I mulini a vento di Trump

La battaglia, datata e già persa, di Don(ald) Chisciotte

Una delle “bibbie” utilizzate – con successo – da Donald Trump per diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America è stato il saggio Death by China: Confronting the Dragon – A Global Call to Action, scritto a quattro mani dagli economisti Peter Navarro e Greg Autry e pubblicato da Pearson Prentice Hall nel 2011 (al quale poi, l’anno successivo, è seguito l’omonimo documentario basato sul libro e narrato dalla star hollywoodiana Martin Sheen), che lo stesso coautore Navarro, in estrema sintesi, ha definito un “manuale di sopravvivenza” contro “l’assassino più efficiente del pianeta”, ossia la Cina. Ed ecco che già da questa definizione si può immaginare che lo stile degli autori tenda all’esagerazione, come d’altronde identico stile appartiene anche al presidente Trump.

Il libro Death by China parte dai pericoli cinesi, analizzando la commercializzazione sul territorio americano di prodotti difettosi – dalle “tute per bambini fatte con materiali tossici” ai “pigiami che prendono fuoco” fino alle “vitamine piene di arsenico” – realizzati per di più inquinando il pianeta, schiavizzando la manodopera locale e distruggendo milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti. E arrivando a proporre una specie di “chiamata alle armi” – che Trump ovviamente ha fatto sua – contro l’odierno nemico americano, definito “un’arma di distruzione di posti di lavoro” e che causa un enorme deficit commerciale per il proprio Paese. Chiamata alle armi che i consumatori statunitensi dovrebbero attuare boicottando i prodotti Made in Cina perché “ogni dollaro che Wal-Mart spende per importazioni cinesi rappresenta un acconto sulla disoccupazione americana e un finanziamento integrativo per il rapido armamento della Cina”.

Come ha scritto Andrew Browne, sul Wall Street Journal del 27 dicembre 2016, a commento delle teorie del libro (e della relativa applicazione pratica messa in atto da Trump), esse sono in gran parte caricaturali. Ma come la maggior parte delle caricature, anche le suggestioni di Navarro e Autry contengono diversi elementi di verità. Il problema però è che a prescindere da queste verità, l’applicazione protezionistica attuata da Trump fin dal suo terzo giorno di insediamento, con l’uscita degli USA dal TPP (il Trans-Pacific Partnership tra Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam) e via con quello che seguirà, è una mossa di populismo iperbolico fuori tempo massimo, che servirà ben poco a contrastare gli sforzi cinesi di continuare nel suo costante percorso di crescita[sociallocker id=12172].[/sociallocker]

Da un lato, infatti, la Cina spinge come nessun altro verso lo sviluppo tecnologico dei settori innovativi. Dall’altro lato, attraverso il piano denominato “Made in China 2025”, con abbondanti finanziamenti governativi, si propone di sostituire la produzione straniera di alta tecnologia (su tutti, i settori degli impianti energetici da fonti rinnovabili, di robot industriali e dei chip di telefonia mobile) con una produzione localizzata di proprietà cinese da esportare in tutto il mondo. E secondo l’autorevole Mercator Institute for China Studies di Berlino i presupposti sono decisamente attuabili.

Così, invece di provare a fermare le esportazioni cinesi negli USA, Trump dovrebbe cercare in qualche modo di interagire con il programma governativo “Made in China 2025”. Anche perché alcuni autorevoli economisti ritengono che le misure protezionistiche innescate dalla leadership americana potrebbero far crescere il dollaro, rendendo le esportazioni USA più costose con il risultato addirittura opposto alle intenzioni iniziali; ovvero quello di espandere il deficit statunitense.

Con un altro aspetto non secondario da tenere presente, come fa notare Scott Kennedy, esperto di politica industriale cinese al CSIS (Center for Strategic and International Studies) di Washington: nell’epoca dei private equity, sapere a che nazionalità appartiene realmente la proprietà di un’azienda è sempre più difficile. E Kennedy, in questo senso, consiglia che Stati Uniti ed Europa si alleino per “rafforzare le proprie procedure di investimento” sulla Cina, coordinando gli sforzi. In pratica la strategia opposta a quella di Trump.

[tweetthis]#Trump, @Forchielli, le frontiere e l’identificazione delle nazionalità di origine[/tweetthis]

In ogni caso, la Cina non è quella – o soltanto quella – descritta in Death by China. Invece e di sicuro, agli antipodi dalle logiche immaginate dalla presidenza Trump, è soprattutto un motore della crescita globale, anche in chiave tecnologica. E nel lungo periodo, piuttosto che chiudere il mercato americano, l’unica soluzione davvero auspicabile è quella di insistere sul mercato cinese sempre più aperto.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

Una risposta a “I mulini a vento di Trump”

  1. .., l’applicazione protezionistica attuata da Trump fin dal suo terzo giorno di insediamento, con l’uscita degli USA dal TPP ………. e via con quello che seguirà, è una mossa di populismo iperbolico fuori tempo massimo, che servirà ben poco a contrastare gli sforzi cinesi di continuare nel suo costante percorso di crescita.

    Bravo Forchielli, bravo.
    Anche l’immagine in testa all’articolo é quanto mai felice: ben descrive (per chi ha occhi per vedere e neuroni per ragionare) il DonChisciotte ganassa yankee, al secolo mr. Donald Trump.

    Manca però un particolare: un bel fungo di bomba termonuceare sullo sfondo. Peccato sarebbe stata perfetta nell’indicare sia la direzione che ci verrà imposta che il condottiero (eufemismo palese) che ce la farà percorrere.

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