Le mie idee per un Paese dalle prospettive aride

Se allargassimo lo sguardo oltre i nostri confini ci accorgeremmo che agli occhi di un investitore estero tra Francia, Italia e Spagna le differenze sono trascurabili: nessuno dei tre paesi offre prospettive interessanti per investitori istituzionali. L’Italia e la Spagna sono i paesi che per motivi e traiettorie diverse si trovano nelle condizioni peggiori. La Francia invece è l’economia che sta peggiorando più velocemente.

La Spagna ha subito il tracollo più grave, ma almeno ha varato qualche modesta misura per tamponare il disastro e mettere in terapia intensiva un settore bancario di fatto in bancarotta. L’Italia da oltre trent’anni tenta di risolvere problemi politici e strutturali attraverso la spesa pubblica. Con l’euro questo meccanismo perverso è arrivato al capolinea. Nessuno di questi tre paesi  e di molti altri in Europa e nei paesi Ocse (inlcusi gli Stati Uniti) riuscirà a intraprendere un sentiero di crescita sostenibile senza scardinare dalle fondamenta l’assetto politico, la struttura economico/imprenditoriale ed il sistema finanziario.

Al momento ci si culla nell’illusione che in qualche modo si ritornerà a prosperare, magari facendo pagare il conto alla Germania. Molto probabilmente occorrerà un ulteriore peggioramento della crisi prima che il fortino della conservazione venga travolto.

Evocare investimenti esteri, a questo proposito, ha poco senso: stranieri o italiani fanno esattamente le stesse valutazioni sulle prospettive di investimento. Al momento investire in Italia è sconsigliabile per chiunque, a causa di un sistema fiscale confiscatorio, una burocrazia fuori controllo, un sistema politico criminogeno, malavita, sistema giudiziario collassato, infrastrutture obsolete, sindacalismo massimalista e in definitiva di tutti i problemi strutturali accumulatisi nei decenni. Quindi se non investono gli italiani è assurdo attendersi che rischino i propri capitali gli stranieri, a meno che non si ipotizzi di incontrarne con l’anello al naso o che siano ingenue vittime di raggiri come quelli immortalati nelle commedie all’italiana.

L’orizzone che il governo si è dato, i mille giorni, è cibo per giornalisti. Il governo non ha alcun orizzonte. Il Presidente del Consiglio parla di mille giorni con lo stesso piglio con cui in precedenza sbandierava un fantomatico programma dei cento giorni oppure prometteva una riforma al mese. Si tratta di slogan, tweet o boutade a beneficio di elettori semi-inebetiti dalla propaganda e dalla memoria corta, proni a seguire l’ultima moda politica lanciata dai media e intrupparsi dietro il demagogo più abile. Fra mille giorni molto probabilmente saranno cambiati almeno due governi, inframmezzati da elezioni politiche. Se volesse davvero agire Renzi ha a disposizione una corposa serie di misure: tanto per limitarsi alle ricette dei milieu di sinistra ricordiamo quelle di Giavazzi sui sussidi, di Cottarelli sulle spese, di Ichino o di Garibaldi & Boeri sul mercato del lavoro. Oppure potrebbe adattare al caso italiano le riforme Hartz implementate dai socialdemocratici tedeschi. Se poi volesse davvero cambiare verso, potrebbe licenziare mezzo milione di dipendenti pubblici come nel Regno Unito soprattutto negli enti locali, oppure ricalcolare le pensioni secondo il metodo contributivo.

Ma dicono non si possa perché il Paese è in deflazione. Sulla deflazione leggo perle di demenza che rimbalzano da un editoriale all’altro a firma di personaggi dalle improbabili credenziali in materie economiche. Il pubblico è stato talmente rintronato da considerare la diminuzione dei prezzi come una iattura, mentre fino a ieri ci si stracciava le vesti perché con l’introduzione dell’euro i prezzi erano raddoppiati. L’economia non si rilancia con la domanda artificialmente gonfiata dai debiti, altrimenti Italia, Grecia o Venezuela sarebbero le economie leader nel mondo, non quelle al collasso. I redditi dei lavoratori sono determinati dalla produttività. Essa migliora attraverso l’abbattimento dei divieti alle attività economiche sane (non quelle veicolate tramite Expo e Mose), la ricerca, l’innovazione, le infrastrutture pubbliche e private, un mercato dei capitali efficiente. Purtroppo sarà impossibile finché prevale tra le cosche politico-sindacali quell’inesorabile avversione agli investimenti privati e la nevrastenica convinzione che imprenditoria e libere professioni vadano trattate alla stregua di attività criminali.

Certo, influisce in questo l’alto livello di evasione fiscale registrato in Italia, ma per invertire questa odiosa tradizione andrebbe invertito l’ordine di priorità. Oggi sono tasse e imposte a dover inseguire i livelli di spesa. Invece andrebbero fissati limiti inderogabili alla contribuzione fiscale e in base a questo parametro calibrare le spese, come del resto si fa in qualsiasi famiglia o in qualsiasi impresa. L’evasione fiscale nel dibattito economico ha assunto la valenza della pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno. I fautori della spesa pubblica infinita evocano il nirvana che si raggiungerebbe eliminandola e le magnifiche sorti e progressive che ne scaturirebbero. Che esista l’evasione fiscale è indubbio (come del resto in tutti i paesi del mondo), ma se la si vuole combattere sul serio, senza proclami roboanti e senza consegnare l’economia alla Guardia di Finanza e ad Equitalia si potrebbero profucuamente replicare i sistemi fiscali dei paesi più efficienti in questo campo, tipo la Svizzera o Hong Kong.

Pertanto non occorre ragionare in termini di “finanziare il taglio delle imposte”, i tagli delle imposte non si finanziano. Sono le spese a dover essere finanziate.

Quando esprimo le mie forti critiche ai sindacati e al modello sindacale, mi viene citato l’esempio tedesco, dove i lavoratori siedono nel cda delle aziende. Ma c’è un problema culturale: nelle aziende pubbliche italiane i sindacati spadroneggiano da tempo immemorabile, basti pensare alle Poste, alle Ferrovie o alle municipalizzate senza considerare l’INPS e i ministeri. Non mi sembra che i risultati siano lusinghieri. Estendere questa influenza devastante anche al settore privato non è esattamente una ricetta condivisibile. Peraltro il sindacalismo tedesco ha tradizioni riformiste secolari. In Italia il sindacalismo è stato in larga misura una cinghia di trasmissione politica e un modo per concedere al partito comunista un’influenza che non avrebbe mai potuto ottenere con elezioni democratiche. In cambio la DC otteneva di perseguire i propri interessi meno confessabili senza incontrare opposizione. Finito il partito comunista il sindacato si è sapientemente riciclato come brodo di coltura di boiardi di stato, come lobby per pre-pensionati e come satrapia del fannullismo. Non è un caso che tra gli iscritti al sindacato i giovani siano più rari delle guarigioni da ebola in Sierra Leone.

Ecco perché privatizzerei le aziende di Stato e, anzi, invece di venderne le azioni, si distribuiscano ai cittadini a titolo gratuito, dando una quota maggiore ai giovani che subiscono una spoliazione generazionale attraverso il sistema pensionistico. In questo modo si creerebbe il consenso politico necessario per renderle davvero efficienti e evitare che siano il feudo di faccendieri di provincia o dei vari Bisignani. Insomma a parte l’effetto redistributivo, si otterrebbe la contendibilità delle imprese nel mercato sottraendole agli sgabuzzini del potere o ai conciliabili al Nazareno dove si decidono le nomine dei Descalzi di turno.

La PA, non solo in Italia, nel XXI secolo è un fardello anacronistico. Rimane organizzata secondo uno schema ottocentesco verticistico e compartimentalizzato, modellato sull’esercito, ma senza che graduati o ufficiali siano gravati da qualsivoglia responsabilità. Le informazioni non circolano e i burocrati dedicano energie a perpetuare il loro scampoli di potere preferibilmente attraverso le vessazioni ai cittadini.

Provare a riformarla è del tutto vano. Va demolita e ricostruita dalle fondamenta su alcuni principi cardine

  1. L’interazione con i cittadini deve avvenire quasi esclusivamente via internet, senza bisogno di recarsi fisicamente in un ufficio pubblico.
  2. Al cittadino non può essere richiesta alcuna informazione o certificato già inseriti in un database statale ad esempio il titolo di studio, lo stato civile, il certificato di nascita.
  3. Il cittadino formula la sua richiesta via web (indicando la sua identità attraverso il codice fiscale o le impronte digitali) inviandola ad un indirizzo unico oppure prenotando una video conferenza con il front office della PA. Le richieste verbali o scritte devono poter essere fatte in linguaggio semplice chiedendo ad esempio “devo rinnovare il passaporto” oppure “vorrei iscrivere mio figlio Giovanni alla scuola media Garibaldi di San Felice al Mare” oppure “richiedo la licenza edilizia per questo progetto in agro di Sassinpopoli di cui allego il file”.
  4. Per le richieste semplici la richiesta deve essere evasa entro 48 ore. Per le altre, tipo la licenza edilizia deve prevalere il principio del silenzio assenso entro un termine massimo di un mese.
  5. Per ogni richiesta il sito deve dare risposta immediata dell’avvenuta ricezione, con l’indicazione della funzionario cui è affidata la pratica e del suo diretto superiore.
  6. Alla fine il cittadino avrà il diritto di valutare l’operato e di esprimere un voto. Dopo un certo numero di voti negativi il dipendente pubblico viene sottoposto a provvedimento disciplinare. Se viene appurato lo scarso rendimento (da un comitato di utenti estratto a sorte dalle liste dei giudici popolari della Corte d’Appello) vengono comminate sanzioni immediate dal taglio dello stipendio al licenziamento in tronco (sempre che non vi siano profili penali).
  7. Al cittadino la divisione funzionale della pubblica amministrazione in ministeri o enti locali deve essere del tutto indifferente. Egli formula la richiesta ad uno sportello unico e sarà cura della PA organizzare al proprio interno le procedure.

I centri di spesa da eliminare -alla faccia delle voci “incomprimibili”- sono innumerevoli. Le Regioni per inefficienza e malagestione sono in testa alla lista. Poi le province e tutti gli enti locali. Andrebbero mantenuti solo i comuni con almeno 20mila abitanti senza circoscrizioni. Ma tra gli enti da sottoporre a dieta includerei anche Banca d’Italia di cui andrebbe preservata solo la funzione di vigilanza sui mercati finanziari (accorpando Consob e frattaglie sparse), il centro studi e il servizio statistico. Il resto o si privatizza o si elimina. Per coprire i costi dei sussidi di disoccupazione si potrebbe mettere all’asta l’ingente patrimonio artistico di Palazzo Koch.

In generale delle competenze dei ministeri andrebbero mantenute solo quelle assolutamente essenziali per i cittadini e compatibili con una pressione tributaria del 33%, da fissare in Costituzione. Poi vanno disboscate le miriadi di duplicazioni. Un esempio preclaro è l’assurdità di mantenere sia polizia che carabinieri nonché altri organismi preposti alla repressione dei reati e invece troppo dediti alle guerre fratricide.

Il principio delle autonomie locali non funziona, non credo ci possano essere dubbi a riguardo. In Italia il decentramento regionale e la sua evoluzione caricaturale contenuta nel rivisto Titolo V – pomposamente spacciata per federalismo da una banda di cleptocrati e di razzisti – ha diffuso il virus della corruzione e del malgoverno. Gli enti locali sono stati la palestra dove dal 1970 si sono formate e hanno affinato il mestiere legioni di corrotti, come evidenziano gli ennesimi scandali di questi giorni in Emilia-Romagna.

Non è una questione di riforme costituzionali su cui ci si balocca stolidamente dagli anni 70. E’ la Carta del 48 su cui bisogna riflettere in modo critico. E’ il parto senile di un mondo dissolto da 50 anni, tenuto in vita solo nelle litanie delle messe in suffragio del cattocomunismo.

La Costituzione rappresenta il compromesso di un’Italia provinciale, arretrata culturalmente ed economicamente, dilaniata da una guerra civile, ma sempre pronta all’autoassoluzione. Il linguaggio evoca un notabilato che aveva appoggiato il fascismo e poi aveva prontamente voltato gabbana, di un clericalismo invadente e di un socialismo da operetta dalla cui costola Mussolini era stato generato.

In base a questa Costituzione Berlusconi avrebbe potuto instaurare un regime senza colpo ferire. Se non è riuscito a farlo si deve a circostanze fortuite: per tre volte di seguito l’elezione del Presidente della Repubblica ha coinciso con un Parlamento che non era a maggioranza berlusconiana. Se nel 2006 Berlusconi avesse preso 30 mila voti in più sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica magari con Dell’Utri (o un altro dei suoi fedeli) a fare da Primo Ministro. Avrebbe avuto mano libera sulla nomina dei giudici costituzionali, sul CSM, sulla Rai e su tutte le autorità di garanzia. Adesso Renzi ritenta l’impresa con queste pseudo riforme costituzionali, ma soprattutto con la nuova legge elettorale dal tanfo suino.

Le riforme, quelle vere, in Italia non si fanno perché si sono inspessite progressivamente croste di parassitismo e malgoverno attraverso l’interazione tra Democrazia Cristiana e il sindacalismo agli ordini del PCI che ha codificato nelle leggi e nelle prassi una serie di privilegi definiti con linguaggio orwelliano “diritti acquisiti”. Le riforme chieste dalla Commissione europea e da tutte le persone sane di mente sarebbero il paletto d’abete piantato nel cuore di questo sistema che vive di simbiosi tra corruttele politiche e clientelismo elettorale.

Il vero ostacolo al cambiamento è il blocco sociale parassitario che vive di spesa pubblica e che ha imparato a spostare i suoi voti a destra o a sinistra a seconda dei propri interessi e delle promesse formulate in campagna elettorale che ritiene più credibili. E’ insomma il carburante elettorale con cui sgommano verso le vette dei consensi i signori delle preferenze, i boss locali, i cacicchi degli assessorati, i portaborse inossidabili alle intemperie politiche e le salamandre immuni ai cambi di casacca.

Se davvero Renzi ha in mente di cambiare il paese, come ripete ossessivamente, sarebbe meglio dimettersi e andare al più presto ad elezioni anticipate con il sistema proporzionale delineato dalla sentenza della Corte Costituzionale. Al momento il governo ha solo una maggioranza farlocca in Parlamento perché i parlamentari PD sono stati nominati prevalentemente da Bersani e dalla nomenklatura sindacale. Renzi ha provato ad attirarli sulla sua carretta squinternata, ancorché agghindata dalle ghirlande del vincitore, concedendo cariche e visibilità a figure secondarie di quel mondo (che lo disprezzava pubblicamente durante le primarie). Ma il richiamo della foresta è troppo potente: tanto per dire nella Commissione Lavoro della Camera dominano i deputati targati CGIL che bloccheranno qualsiasi riforma sostanziale. Il 40,8% ottenuto alle europee è irrilevante ai fini pratici. L’art. 18 in altri termini per il momento dorme sonni tranquilli, insieme a qualsiasi ipotesi concreta di ripresa, di riforme e di novità (se si escludono i gusti dei gelati).

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Pubblicato da Fabio Scacciavillani

Capo economista di Oman Investment Fund. In passato: Dubai International Financial Center, FMI, BCE e Goldman Sachs

2 Risposte a “Le mie idee per un Paese dalle prospettive aride”

  1. Ineccepibile ! Classico post da attaccare sul frigo come diceva qualcuno tempo fa. Peccato che quelli nella stanza dei bottoni neanche abbiano un frigo. E comunque non leggerebbero. E comunque non capirebbero. Infatti è probabile che sia li per quel motivo. 🙁

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