Notizie di cronaca nera

Pioveva senza averne davvero voglia: qualche sporadica spruzzata d’acqua fine, di tanto in tanto goccioloni sparsi che non riuscivano a prendere vigore e organizzarsi in un acquazzone. 

Una fastidiosa luce bianca, fredda come i neon nei corridoi di certi obitori, induceva a strizzare gli occhi. La primavera si presenta sovente in questo modo, a Milano: capricciosa, irresoluta, sempre pronta a lasciarsi portar via da qualche corrente d’aria troppo fredda o troppo calda. Incompiuta come talune esistenze che non decollano mai, semmai svolazzano goffamente raso terra e si consumano nell’attesa di un evento salvifico, alla cui mancanza un giorno o l’altro potranno accollare il proprio definitivo fallimento.

Appena ventisettenne, Attilio Cremaschi era ancora carico di belle speranze mentre si infilava nel traffico di via Melchiorre Gioia nel tardo pomeriggio di un venerdì di maggio. Sperava che quella sera non piovesse per poter indossare la giacca in renna scura, che era delicata e la pioggia sporca di Milano l’avrebbe certamente macchiata; fantasticava sul rimorchio del fine settimana, meglio se con doppietta venerdì-sabato, tanto per le relazioni impegnative c’era sempre tempo; si augurava anche di non passare tutta la vita a impaginare i necrologi dell’ultima pagina di quel maledetto quotidiano e di incominciare prima o poi a fare il giornalista per davvero.

Erano dunque aspirazioni piuttosto arruffate, quelle del Cremaschi. Poiché  non poteva certo fare nulla per influenzare l’andamento climatico, prendeva quel che veniva con filosofia; dedicava invece un grande impegno alle strategie per favorire gli incontri con i quali intendeva rallegrare le sue serate. Non bello ma ambiguamente fascinoso, se non si faceva troppo caso ai radi capelli scuri innaturalmente fissati da una lacca collosa e allo sguardo slavato sempre un poco sfuggente, si avvaleva di una discreta parlantina e della curiosità suscitata dal mestiere di cronista, millantato con disinvoltura, ottenendo  tuttavia risultati assai inferiori all’impegno profuso. Per l’auspicata crescita professionale si limitava ad attendere che succedesse qualcosa di straordinario, che piovesse dal cielo l’occasione giusta per rivelare le doti possedute, ancorché svilite, a quegli stessi superiori che lo tenevano relegato ai necrologi sopportandolo solo per fare un piacere a suo padre.

Già, suo padre: un mediatore vinicolo del pavese la cui fortuna, iniziata in tempo di guerra con la borsa nera, si era in seguito consolidata con l’attività di una grossa azienda agricola comprata con i soldi ricavati dai traffici di quei giorni tragici. Essendosi fermato alla quinta elementare aveva voluto che il suo unico figlio studiasse, tanto che aveva acquistato un alloggetto in un condominio con qualche pretesa in viale Brianza perché si trovava nelle vicinanze del Carducci, il liceo classico in via Beroldo. La signora Clara vi trascorse con il figlio i cinque anni dal ’67 al ’71, suo malgrado turbata e disturbata dall’irrequietezza di quegli anni e dalle manifestazioni sempre turbolente alle quali spesso il figlio aderì, pur di non stare in classe o in casa a studiare. Ripiegò nella quiete della campagna pavese allorché Attilio si iscrisse alla Statale a Scienze Politiche, facoltà che in quegli anni divenne, con le dovute eccezioni,  un comodo e ampio parcheggio per molti giovani politicamente impegnati e per altrettanti lazzaroni sostenuti da una famiglia che poteva permettersi di mantenerli.

Attilio ci impiegò sei anni a laurearsi e nel frattempo collaborò alla redazione di un giornale studentesco; fu da quell’esperienza che prese a vagheggiare di avviarsi alla professione giornalistica. Il padre, il quale nel frattempo era divenuto un personaggio di una certa rilevanza nella politica locale, si adoperò per farlo entrare nella torre di otto piani che in zona Greco ospitava la redazione, la tipografia e le rotative di un quotidiano milanese, ma non era così influente da garantirgli la posizione alla quale egli ambiva. Al giornale accettarono di fargli fare il praticantato che gli avrebbe fornito l’accesso all’esame di Stato per iscriversi all’Ordine dei Giornalisti, ma di fatto lo posteggiarono alla Sezione Necrologi, dove probabilmente se lo scordarono e Attilio vi si adagiò, masticando un neghittoso malcontento.  Quando gli capitava di incrociare i colleghi cronisti che rientravano trafelati brandendo un taccuino o uscivano con il diavolo alle calcagna, per arrivare prima di tutti gli altri sul fatto del quale avrebbero riferito facendolo divenire notizia, la firma per esteso in fondo all’articolo, li guardava con un misto di ammirazione e invidia. In certe notti in cui il sonno non arrivava, rigirandosi nel letto in preda a un’agitazione insofferente si era persino crogiolato nell’assurda fantasticheria di compiere un delitto per poterlo descrivere, una cosa cruenta da prima pagina. Naturalmente, l’oscurità di quelle truci fantasie si dissolveva con il chiarore dell’aurora, finendo per assomigliare più a un brutto sogno che a un pensiero cosciente.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Parcheggiata la Golf quasi sotto casa, Attilio si preparò un panino multipiano che mangiò aggirandosi per casa e disseminando briciole come Pollicino, chissà mai che perdesse la strada, tanto lunedì quella santa donna di sua madre avrebbe lasciato le campagne pavesi per un giorno dall’amato figlio (che avrebbe a malapena intravisto) a Milano, Viale Brianza, a rassettare casa portando il bucato pulito e viveri per un  reggimento di alpini.

Dopo un paio d’ore di rigenerante rincoglionimento davanti al televisore, si apprestò a iniziare la serata concentrandosi sul consueto rito di ciò che sebbene nelle intenzioni assumesse la solennità di una vestizione, nei fatti rassomigliava più che altro a un travestimento. Jeans e stivaletti neri, maglia a girocollo nera, giacca o chiodo del colore della notte, in inverno un lungo cappotto dalle falde scure che svolazzavano attorno all’alta figura androgina a ogni passo, come le ali di un corvo. Casualmente colpito da Johnny Cash, il cui stile aveva eletto a modello senza conoscerne il significato (“…vesto di nero per il povero e l’abbattuto che vivono nella parte povera e affamata della città – Lo indosso per il prigioniero che ha scontato a lungo la sua pena ma che è là perché è vittima dei tempi…”)*, appariva come un figuro emerso dalle pagine di qualche novella gotica.

L’Old Fashion, popolare sala da ballo sull’ombreggiato Viale Alemagna, proprio di fianco alla Triennale, era il palcoscenico dove quasi tutti, più o meno consapevolmente, recitavano una parte: vi era chi cercava di apparire migliore di quanto non fosse e chi al contrario voleva sembrare peggiore, ma in ogni caso diverso da sé.

Gigi Guenzi da Crescenzago, per esempio: fisico imponente ulteriormente irrobustito da anni di pugilato da dilettante, faccia da Navajo metropolitano con la pelle color terracotta butterata dai residui dell’acne che lo aveva tormentato in età giovanile avvicinandolo al ring sul quale, scarseggiando in dialettica, imparò a difendersi con le mani dalle beffarde prese in giro dei coetanei e liberò la rabbia che aveva in corpo fin dai tempi dell’orfanotrofio, faticando talvolta a controllarla. Ventisettenne, da quando ne aveva quattordici di giorno avvitava bulloni in una metalmeccanica a Sesto San Giovanni. Il venerdì e il sabato sera si infilava in un doppiopetto grigio (ne aveva due, chiaro per l’estate e scuro per l’inverno) con camicia bianca o azzurra, i capelli biondicci e lunghi lavati e pettinati, troppa colonia da quattro soldi per dissimulare l’odore di limatura di ferro che seguitava ad annusarsi addosso, il volto atteggiato a un ghigno sardonico che nelle intenzioni avrebbe dovuto apparire come un sorriso malandrino. Così agghindato, con i mocassini neri tirati a lucido (gli stessi estate e inverno perché non poteva permettersene due paia), faceva la sua figura. Lo tradivano le mani: grandi come badili, le nocche screpolate, due attrezzi ingombranti che non sapeva mai dove mettere, ma era il mignolo alzato quando reggeva la tazzina del caffè a squalificarlo inappellabilmente all’occhio di certe tipe smaliziate.

Oppure Nina Ottolini, ragazza madre che a ventisette anni aveva già un figlio decenne. Inserviente all’Ospedale di Niguarda, abitava con la madre al Villaggio dei Fiori al Lorenteggio, in una delle casette a schiera edificate dal Comune all’inizio degli anni ’50 per gli sfollati della seconda guerra. Dotata di un fisico procace e di un viso dai tratti marcati e sensuali, aveva finito a fatica le elementari a causa della spiccata incapacità a concentrarsi. La sua mente era svagata al punto da faticare talvolta ad afferrare concetti apparentemente semplici. Non proprio ottusa ma certamente poco sveglia, sulla paternità del figlio aveva molti legittimi dubbi e negli anni lo aveva scrutato alla ricerca di qualche rassomiglianza con gli uomini che aveva frequentato nel periodo appena antecedente alla sua nascita, dei quali però aveva presto smarrito il ricordo. Le piaceva raccontare di essere estetista, sebbene le mani arrossate e il persistente sentore aspro di disinfettante che recava con sé, resistente a qualsiasi profumo, avrebbero dovuto far sorgere qualche dubbio.

Su quel provvisorio palcoscenico si sfioravano talvolta i destini di persone accomunate solo dall’essere specialiste dell’attesa di un fatto imprevisto, grazie al quale sfuggire all’esistenza meschina che le mortificava un giorno dopo l’altro. Poteva accadere che le loro sorti si sovrapponessero appena per alcune ore: una goffa impostura, destinata a rimanere relegata nell’effimero dileguandosi  all’apparire dell’alba, quando ognuno era costretto a rientrare nei propri panni.

Attilio Cremaschi aveva puntato sul soggetto sbagliato e dovette infine rassegnarsi a rientrare a casa da solo nella notte umida.

Ma pensa te. La biondina tutta curve, talmente poco vestita che a svestirla ci avrei messo un attimo, vuota come una zucca spolpata ma polposa come un frutto maturo: alla fine se n’è andata con il bestione in doppiopetto grigio che sembra un buttafuori da night club. Falsi tutti e due come un cinquecento lire di latta, sarà che Dio li fa e poi li accoppia. Meno male che è solo venerdì, anche se ormai è già sabato.

La busta bianca sporgeva dalla fessura della casella delle lettere, vuota quando era uscito di casa verso le nove e mezza. D’accordo che il portone non era mai chiuso e le cassettine erano su una parete a sinistra dell’ingresso, ben visibili, però era strano. Sulla busta non vi era alcun nome né indirizzo; si trattava sicuramente di materiale pubblicitario. Lanciò la busta sul tavolo della cucina e andò a coricarsi scontento.

Era mattina da un pezzo e la moka sul gas borbottava, diffondendo pian piano nella piccola cucina l’aroma fragrante di caffè. Attilio Cremaschi era sveglio ma ancora sfasato (troppi gin mescolati a rhum e coca, come al solito) quando aprì la busta bianca (che strano, due fogli dattiloscritti, niente colori, niente figure, ma che razza di pubblicità è?):

Milano, sabato 19 maggio 1979. Al Lorenteggio esiste una zona un poco defilata, ai confini con il Giambellino,  caratterizzata da un’edilizia popolare  originale e a suo modo gradevole, certamente dignitosa. Lo chiamano Villaggio dei Fiori ma in via Dei Gigli di fiori non se ne vedono, i minuscoli giardini sono sul retro delle abitazioni. Sequenze di casette a due piani dai muri dello stesso colore indefinito di certi cieli milanesi d’autunno, una sfilza di porte rialzate dal piano stradale da una breve scalinata di tre gradini in cemento. Una piccola finestra a lato della porta, una più ampia al piano superiore. Tutte in fila, tutte uguali. C’è poco movimento sulla via durante la settimana, qui vive gente che lavora e che negli anni ha affinato l’arte di farsi gli affari propri per scansare i guai: ma quella porta socchiusa al civico n. 31 ha dapprima incuriosito e poi allarmato una vicina di casa.

“Era tutto così silenzioso, in quella casa abitata da una ragazza con un figlio che va a scuola e dalla madre di lei, che non ho capito se è vedova o separata. Troppo silenzio, di sabato e poi anche le tapparelle, ancora abbassate alle tre del pomeriggio. Ho suonato il campanello, ho bussato, ho chiamato, ma niente. Allora sono entrata e al piano superiore ho visto quel macello”.

Il “macello” era descritto con chirurgica precisione, senza toni melodrammatici, una scrittura straordinariamente evocativa che rimandava alla mente immagini nitidamente raccapriccianti. Un capolavoro di cronaca nera nel quale si leggeva che la giovane donna era stata ammazzata con calma e crudeltà, sminuzzata con metodica ferocia da un centinaio di tagli. Seguiva un vivido ritratto della vittima: 27 anni, ragazza madre con un figlio di dieci, inserviente all’ospedale di Niguarda, qualche precedente per prostituzione e per droga ma rigava dritto da un po’. Una della quale sarebbe stato facile pensare che forse un po’ se l’era cercata, ma da quelle righe trapelava la compassione, più per la sua vita che per la sua morte. Fortunatamente  nonna e nipote erano partiti il venerdì sera con la famiglia di un compagno di classe per trascorrere il fine settimana nella loro casa in Valtellina.

Il caffè si sversava sfrigolando lungo i fianchi della moka, attorno alla fiamma azzurrina del gas si andava formando una piccola pozza scura che puzzava di bruciato.

Sabato 19 maggio 1979. E’ oggi, ma sono appena le undici. Questo si è inventato tutto, un bell’esercizio di scrittura, io non saprei mai riferire di un delitto con questa lucida potenza, però perché lo consegna a me? E chi si nasconde dietro la firma Caronte, pseudonimo che certo non mette allegria? E se non si è inventato tutto, magari è l’assassino.

Attilio pensò che avrebbe dovuto correre difilato alla polizia; poi rilesse quei due fogli: era un pezzo bell’e pronto per la prima pagina di cronaca nera.

E se fosse la mia grande occasione?

Si mise alla macchina da scrivere portatile che teneva in soggiorno, ricopiò parola per parola, virgola per virgola, tranne la firma. Alle due parcheggiò la Golf in via Dei Gigli, di fronte al civico 31. Dall’auto poteva vedere la porta socchiusa di una spanna abbondante; qualche passante buttava un’occhiata distratta ma poi tirava dritto. Pochi minuti prima delle tre una donna robusta dai corti capelli troppo neri per non essere malamente tinti si affacciò dalla porta accanto con una scopa in mano e si mise a spazzare la breve scalinata. Si accorse dell’uscio accanto parzialmente aperto, levò lo sguardo verso le finestre dalle tapparelle abbassate, ristette un attimo perplessa, poi pigiò il dito sul campanello. Con il fiato sospeso, Attilio la vide dapprima bussare, la udì chiamare, infine entrare con una certa titubanza. Pochi istanti dopo, l’urlo.

Attilio scese dall’auto e si diresse a passo svelto verso una cabina del telefono, i gettoni già pronti nella tasca dei calzoni. Lesse da un foglietto il numero diretto del caposervizio della nera, Duilio Varalli, riferendogli che un’amica agente, assegnata al centralino della Questura di via Primaticcio, lo aveva appena informato che stavano per intervenire in via Dei Gigli per un omicidio.

“…mando subito Di Bella con un fotografo, grazie per la segnalazione”.

“Varalli, un’occasione per incominciare a fare il giornalista sul serio me la dovete dare. La soffiata è mia, sono volato sul posto per raccogliere informazioni, mi mandi solo il fotografo. Ho già in mente il pezzo, sarà pronto in tempo per l’edizione di domani mattina”.

Il caposervizio rifletté velocemente. In fondo era solo una notizia di nera, una delle tante in una città come Milano, roba da delinquenti comuni. Quel ragazzo era un raccomandato e lui nella sua sezione non lo aveva voluto, con buona pace del Direttore e del vecchio Cremaschi, politico dilettante e rompicoglioni di professione, come se non si conoscesse la sua storia, tra l’altro. Ma quel giorno si sentiva magnanimo, o forse al contrario particolarmente malevolo: perché era sicuro che avrebbe dovuto far riscrivere il pezzo, che non sarebbe dunque mai uscito con il nome di quell’insulso figlio di papà.

Era sabato sera; in composizione e in redazione regnava la consueta frenesia che accompagna le operazioni per l’impaginazione definitiva del quotidiano da mandare in tiratura.  Duilio Varalli stava rileggendo per la terza volta il pezzo del Cremaschi, il quale si agitava senza darlo troppo a vedere sulla sedia dall’altra parte della scrivania, scompigliato dalla medesima sensazione di esaltazione e di sfida, appena incrinata da un’ombra di colpevole disagio, di quando da ragazzino copiava il compito in classe di matematica dal vicino di banco.

Un taglio originale, un linguaggio asciutto ed esplicito nel quale si inseriva come un occhiello malinconicamente compassionevole il ritratto della vittima. Assomigliava più a un macabro racconto che a un articolo di cronaca nera, un po’ lungo ma non vi era nulla che si potesse tagliare né riassumere. Chi l’avrebbe mai detto che questo possedesse un simile talento nello scrivere.

“Cremaschi, come hai fatto a reperire così velocemente tante informazioni sulla ragazza?”

“Gliel’ho detto, ho un’amica alla Questura di via Primaticcio, poi ho fatto un po’ di domande in giro”,

rispose il giovane con l’aria di chi la sa lunga, e certo non poteva aggiungere che aveva conosciuto Nina Ottolini giusto poche ore prima che qualcuno la massacrasse, constatazione per la quale aveva rischiato un malore quando in redazione si procurarono una sua immagine da viva da inserire in testa all’articolo, poiché fino a quel momento aveva visto solo un corpo già racchiuso nel sacco nero. Il pezzo uscì nella prima pagina della cronaca milanese dell’edizione domenicale, su cinque colonne, firmato Attilio Cremaschi.

E adesso? A parte la spaventosa coincidenza di avere conosciuto la ragazza la sera prima, a parte il mistero sull’identità dell’autore di quel resoconto (più ci pensava e più si convinceva che solo l’assassino potesse essere così preciso prima che il delitto venisse scoperto), perché aveva voluto informarlo? E di che utilità gli poteva mai essere? Lo avevano trasferito alla nera e a Milano le notizie non mancavano di certo ma c’era tutto un pesante lavoro da fare, dal costruire relazioni con rappresentanti delle forze di polizia allo scarpinare per periferie e commissariati, senza contare il fatto che lui non era capace di scrivere con tanta maestria.

Si arrabattò per una settimana, tampinò un paio di Questori amici di suo padre, scrisse un paio di articoli scadenti: d’altronde non si verificarono crimini cruenti. Fino alla notte del venerdì successivo.

Era stata un’altra serata frustrante,  Attilio se ne era tornato a casa con le pive nel sacco e troppo gin in corpo. Aveva subito guardato la casella della posta, come tutte le sere, e aveva visto la busta bianca sporgere dalla fessura.

Milano, sabato 26 maggio 1979. Crescenzago, via Adriano, la vecchia via per Sesto. Dai ballatoi delle case di ringhiera si scorge il Ponte sulla Martesana e si annusa l’odore vagamente marcescente dell’acqua scura. Da queste parti la popolazione è piuttosto anziana e un po’ più in là ci sono ancora degli orti, oltre a delle magnifiche ville per lo più disabitate e a molte vecchie trattorie. Nel primo pomeriggio di sabato finché non arriva il gran caldo molti vecchi, curvi sulla terra scura con una zappetta in mano, ripetono gesti di cent’anni fa. Non sanno fare altro e non hanno altro da fare.

 Nel primo pomeriggio di sabato Attilio Cremaschi passeggiava nei dintorni del ponte in via Adriano. Quando udì l’ululato delle sirene giungere da via Padova schizzò verso la cabina telefonica.

La vittima era Gigi Guenzi, un ventisettenne grande come un armadio a doppia anta; anche questo tagliuzzato con paziente crudeltà. Quando il Cremaschi vide la sua foto da vivo e lo riconobbe (il bifolco che mi ha soffiato la biondina), dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Comunque, l’articolo era superbo.

Gli omicidi si susseguirono con sconcertante regolarità per i due mesi successivi. Gli inquirenti ritenevano che si trattasse del medesimo assassino: uguale l’arma del delitto, presumibilmente un bisturi,  identica la metodica ferocia. Gli omicidi avvenivano sempre nella notte tra venerdì e sabato e le vittime, uomini e donne, avevano ventisette anni e storie assai simili. Condizioni economiche precarie, piccoli precedenti penali, un passato di errori e abbandoni e un presente di solitudine: degli innocui perdenti affetti dallo scusabile vizio di concedersi qualche ora di evasione raccontando a evanescenti compagni di una notte una storia differente. Frequentavano locali milanesi come l’Old Fashion, il Blu Notte o il Parco delle Rose, sale da ballo di estrazione popolare;  secondo i testimoni alcuni di loro si erano incontrati in quei luoghi ma le indagini non approdavano a un movente comune né per la verità a moventi singoli, pur tenendo conto di certe frequentazioni passate o recenti non del tutto raccomandabili.

Anche la strada di Attilio Cremaschi in qualche modo si era incrociata con quella di tutte quante le vittime, seppure solo per una sera e per poche ore. A mano a mano che la sua posizione di cronista di nera acquisiva concretezza, egli diventava paranoico. Trascorse intere serate e nottate acquattato davanti al portone di casa per individuare il latore delle misteriose missive senza alcun successo. Sospettò di tutti gli abitanti del condominio, prese a guardarsi ossessivamente alle spalle ogni volta che usciva di casa. Eppure seguitò a ricopiare puntualmente i racconti di quei crimini efferati, provando una spudorata soddisfazione nel leggere la sua firma sotto quelle colonne, sulla prima pagina delle cronache milanesi.

Finché un venerdì notte, o per la precisione un sabato mattina, nella solita busta bianca trovò uno scritto tanto breve quanto enigmatico:

Milano, sabato 10 agosto 1979. Benvenuto nel Club 27. Addio, Caronte.

Che diavolo voleva dire? Si accasciò sulla poltrona in soggiorno; come al solito il suo tasso alcolemico era piuttosto elevato e sulla città che si andava svuotando per  via dell’imminente ferragosto, con la maggior parte delle grandi fabbriche che avevano chiuso i battenti, gravava una calura incattivita che non mollava nemmeno a quell’ora sospesa tra la notte e la mattina. Poggiò la nuca alla spalliera e chiuse gli occhi ma dovette riaprirli precipitosamente per l’ondata di nausea che lo colse e stette per un poco a cercar di fermare la stanza e la mobilia, oscillanti come se ci fosse il terremoto.

Prese a pensare a tutte quelle persone uccise; aveva appreso più cose sul loro conto leggendo quell’arcano carteggio che dalle poche parole distratte che aveva avuto occasione di scambiare avvicinandole. Parevano sventurati tapini che il fato aveva relegato in una vita meschina senza lasciare loro via di scampo e probabilmente avevano fatto del loro meglio con quello che avevano. Lui, invece, a un certo punto si era trovato a un bivio e aveva scelto la strada sbagliata.

Dalla finestra aperta alle sue spalle spirava un infernale alito caldo che gli appiccicava la camicia alla pelle sudata, mentre i pensieri ormai fuori controllo seguivano traiettorie che gli stavano sfuggendo. Gli balenò il sospetto di essere lui stesso l’assassino, ricordando certe fantasie notturne, ma benché fosse stato alticcio ricordava i movimenti di quelle nottate ed era certo di non avere ammazzato nessuno, senza contare che non sarebbe mai stato capace di descrivere le sue gesta con una scrittura così elegantemente cruda. Continuava a sfuggirgli il motivo di quella corrispondenza dalla quale aveva tratto indubbi vantaggi; gli venne il sospetto che prima o poi vi sarebbe stato un prezzo da pagare. Poi ragionò che avrebbe potuto fare qualcosa per salvare ognuno di quei disgraziati, avrebbe almeno potuto provarci ma non lo aveva fatto e questo lo rendeva di fatto colpevole. Non riuscì a respingere questa implacabile consapevolezza e fu allora che ebbe l’impressione di percepire una specie di scalpiccio lieve sul pianerottolo.

Fissò l’uscio in fondo al breve corridoio, proprio di fronte alla poltrona. Cadendo dalla serratura le chiavi produssero un tintinnio stupidamente allegro, vide la maniglia abbassarsi, lentamente ma inesorabilmente. I pensieri si sparpagliarono disordinatamente nella mente sconvolta e il vano oscuro della finestra spalancata gli apparve come l’unica via di fuga.

L’aria era così calda, anche mentre precipitava velocemente dal quinto piano.

Che poteva saperne lui del Club 27, di tutti quegli artisti suicidi a ventisette anni e consacrati all’eternità nel fulgore del loro talento, senza essere costretti ad assistere al proprio decadimento. Non poteva conoscere il significato di un’espressione che sarebbe stata inventata da certa stampa solo nel 1994, dopo la scomparsa di Kurt Cobain.

Forse faceva troppo caldo anche per uccidere, sta di fatto che gli omicidi cessarono. Di Attilio Cremaschi e dei suoi sensazionali pezzi di cronaca nera Milano si scordò presto, così come dimenticò le vittime di quella serie di omicidi, che rimasero irrisolti, e le loro povere esistenze.

* “I wear the black for the poor and the beaten down, Livin’ in the hopeless, hungry side of town, I wear it for the prisoner who has long paid for his crime, But is there because he’s a victim of the times”. (Johnny Cash, The man in black)

https://youtu.be/VScSEXRwUqQ

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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