e di  Berko Shemets è il viaggio attraverso Sitka, e la sua società: i due vanno a finire su un’isola abitata da ebrei ortodossi, i Verbover (frutto della fantasia dell’autore), e qui conosciamo Zimbalist, l’”esperto dei confini”, un personaggio straordinario, gestore dell’”eruv”.

Ecco Zimbalist:

“…piccolo, fragile, con le spalle curve, dicono che ha settantacinque anni ma ne dimostra dieci in più. Radi capelli grigio cenere troppo lunghi, occhi scuri e infossati, e una pelle pallida sfumata di giallo come un cuore di sedano”.

[sociallocker].[/sociallocker]Ed ecco la folgorante descrizione dell’”eruv”, una sorta di recinzione rituale che consente agli ebrei di uscire di “casa” anche di sabato (qui si parla di un eruv, reale, quello di Manhattan):

“…un sotterfugio tipico del rituale ebraico, un raggiro compiuto ai danni di Dio, quel bastardo che si crede di controllare ogni cosa. Ha a che vedere col fatto che i pali si fingano stipi di porte, e i fili architravi. Puoi recintare uno spazio con pali e corde e stabilire che quello è un eruv. Poi quando arriva shabbat, fai finta che questo eruv che hai delimiitato – nel caso di Zimbalist e della sua cricca corrisponde più o meno all’intero distretto – sia casa tua”.

La storia prosegue, l’indagine pure e il romanzo è davvero un caleidoscopio di tante diverse prospettive: lo potete leggere come una struggente presa di coscienza della disgraziata sorte di un popolo sempre in movimento, alla ricerca delle sue radici; o come un “fantasy” un po’ strano, su un popolo che parla un tentativo di esperanto e cerca – di nuovo! –  una terra dove stare (il Romanzo infatti è collocato nel 2008, 60 anni dopo la creazione di Sitka, quando deve avvenire la “Resitutzione” agli Stati Uniti); oppure semplicemente leggetelo come storia poliziesca, con i suoi locali malfamati, il giornalista in cerca di scoop, l’indagine non autorizzata, le sparatorie e i morti.

Potete infine cercare di trovare un senso a questo romanzo, che a nostro parere è chiaro e riguarda lo strano rapporto fra gli uomini e la loro comunità, i contrasti culturali che nascono, il tentativo di trovare un modo di stare insieme, di mischiarci per bene, di provare a rispettarci.

“Scrivo per un lettore ideale che è una versione di me stesso, un pari di me stesso, uno che sa cosa intendo e di cosa sto parlando”

ha dichiarato Michael Chabon: lo ringraziamo per tanta fiducia!

*Piperno lo scrive recensendo (su La Lettura n. 448) una nuova edizione de Il mago di Lublino, di Isaac B. Singer, che scriveva in yiddish ed aveva una fenomenale e riconoscibile cadenza yiddish nel suo americano di fuggitivo polacco; anche di Singer abbiamo parlato qui, su Letture Inclinate, con il suo Ciarlatano.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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