Gli USA e l’ascesa asiatica

Tra le due sponde del Pacifico – soprattutto quelle settentrionali – sono in discussione gli assetti geo-strategici. Si stanno cioè modificando i cardini della Pax Americana, scaturita da un epocale conflitto e da un dopoguerra che sembrava interminabile. Dai nostri libri di scuola si impara che la seconda Guerra Mondiale è iniziata il 1^ settembre del 1939, quando Danzica è caduta per mano nazista. In Asia pochi credono a questa semplificazione, anche perché il clangore delle armi era lì iniziato prima, con il bombardamento giapponese di Shanghai nel 1931 o l’invasione della Manciuria – cioè del nord-est cinese – nel 1937. Le differenze con l’Europa continuano con la fine del conflitto (tre mesi dopo la caduta di Berlino, le bombe atomiche sul Giappone) e soprattutto si cristallizzano in posizioni antagoniste, intrise di rancori per il passato e di sospetti per il futuro. Questa situazione ha il marchio degli Stati Uniti e la cornice della Guerra Fredda. Per più di 60 anni Washington ha tratto vantaggio dalla sua vittoria. È stata costretta a ridurre il dominio politico, ma ha continuato in quello militare e soprattutto economico. Anche i sanguinosi conflitti che l’hanno vista protagonista – la carneficina della Corea e la sciagura del Vietnam- ne hanno solo parzialmente intaccato il controllo dei mari e hanno contribuito dunque a mantenere la visione planetaria. Fino agli anni ’70 la fotografia politica era sostanzialmente nitida. Anche in Asia Orientale il mondo era diviso in 2 blocchi ideologici, le cui ambizioni di conversione della metà ostile non erano dissimulate. A questa rigidità si devono le singole tensioni, dalla guerriglia comunista nel sud-est asiatico alla guerra in Indocina, dalla divisione della Corea alla brutale repressione indonesiana nell’ “anno vissuto pericolosamente”. Con incalcolabili morti e sofferenze si era dipinto un quadro chiaro. Da una parte gli Stati Uniti non esitavano a sostenere regimi amici per contenere l’espansione dei paesi comunisti, dall’altra questi ultimi ricorrevano alle scelte militari e mantenevano un rigido controllo interno. La prima striscia di alleanze comprendeva gli Usa, il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, le Filippine, la Malaysia con Singapore e l’Indonesia del dopo Sukarno. Erano ovviamente comprese tra gli stati amici le ex colonie britanniche dell’Australia e della Nuova Zelanda. La trasformazione democratica e pacifista del Giappone – imposta dall’occupazione – è stato il più prezioso asset per gli Stati Uniti. L’ex nemico, convertito per esigenze politiche a partner controllato, è stato la testa di ponte per reperire fondi, tecnologia, talenti da distribuire in Asia e ingraziarsela, facendole dimenticare l’aggressione che proprio dal Sol Levante era iniziata soltanto pochi anni prima. L’immagine speculare e contrapposta è quella del blocco socialista: Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord e, dagli anni ’70, i tre stati indocinesi di Vietnam, Laos e Cambogia.

È proprio da allora che inizia una revisione della politica statunitense. Preoccupata dall’espansione sino-sovietica e dalla vittoria vietnamita, la Casa Bianca rispose con una spettacolare apertura alla Cina che mise fine a tensioni militari sempre più pericolose. Come spesso succede, fu un Presidente conservatore a condurre un’operazione progressista. Intervistato sull’apertura alla Cina – dopo essere stato eletto su una piattaforma fortemente anti sovietica e anti-cinese – il presidente Nixon rispose in una famosa intervista: “le mie credenziali anti-comuniste erano così forti e radicate, che solo io potevo guidare la fiducia verso un paese comunista”. Da allora la “diplomazia del ping pong” ha generato lo storico incontro a Shanghai con Mao Ze Dong e il rapporto pragmatico, conflittuale e lungimirante che dura ancora oggi tra i 2 paesi. In realtà Nixon e Kissinger, prendendo atto delle loro sconfitte tattiche, volevano conseguire una vittoria strategica: isolare Pechino da Mosca, proprio nel momento di massima espansione dell’Unione Sovietica. In meno di 20 anni, l’aspirazione giungeva a compimento. Con l’ ’89 sembrava al termine l’antagonismo, addirittura finiva la storia con il trionfo del liberismo. La Cina, con il nuovo corso di Deng Xiao Ping, voleva omologarsi alle ragioni dello sviluppo, relegando ai ricordi l’utopia dell’egualitarismo. Il suo inserimento nella globalizzazione è stato travolgente, contemporaneamente causa ed effetto di cambiamenti straordinari. La formula pechinese del “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” appariva un’incomprensibile acrobazia teorica. È stata invece un magnete imbattibile per le multinazionali. Gli Stati Uniti – insieme all’Europa e al Giappone – hanno favorito lo spostamento di tradizionali attività produttive dentro la Grande Muraglia. Ne hanno beneficiato le multinazionali e la Cina, orami avviata alla sconfitta definitiva del sottosviluppo. Oggi la General Motors produce più automobili in Cina che a Detroit. Sembrava una classica win-win situation, un esito felice della trattativa, come se la globalizzazione fosse un nobile strumento di pace. Le frontiere erano più porose, i visti disponibili, gli scambi vantaggiosi per tutti. Persino le dittature più indifendibili – quelle di Marcos nelle Filippine e di Suharto in Indonesia – hanno lasciato il campo a regimi più presentabili e progressivamente più democratici. I generali sono rientrati nelle caserme perché non c’era più bisogno di loro. Ha prevalso la necessità di competenze nelle scrivanie del governo. I paesi agognavano allo sviluppo, non alle tensioni. Anche due baluardi filo-americani come la Corea del Sud e Taiwan hanno cambiato registro. Il dispotismo militare è stato sostituito da regimi ormai aperti, con una forte e irrinunciabile dialettica parlamentare. Mancava all’appello verso la democrazia soltanto la Cina popolare (con le bizzarrie del vicino nord-coreano). Si immaginava che fosse soltanto una questione di tempo. Si auspicava che l’emersione di una classe imprenditoriale, il consolidamento di un ceto medio avrebbero condotto all’esigenza di un multipartitismo. L’accesso a diverse fonti di informazioni poteva neutralizzare la censura, l’istruzione lasciava presagire benessere e libertà. L’Estremo Oriente sembrava dunque avviato verso una prosperità diffusa, controllata e crescente; l’Oceano Pacifico poteva diventare un immenso lago dove l’ascesa economica finalmente avveniva insieme al riscatto sociale e non penalizzando i diritti umani. Il Washington consensus forniva le risorse finanziarie, mentre i risparmi dei contadini cinesi finanziavano i consumi della middle class americana.

Con la crisi, la realtà ha dimostrato di essere più brutale dei sogni; le frizioni sono più frequenti degli ideali. Le cronache dal Pacifico hanno vanificato le speranze. Pullulano di rivendicazioni territoriali, movimenti di truppe, costruzioni di piattaforme, aumento delle spese militari. Stanno riemergendo contraddizioni mai sopite. In realtà la fine del dopoguerra non c’è mai stata. Se prima la resa dei conti – se non altro storica e morale – era stata congelata dalla Guerra Fredda, poi è stata sacrificata alle esigenze dell’economia. Le responsabilità dei conflitti sono state rimosse, un velo di oblio ha invano tentato di cancellare le sofferenze. Non c’è stata alcuna integrazione come in Europa, nessun clamoroso atto riparatore, nessun leader si è inginocchiato come Willi Brandt a Varsavia e a Gerusalemme.  La politica ha delegato all’economia il compito silenzioso ed efficace di creare ricchezza. L’arretratezza rimaneva nemica dell’istruzione, della collaborazione, degli scambi, probabilmente della democrazia. Solo con l’apertura si potevano sconfiggere i retaggi del passato, solo con l’iniezione di tecnologie le sofferenze della popolazione si potevano lenire. Gli Stati Uniti, non potendo impedire questa ambizione al riscatto, hanno cercato di governarla. Cedendo spesso agli interessi dei grandi gruppi hanno abbassato le barriere di salvaguardia, soprattutto nei confronti della Cina. Il suo ingresso nel Wto nel 2001 è stato indiscutibilmente un avvenimento chiave di questo secolo. Dopo una lunga anticamera la Cina entrava a far parte di un mondo di uguali, dove, senza preclusioni, poteva far valere la sua forza politica, le sue dimensioni, la sua titanica macchina produttiva. Si trattava della perla più grande di una collana di successi asiatici. La ricostruzione aveva condotto il Giappone ai vertici dell’economia mondiale, le quattro tigri asiatiche (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore) avevano dimostrato vigore e controllo, i casi pur contraddittori dell’Asean lasciavano immaginare una zona di libero scambio e di prosperità. I numeri sono pronti a certificare questa rinascita. L’Asia del Pacifico continua a crescere e traina la ripresa economica. Dal 1970 i flussi commerciali del Pacific Rim hanno appaiato quelli dell’Atlantico per poi superarlo nel 1984. Secondo il Fondo Monetario Internazionale nel 2015 ben 15,5 milioni di container solcheranno l’Oceano pieni di merci dalle coste asiatiche a quelle americane, mentre 8,5 milioni prenderanno la strada inversa. Complessivamente, segnalano un valore quasi doppio rispetto all’Atlantico. Recano benessere, reddito, occupazione. La classe media asiatica è la più grande al mondo, le riserve della Cina e dei paesi vicini sono le più cospicue, sempre di più l’analfabetismo, le malattie endemiche, la malnutrizione sono ricordi del passato.

Queste affermazioni hanno creato nuove situazioni che gli Stati Uniti devono fronteggiare. Se l’obiettivo dei governi era rafforzarsi attraverso la forza economica, il successo ha arriso a tutti i partecipanti. Nazioni più forti si permettono ora di rivendicare crediti politici, trascurati per anni ma mai inesigibili. Antiche ferite riemergono, perché non ancora cicatrizzate. Il nazionalismo è la base teorica, per nulla nuova, che da forza ai contrasti. Soprattutto le 3 potenze industriali del nord – Cina, Giappone, Corea del Sud – sono invischiate in polemiche che appaiono pretestuose e troppo vecchie per essere credibili. Celano malamente antiche inimicizie. In realtà una pace vera non è stata mai raggiunta. I ricordi sono ancora freschi, a malapena mascherati dall’integrazione economica. La forma che assumono i contrasti è diversa e relativamente secondaria: dalle rivendicazioni di isolotti alle confort women coreane durante l’occupazione giapponese; dai boicottaggi delle Toyota in Cina alle visite ai templi shintoisti in Giappone. Non esistono integrazioni politiche, tanto meno militari; solo interessi economici. Anche il versante meridionale dell’Asia è testimone di spettacolari torsioni politiche. Il Vietnam dimentica il conflitto e si schiera nell’alveo statunitense perché la pressione cinese è troppo potente da sopportare senza aiuti; le Filippine riaprono le basi militari, concedendole di nuovo alla flotta statunitense. L’intero Asean (il blocco sud-orientale con 10 paesi e 600 milioni di persone) tende a rinnovare l’amicizia con Washington senza smettere di dialogare con Pechino. La prima capitale le garantisce la sicurezza, la seconda l’ossigeno economico. Per tutti i paesi asiatici – compresa la lontana Australia – la Cina è il primo partner commerciale. Inoltre, il Presidente Xi Jin Ping ha inanellato una serie di prestigiosi successi diplomatici. Ha firmato una storica intesa per la protezione ambientale con gli Stati Uniti, siglato accordi di libero scambio con Australia e Corea del Sud, raccolto adesioni per la nuova Banca delle Infrastrutture Asiatiche, avviato la formazione di una FTACC, Free Trade Area of Asia-Pacific (firmato a Novembre dai 21 paesi dell’Apec, compresi dunque Usa e Giappone).

Gli Stati Uniti si trovano dunque a fronteggiare un inedito, doppio scenario strategico: la crescita asiatica e l’attivismo cinese. Hanno ben compreso il valore dell’Asia negli assetti globali, un ruolo più complesso e pericoloso dell’Europa e dell’America Latina, tra le sponde dell’altro Oceano. L’Oriente è vitale ma è meno malleabile, perché più forte, del passato. La Cina è coniugata con le sue multinazionali, anche se in un matrimonio di puro interesse. Il Giappone è un alleato fedele, ma non riesce a emergere da stagnazione, invecchiamento, debito pubblico. L’Asean è politicamente ancora debole, disomogeneo, fragile e innervato da una forte diaspora cinese. Non sono bastati agli Stati Uniti i tentativi di Hillary Clinton del pivot to East Asia, il fulcro di un nuovo equilibrio nello scacchiere. Anche le trattative del TPP- Trans Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio promosso da Washington – saranno limitate perché non  includono Cina e Russia, contro le quali oggettivamente si dirigono. La situazione è dunque più complessa: non può essere risolta con lo spostamento di portaerei o la reiterazione delle vecchie alleanze. Il versante più insidioso è quello con la Cina, mentre tutti gli altri attori sono pedine di un gioco più articolato. Seppure importanti, i singoli stati concorrono tutti – con la forza e l’autonomia di attori non protagonisti – a definire alleanze e vantaggi. Washington non ha risolto la contraddizione di considerare la Cina un competitive or  strategic partner.  Le varie amministrazioni si sono dibattute tra i due estremi, senza riuscire a contenere l’avanzata della potenza asiatica. Obama sembra aver ben compreso la sterilità di posizioni radicali, sia arrendevoli che antagoniste. Non gli rimane che la strada dei negoziati, usando blandizie e minacce, muscoli e accordi, dimostrazione di armi e uso della diplomazia. Alla fine del suo mandato ha compreso che può gestire al meglio un declino inevitabile. Più di altri ha interpretato con sapienza the Asian rise, un’ascesa ormai inarrestabile. Verso la fine del suo mandato dovrà convincere i suoi cittadini che se è stata concessa eccessiva libertà d’azione al mondo del business, è comunque impossibile ritornare a posizione di chiusura. Nello Studio Ovale avrà un compito ingrato: trovare vantaggi dialogando con paesi lontani e forse ostili. Nella globalizzazione ormai imperante dovrà gestire il loro successo anziché quello del proprio paese, un esercizio al quale gli Stati Uniti da decenni non sono più abituati.

Pubblicato originalmente sulla rivista ItalianiEuropei, num. 1-2015
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Pubblicato da Romeo Orlandi

Presidente del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia. Professore di Economia della Cina e dell'Asia. Esperto di globalizzazione. Autore, editorialista, relatore a convegni.

2 Risposte a “Gli USA e l’ascesa asiatica”

  1. (Obama)Alla fine del suo mandato ha compreso che può gestire al meglio un declino inevitabile.

    L’avrà compreso per l’Estremo Oriente, ma non pare proprio che lo stia accettando in Europa dove un fuocherello che poteva essere facilmente spento viene invece sempre più alimentato con nuova benzina.

    Sempre che sia reale il desiderio dell’Obama di gestire al meglio il declino del suo paese e non magari solo la debacle morale ed economica della sua amministrazione visto che gli investimenti in armamenti non sono affatto declinanti.

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