Parla con me

“Nomen, omen”. Ma il nome è davvero un presagio? Se così fosse, nel suo caso il destino doveva essere in vena di scherzare, quando aveva fatto in modo che le venisse affibbiato quel nome.

Rossella, perché alla nonna era piaciuto tanto “Via col vento”, ed essendo la mamma morta di parto, ma in verità di colpevole incuria del suo stato e della sua persona, ed essendosi il padre prontamente dileguato, era toccato poi ai nonni materni decidere il nome della bimba affidata dal Tribunale dei minori, e il nonno non aveva nemmeno provato ad interferire.

Via col vento, certo: quello che le scompigliava i lunghi capelli del colore della paglia che spuntavano svolazzanti dal casco di uno sgargiante fucsia, quando pedalava per le vie di Milano come se avesse il diavolo alle calcagna per consegnare a domicilio pizze, sushi o invitanti terrine dal misterioso contenuto.

“Ma quindi adesso fai anche la fattorina?”,

“Ma no, nonna. Faccio la rider per una startup – intendo dire, un’azienda innovativa – che preleva piatti pronti da vari ristoranti convenzionati e li consegna a domicilio attraverso i riders, cioè i cavalieri, ma di biciclette, perché si usano quelle. E io  non ce l’ho, la bici, ma se tu mi prestassi i soldi per comprarla potrei fare questo lavoro per arrotondare, perché sai bene che con quel che guadagno con il part time al call center non ce la faccio, nemmeno con il vostro aiuto…”

“…ma te la regalo la bici, gioia mia, e comprala bella e robusta: così potrai fare la fattorina a pedali. Certo che se venissi a stare qui con noi…”

La nonna aveva evitato di esprimere le sue considerazioni su un’innovazione nella quale faticava a trovare qualcosa di veramente nuovo, perché aveva quasi ottant’anni e nonostante il carattere battagliero la vecchiezza le aveva insegnato che qualche volta si può anche tacere. Dal canto suo Rossella aveva troncato il discorso con un abbraccio, e il giorno dopo terminato il turno al call center era corsa a comprare la bicicletta: era un modello dalla struttura leggera sul quale aveva fatto montare un cambio Shimano dotato di un numero persino eccessivo di rapporti, manco dovesse percorrere i passi dolomitici e non le strade milanesi che sono intricate, lunghe, strette, larghe, corte, trafficate, ma non ci sono tutte queste salite, se si escludono i cavalcavia.

Alcune settimane più tardi, terminato un breve tirocinio nel quale era stata affiancata da un rider esperto,  alle 19,30 iniziava il suo primo turno in solitaria da uno dei tre punti dedicati, quello di Corso Sempione: il più comodo per lei che stava a Quarto Oggiaro ma parcheggiava la bici nella cantina dei nonni, che abitavano sul vicino viale Monteceneri.

Dopo una breve attesa era arrivato sul cellulare il primo ordine, e via di corsa al ristorante in via Cenisio, sistemazione dei cibi nel contenitore termico montato sulla parte posteriore della bici e consegna al cliente in via Paolo Sarpi. Facile e veloce, sorriso smagliante e

”Buona cena, signore”,

e l‘anziano avvocato aveva ricambiato volentieri il sorriso, perché appariva tanto giovane e bella questa ragazza bionda vestita di nero e fucsia, e lui aveva solo potuto contemplare con discrezione gli occhi chiari, l’ovale luminoso e la figura vigorosa e scattante, invidiando e rimpiangendo tutta quella presuntuosa e fugace vitalità.

Rossella aveva  pedalato per Milano durante tutta l’estate, mediamente sei giorni su sette e sempre nel turno serale perché la mattina lavorava al call center. Non guadagnava grosse cifre ed era faticoso, ma a ventidue anni e con un fisico sano e robusto come il suo si poteva fare, ed infine tanti o pochi che fossero quei soldi che riusciva a mettersi in tasca le facevano comodo. C’era però dell’altro: le cinque ore della mattina, trascorse a far tutt’uno con una scomoda seggiolina e con le cuffie sulle orecchie, erano talmente noiose e frustranti che quelle pedalate serali svolgevano egregiamente la funzione di valvola di sfogo fisico e mentale.

Sfrecciava veloce e spericolata nel traffico ingegnandosi nella ricerca di tutte le possibili scorciatoie in modo da velocizzare le consegne, e dato che l’algoritmo che analizzava le prestazioni dei riders se ne era accorto, nel giro di poco tempo gli ordini che le venivano inoltrati avevano preso ad aumentare.

Le capitava talvolta di fantasticare sulle vite che intravvedeva appena dall’uscio delle case dei clienti ai quali consegnava i cibi: anziani signori che vivevano soli in tinelli tristi, un poco bui e odorosi di chiuso, con un televisore sempre acceso ad un volume troppo alto; giovani coppie con bimbi vocianti e sgattaiolanti, che speravano di riprendere il controllo delle loro vite nel giro di qualche anno; donne sole alle cui spalle si intuivano dimore linde e profumate di cera per i pavimenti, i volti ingrigiti dalla delusione per una vita che non aveva mantenuto le promesse della gioventù; trentenni in carriera che cenavano soli il mercoledì sera e trentenni sfigati che consumavano una pizza alle dieci del sabato sera senza nemmeno apparecchiare la tavola. O forse lei, Rossella, era davvero andata via col vento e si immaginava cose ben lontane dalla realtà, come le diceva spesso Marco, il collega simpatico e carino che ogni tanto incrociava, e che chissà se si sarebbe deciso ad invitarla a bere una cosa prima che fossero entrambi troppo vecchi per farlo.[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

L’estate aveva lasciato il posto ad un riluttante autunno caldo ed asciutto; le giornate si erano inesorabilmente accorciate e con il buio Rossella cercava di essere un poco più prudente nel muoversi per le vie di Milano. Poi era arrivata la pioggia, un’acquetta fine e tiepida che lasciava sull’asfalto una bava luccicante e scivolosa.

Quel lunedì sera, quando alle nove e mezza era arrivato il messaggio per una consegna in via Trilussa – a due passi da casa sua, dato che abitava in Via Simoni – era stata tentata di far finta di non vederlo: era una pedalata di mezz’ora buona anche tagliando per via Espinasse, poi avrebbe comunque dovuto tornare in Viale Monteceneri per lasciare la bicicletta dai nonni perché il suo monolocale era privo di cantina, al sesto piano e con l’ascensore guasto, e continuava a cadere quell’umidità insidiosa: ma era stata una serata talmente fiacca che finì per confermare, inforcò la bici e partì. Strada facendo, telefonò ai nonni per avvisarli che si sarebbe fermata a dormire da loro, perché alle 22,30 finiva il turno, era stanca e non aveva nessuna voglia di salire sul bus 57 per raggiungere casa.

Avvicinandosi a Quarto Oggiaro il traffico andava via via scemando, ed impiegò venticinque minuti netti per raggiungere il casamento tinteggiato di chiaro al civico n. 18 di via Trilussa. Bloccò la bici alla recinzione metallica del cortile con la catena chiusa da un grosso lucchetto che portava sempre con sé, pur considerando che un robusto tronchesino sarebbe stato sufficiente per liberare il suo prezioso mezzo di trasporto. Individuò la scala, salì su di un ascensore piccolo che puzzava di fumo e di sudore e giunse al sesto ed ultimo piano, dove suonò il campanello a lato della porta con la targhetta “Recalcati Federico”.

L’uomo che le aprì l’uscio con stupefacente velocità doveva essere sulla cinquantina, un tipo scialbo con un gilet troppo largo indossato sopra una camicia a quadri e pantaloni di velluto a coste, pochi capelli biondicci pettinati all’indietro, un viso smunto e scialbo dal naso lungo e dalle labbra sottili, e piccoli occhi scuri dall’espressione vacua, che si dilatarono per lo stupore quando si trovò davanti la bella ragazza alta e bionda dal casco fucsia rilucente di pioggia.

Il Vice Commissario Alberto Patané era rientrato nell’appartamento in Viale Monteceneri e lo aveva trovato ordinato e silenzioso: sua moglie era a Firenze per un corso organizzato da un noto marchio di prodotti per parrucchieri e sarebbe tornata soltanto l’indomani sera.

Erano sposati da  poco tempo e capitava talvolta che girassero per casa con la prudente circospezione di chi non è ancora del tutto avvezzo alla presenza dell’altro, così si era preparato a quella breve separazione pregustando l’intimo godimento di un momentaneo ritorno alle vecchie abitudini. Il divano si era infine arreso ed era divenuto accondiscendente, cedendo alla sagoma del suo corpo del quale aveva imparato a conservare l’impronta con una sorta di affettuoso riguardo. La musica era quella giusta, un blues catarroso intriso di malinconico cinismo, ed anche la serata era perfetta con quella pioviggine quietamente scoraggiante, il sottofondo climatico ideale per una serata indolente come un tempo di sospensione un po’ troppo lungo. Briciole di pizza sul pavimento davanti al divano che dopo avere fatto da tavolo da pranzo si sarebbe prestato a fare anche da solitaria alcova, e come una volta dormire vestito con una vecchia coperta addosso e l’orologio al polso.

Era ormai la una passata e le auto che percorrevano il Ponte Della Ghisolfa – poche, per la verità, ché il lunedì sera i milanesi se ne stanno a casa – frusciavano frettolose sull’asfalto bagnato, mentre dall’appartamento degli anziani vicini di casa provenivano insoliti rumori: un parlottio sommesso, il clic degli interruttori della luce, una sedia spostata. Si era rigirato ancora per un po’ sul divano, cercando di farsi portar via dalla fonda voce raschiante che cantava di fantasmi ubriachi e di belle ragazze senza speranza, ed infine si era rassegnato: si era alzato, aveva piegato la coperta, scopato le briciole da terra, buttato nell’apposito bidoncino sul balcone la bottiglia della birra, ed infine si era spogliato ed infilato nel letto allungando le gambe dalla parte di Mariateresa. Era stato tentato di telefonarle e di dirle

“…per favore, parla con me”,

unicamente per avere una conferma della sua intangibile presenza, ma era troppo tardi, lo squillo del telefono l’avrebbe certamente allarmata.

L’uomo sempre agitato da qualche vento interiore, l’uomo che mal sopportava le certezze degli altri e che per principio dubitava di tutto aveva infine mollato il vecchio bluesman, il quale era rimasto da solo a rovesciare il suo triste risentimento sull’ennesimo amore finito male. Il Vice Commissario era scivolato dolcemente nel sonno ed il suo ultimo, sorridente pensiero era stato per la moglie, o meglio per la constatazione indiscutibile (quasi una certezza) di quanto lei gli mancasse.

Il campanello prende a suonare insieme alla sveglia alle sette precise della mattina ed il Vice Commissario balza dal letto raggiungendo la porta senza nemmeno avere la consapevolezza dei suoi movimenti. Guardando dallo spioncino vede i vicini di casa, che abitano nell’appartamento accanto al suo da quando la Professoressa Stucchi lo aveva venduto ed era andata a stare con il nipote, dopo l’assassinio della giovane badante

(…che continuo ad essere convinto che abbia ucciso lei, ma i colleghi titolari del caso non ritennero di approfondire le indagini in quella direzione),

ma sta già divagando,  e allora si passa le mani nella confusione mattutina dei capelli ricci ed apre l’uscio.

Mentre prepara il caffè per tutti, ascolta il racconto concitato dei due, anche se in realtà è lei che ha il mandato a parlare, il coniuge si limita ad annuire di tanto in tanto senza mutare l’espressione di ansioso smarrimento. Si tratta della nipote, che la sera consegna cibi pronti a domicilio con la bicicletta che le hanno regalato e che lascia in cantina da loro perché lei abita a Quarto Oggiaro e non ha la cantina, e poi sarebbe troppo lontana dal punto di partenza di Piazza Firenze, e la sera prima aveva telefonato alle nove e mezza dicendo che avrebbe dormito da loro, cosa che ogni tanto usa fare, ma non si era vista,

“…lo sappiamo che dovremmo rivolgerci al Commissariato di Viale Certosa ma in fondo lei è Commissario a Quarto Oggiaro e Rossella abita là…”

“…Vice Commissario, signora, ed è proprio come dice lei: adesso potete fare la segnalazione di scomparsa anche chiamando il 112 o il 113, le informazioni verranno inserite in un’apposita banca dati e se entro settantadue ore la ragazza non avrà dato notizie dovrete sporgere denuncia”.

“…se Rossella ha chiamato ieri sera dicendo che sarebbe venuta qui a dormire e non si è vista, non c’è nemmeno la bicicletta e il cellulare è spento, è perché le è successo qualcosa, e non qualcosa di bello”.

Il Vice Commissario guarda i due anziani coniugi e si raffigura la giovane nipote, che gli è capitato qualche volta di incrociare, ed ha pena della loro preoccupazione.

“…facciamo così: voi fate la segnalazione telefonica, io intanto mi muovo subito in via informale…”.

La donna lo ringrazia e sembra crollare, cedendo alla commozione, e il marito le si fa subito vicino, premuroso e solidale,

“Grazie, grazie, Commissario…”.

Vice Commissario, ma non importa.

L’uomo si era allontanato un momento mormorando qualcosa a proposito del gas acceso e quando era tornato e si era avvicinato per ritirare i contenitori che Rossella reggeva tra le mani l’aveva afferrata all’improvviso premendole qualcosa sul naso e sulla bocca. Un odore dolciastro, poi più nulla. Quando aveva ripreso i sensi, si era ritrovata seduta su di una sedia, le mani ed i piedi legati da una spessa corda, nella penombra di una piccola cucina. Per non lasciarsi ottenebrare dal panico, si era concentrata sui particolari ed aveva notato gli antiquati pensili in formica verdolina, il tavolo rettangolare coperto da una cerata bianca stampata a ciliegie di un rosso ormai sbiadito, il lampadario a cappello con l’unica grossa lampada tonda color bianco latte. L’uomo sedeva dall’altra parte del tavolo e la osservava con una certa apprensione, torcendosi le lunghe mani pallide.

“…perdonami, ma se ti avessi invitata ad entrare non avresti capito, avresti pensato chissà cosa, bambina mia. Io invece vorrei solo spiegarti come sono andate le cose, poi giudicherai tu”.

E l’uomo aveva preso a raccontare la storia di un matrimonio infelice, di una ragazza attraente ed ambiziosa che lo aveva sposato solo perché era rimasta incinta ed era nata una bimba bellissima come la madre, la quale non era mai contenta, ché non avrebbe mai voluto sposare un operaio per fare quella vita miserabile in una periferia malata e puzzolente, e allora lui per avere più soldi e illudendosi che così l’avrebbe fatta felice si era lasciato convincere ad entrare in un brutto giro. Ma era un brav’uomo e nemmeno tanto furbo, così lo avevano beccato subito e si era fatto qualche annetto a San Vittore, e lei, la moglie amatissima, era andata a trovarlo una sola volta per fargli firmare le carte del divorzio e per dirgli che avrebbe detto alla bimba che suo padre era morto, e non avrebbe mai più rivisto nessuna delle due, e così era stato. Uscito di galera, aveva saputo che lei si era risposata e si era trasferita all’estero, e poi ecco che questa sera aprendo la porta si era trovato davanti lei e l’aveva immediatamente riconosciuta: sua figlia.

“E adesso che sai che non sono morto, e che se ho sbagliato è stato in fondo per amore, perché ero uno sciocco ragazzo innamorato, ti slegherò e sarai libera di andartene. Ma prima, ti prego, parla un po’ con me”.

Rossella lo ascoltava, guardava il suo viso smunto e sofferente, ed ecco che la paura lasciava il posto alla compassione. Pensava a suo padre che invece se ne era andato davvero, e non aveva nemmeno voluto vederla prima di scomparire per sempre.

Allora lo aveva assecondato, e non era unicamente per prudenza: gli aveva parlato della sua vita, della fatica di arrivare alla fine del mese e di quel ragazzo che le piaceva. Quando quella lunga notte surreale nella quale la realtà si era armoniosamente fusa con la finzione aveva lasciato il posto ad un nuovo mattino, un uomo ed una ragazza che avrebbero potuto essere padre e figlia prendevano il caffè con i biscotti, parlando sommessi per non rompere un effimero incanto. Il gracidio del campanello che suonava aveva fatto sobbalzare l’uomo, che le aveva rivolto uno sguardo avvilito ed aveva mormorato

“…so benissimo che non sei mia figlia, ma ti ringrazio per aver parlato con me. Scusa”.

Il Vice Commissario Alberto Patané dopo un paio di telefonate dal Commissariato di via Satta si reca all’indirizzo che risulta come ultima ed unica consegna effettuata la sera prima da Rossella. Nota immediatamente la bicicletta incatenata alla recinzione del numero 18 di via Trilussa e sale fino all’ultimo piano, dove suona alla porta con la targhetta “Recalcati Federico”.

Viene lui ad aprirgli, e quando il Vice Commissario si qualifica, Rossella appare alle sue spalle. Conferma la sua identità, cercando di comunicargli altro con una curiosa quanto incomprensibile mimica facciale, poi prende tra le sue le mani di quell’uomo dalla schiena ingobbita e dallo sguardo sconfitto e gli dice:

“…io vado, ma tornerò a trovarti, te lo prometto”,

ed il viso emaciato e grigio dell’uomo si illumina per un istante: di riconoscenza, forse persino di speranza.

Una volta usciti Rossella riferisce l’accaduto precisando che non ha nessuna intenzione di sporgere denuncia, e mentre la accompagna al lavoro

“no, scherza? Non posso stare a casa, con l’aria che tira là dentro…”

il Vice Commissario le promette che porterà la bici che ha caricato nel bagagliaio dai nonni, e pensa ai vinti ed ai perdenti cantati da De André ed ai fiori che nascono dal letame.

Il Vice Commissario stasera ha tirato un poco in lungo apposta, non vuole rincasare prima di Mariateresa, e quando si richiude l’uscio alle spalle è accolto da un meraviglioso, avvolgente profumo di sugo al pomodoro. Si abbracciano senza dire una parola, come se fossero stati separati a lungo, come se volessero rinnovare la promessa che sarà per sempre.

“Siediti un attimo, Mariateresa: ho da raccontarti una storia strana e triste, ma a suo modo molto bella”.

https://youtu.be/JFEftsKAUvY

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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