La patrimoniale sugli immobili pubblici

Ogni tanto il dibattito ripropone la necessità di chiarire se l’eventuale vendita di asset e partecipazioni da parte dello Stato a Cassa DD.PP. sia ininfluente ai fini dell’eventuale abbattimento del debito pubblico, dal momento che la Cassa è sostanzialmente di proprietà pubblica (per una quota di circa l’80%) e quindi alla diminuzione di passività dello Stato corrisponderebbe unicamente l’aumento di passività di una controllata.

Occorre subito evidenziare che, in realtà, a seguito della trasformazione della Cassa in società per azioni e tenuto conto delle previsioni statutarie e della modalità di trasformazione, Cassa DD.PP è da tempo fuori dal perimetro delle amministrazioni pubbliche e le sue passività non sono più da considerarsi debito pubblico, come formalmente riconosciuto da Eurostat in considerazione del fatto che la garanzia dello Stato sulla raccolta postale è da intendersi di ultimissima istanza e quindi ben difficilmente necessaria.

Il debito verso la clientela, quindi, costituito dalla raccolta postale e bancaria, ammontante a circa 252 miliardi di euro, è formalmente un debito di una privata società e non è in alcun modo compreso nel debito pubblico, a meno che tali somme non vengano utilizzate per offrire credito agli enti locali o all’amministrazione dello Stato.

Tale possibilità è in realtà una costante, sia per funzione naturale (Cassa DD.PP. ha sempre avuto il compito di offrire agli enti locali mutui per investimenti a tassi più bassi del mercato) sia per strutturali esigenze di cassa dello Stato, il quale, come è già stato evidenziato in altro precedente contributo, soffre di un consistente e strutturale deficit di cassa, determinato dalla circostanza che una consistente quota di spese trova copertura in entrate apparentemente “accertate” ma che poi non forniscono cassa, facendo dubitare della loro reale riscuotibilità.

Ecco, allora, che Cassa DD.PP. tiene in un conto corrente separato presso la Tesoreria centrale dello Stato una somma oscillante tra i 130 e i 150 miliardi di euro in modo che l’amministrazione dello Stato possa far fronte ai pagamenti senza emettere ulteriori titoli di debito e senza che la stessa sia costretta ad eliminare i residui attivi (i crediti) insussistenti, altrimenti rendendo palese l’insostenibilità dell’attuale livello di spesa pubblica, la quale dovrebbe essere ridotta tenendo conto dell’effettiva riscuotibilità delle entrate.

Tale somma costituisce, dunque, debito pubblico e sulla stessa il Ministero dell’economia corrisponde a Cassa DD.PP. una remunerazione semestrale variabile pari alla media aritmetica semplice tra il rendimento lordo dei BOT a sei mesi e l’andamento dell’indice mensile Rendistato, per un ammontare annuo oscillante tra i 2 e i 3 miliardi di euro.

Nel computo del debito pubblico finiscono, ovviamente, anche i mutui concessi agli enti locali (circa 93 miliardi di euro), dal momento che sono debiti contratti da enti compresi nel settore pubblico allargato.

Di fatto, Cassa DD.PP. è (anche) un’istituzione creditizia (oltre che assicurativa), inclusa nell’elenco delle istituzioni finanziarie monetarie (MFI ID IT07602) soggette all’obbligo di riserva e che possono rifinanziarsi presso la BCE, come la Cassa non ha mancato di fare anche per fare carry trade (attivando il LTRO per 23 miliardi di euro) ed acquistare titoli del debito pubblico italiano.

Qualora, pertanto, le somme ricavate dalla vendita di asset e partecipazioni venissero impiegate per ridurre il debito pubblico, lo stesso dovrebbe intendersi effettivamente ridotto, così consentendo anche di mantenere il controllo delle aziende vendute, come peraltro già avvenuto in occasione della vendita a Cassa DD.PP. delle partecipazioni dello Stato in Fintecna, Simest e Sace.

In altri contributi (qui e qui) ho però già espresso l’opinione che sarebbe ben più urgente adottare riforme strutturali idonee ad eliminare le cause che hanno e stanno determinando il debito pubblico e che impediscono al paese di crescere.

Senza tali riforme, ogni riduzione del debito (per via ordinaria o straordinaria, attraverso patrimoniali o ristrutturazioni) sarebbe irrilevante o folle (nel caso di provvedimenti straordinari), dal momento che i vantaggi determinati da una minore spesa per interessi sarebbero modesti (nell’ordine di 40 milioni di euro per ogni miliardo di riduzione del debito) e solo transitori, visto che le inefficienze, non risolte, continuerebbero ad originare deficit in misura ben superiore al risparmio.

Nell’ipotesi in cui, per esempio, si pervenisse alla ristrutturazione del debito con una riduzione (mediante ristrutturazione o patrimoniale) del 20%, per un ammontare quindi di circa 433 miliardi (importo neppure lontanamente raggiungibile mediante vendita di asset o partecipazioni), il risparmio di spesa sarebbe solo di circa 17 miliardi di euro all’anno (assumendo un costo medio del debito pari al 4% come nel 2013, 5,3% rispetto al PIL).

Ovviamente, l’abbattimento di 433 miliardi di debito non potrebbe essere considerato un vero e proprio “risparmio” per come viene comunemente inteso, se non nei limiti di cui sopra e in quelli di immagine/fiducia nei mercati, dal momento che lo Stato annualmente non mette a bilancio e paga alcuna somma a titolo di rimborso quota capitale ma provvede al pagamento a scadenza dell’intera parte capitale in un’unica soluzione, pagamento a cui provvede mediante emissione di nuovi titoli di pari importo.

Rimarrebbe, dunque, unicamente il risparmio di spesa determinato dai minori interessi da corrispondere. Tenendo conto che, però, i residenti detengono gran parte del debito pubblico (il 65% nel caso dei titoli del debito pubblico), lo Stato, inteso come comunità, avrebbe di fatto un risparmio ancor minore rispetto a quello sopra indicato, visto che le cedole, gli interessi, pagate dallo Stato ai residenti da un lato sono un costo ma dall’altro costituiscono reddito per i percettori.

Per l’economia italiana nel suo complesso, quindi, il “risparmio” consisterebbe unicamente negli interessi non corrispondi ai non residenti (6/7 miliardi di euro, nell’ipotedi abbattimento del debito del 20%). Per contro, però, il paese avrebbe un rilevantissimo impoverimento patrimoniale, dell’ordine di circa 300 miliardi, che certo avrebbe un forte impatto negativo su consumi ed investimenti.

Anche tralasciando la valutazione dell’impatto sul sistema paese e considerando, quindi, solo l’impatto sul bilancio dello Stato ed assumendo il risparmio nella sua interezza, 433 miliardi nel conto patrimoniale e 17 miliardi in quello economico, viene agevole dire che senza, si ripete, riforme strutturali – anche dell’ordinamento economico-finanziario dell’amministrazione statale – tale risparmio sarebbe velocemente annullato dai deficit annuali e senza che tali deficit possano produrre significativi effetti sulla crescita.

Infatti, le amministrazioni pubbliche nonostante abbiano un bilancio consolidato sempre al limite di deficit del 3%, che corrisponde a circa 50 miliardi, sono riuscite ad accumulare 100 miliardi di euro di debiti – supplementari – verso i fornitori, e lo Stato è del tutto passivo rispetto alla dinamica indebitatoria di enti locali e loro partecipate. Basterebbero pochi anni, quindi, per tornare alla situazione debitoria precedente con l’unica conseguenza di aver distrutto la fiducia dei creditori, con un accesso al mercato del credito molto più oneroso (nel caso della ristrutturazione), e di aver impoverito, per lo più, i cittadini italiani (sia nel caso della ristrutturazione sia in quello della patrimoniale).

Né, peraltro, può dirsi che tale continuo ricorso all’indebitamento e all’aumento della spesa pubblica abbiano mai (se no non occasionalmente) prodotto una crescita del PIL superiore al costo dell’indebitamento utilizzato per finanziare la spesa.

Come si vede dalla seguente tabella, contenuta nel rapporto “Dinamica, struttura e governo della spesa pubblica” redatta dal gruppo di lavoro coordinato da Piero Giarda, nei precedenti sessant’anni la velocità di crescita della spesa pubblica in termini reali, al netto degli interessi, è sempre stata (ad eccezione del decennio 1991/2010) superiore a quella del PIL reale.

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Un’ulteriore tabella, contenuta nello stesso rapporto, mostra graficamente che le aspettative di crescita strutturale e reale del PIL per effetto dell’aumento della spesa pubblica hanno sempre avuto breve respiro:

crescitaPIL

Invero, che la spesa pubblica (per come è strutturata in Italia) abbia quasi sempre avuto un costo superiore al suo rendimento (in termini di crescita del PIL) si ricava agevolmente dal costante aumento – tranne in rare eccezioni – del rapporto debito pubblico/PIL.

E’ noto che se il rapporto deficit/debito è superiore al tasso di crescita del PIL, il debito non può che aumentare e con esso il rapporto debito/PIL.

Da quanto sopra si ricava che l’attuale struttura della spesa pubblica italiana non è idonea a determinare una crescita strutturale del paese. Né il paese è più in grado, anche per effetto di una pressione fiscale ormai asfissiante, di compensare le inefficienze accumulate dall’amministrazione pubblica.

Appare pertanto inutile e velleitario che possa pensarsi di risolvere il problema del debito e della crescita partendo dal fondo, mediante l’ulteriore incremento della spesa pubblica e del debito, sostenendo che sia necessario per adottare le riforme, e non partendo dal principio, adottando prima vere riforme strutturali (del mercato del lavoro, del sistema scolastico/universitario, del welfare, del sistema sanitario e previdenziale), che riducano anche significativamente il peso dello Stato e la pressione fiscale, e costruendo un’architettura istituzionale che riproduca, sotto il profilo economico-finanziario, quel federalismo che tanto si invoca in sede europea, arrivando così a legare il potere, decentrato, di entrata, di indebitamento e di spesa alla relativa responsabilità, che dovrebbe anche ricomprendere la possibilità di fallire, disincentivando così l’azzardo morale conseguente alla certezza che prima o poi qualcun altro pagherà i debiti contratti anche immotivatamente.

Di tale riforme, però, non vi è alcuna concreta traccia (se non qualche abbozzo, assolutamente non idoneo) né vi è la possibilità che i trattati, firmati pochissimi anni fa, possano essere rivisti per consentire all’Italia significativi margini di flessibilità, che sarebbero totalmente sprecati in assenza dei presupposti di cui si è detto.

E’ significativo, al riguardo, che Mario Draghi, in un recente discorso tenuto in ricordo di Padoa Schioppa, abbia prospettato l’ipotesi che alcune riforme strutturali vengano adottate direttamente dalle istituzioni europee, realizzando una sorta di commissariamento politico-amministrativo degli Stati che hanno difficoltà o non riescano a realizzarle.

Quanto sopra perché, nell’attuale fase, non essendo stata ancora realizzata l’unione bancaria, non vi è ancora la possibilità che gli Stati europei possano fallire (dal momento che il fallimento di uno travolgerebbe il sistema finanziario nel suo complesso, visto il legame perverso banche/debiti sovrani), e non è affatto chiaro se e come verrà completata l’integrazione europea con una unione di tipo fiscale e federale.

Gli Stati, quindi, si trovano in una sorta di comunione economica passiva per effetto della quale le inefficienze di alcuni si riverberano anche sugli altri e la banca centrale è costretta ad adottare per un periodo troppo lungo politiche monetarie espansive, non convenzionali e al limite del mandato, con il rischio che le stesse possano minare la stabilità finanziaria attraverso la creazione di bolle nel valore degli asset.

E’ in questo contesto, di vincolo esterno alla spesa pubblica e all’indebitamento, che si sta cercando di attribuire alla Cassa DD.PP. quelle funzioni di “banca di sistema”, tradizionalmente assegnate dalla politica ad alcune banche commerciali, le quali, invece di preoccuparsi unicamente di creare valore per gli azionisti, operavano anche come divisioni finanziarie del governo, dei partiti e dei cd. “salotti buoni”, con pessimi risultati sia per le banche interessate sia per la competitività del paese.

E’ chiaro che ora, per effetto dell’unione bancaria e di Basilea III, tali funzioni non possono più essere svolte dalle banche commerciali con la medesima disinvoltura.

Non stupisce, quindi, il moltiplicarsi dei dossier via via proposti o assegnati alla Cassa, nella speranza che possa diventare strumento per una rinnovata politica industriale statale, invocata, ingenuamente, da molti come soluzione per il declino del manifatturiero italiano.

Basti dire che nel bilancio 2005, l’attivo patrimoniale della Cassa DD.PP. era di 150 miliardi, in quello 2006 di 181 miliardi, e nel bilancio chiuso nel 2013, di 314 miliardi (340 nella versione consolidata estesa), con un raddoppio delle attività in solo otto esercizi.

Inoltre, mentre nel 2006 Cassa DD.PP. aveva 10 partecipazioni, nel 2013 le partecipazioni in imprese controllate o “sottoposte ad influenza notevole” (direttamente e indirettamente) sono divenute almeno 75 (alcune partecipazioni, acquisite alla fine del 2013, non erano state ancora consolidate).

Non altrettanto, però, si può dire dell’utile di esercizio. Nel 2006, con 181 miliardi di attivo, l’utile netto era di 2,053 miliardi, nel 2013, con 314 miliardi di attivo, l’utile si è fermato a 2,5 miliardi. Così anche il rapporto utile di esercizio/patrimonio netto, che nel 2006 era il 19,39% nel 2013 si è ridotto al 14%.

Per ora, alcuni dossier sono stati respinti (anche se poi in Alitalia è comunque intervenuta Poste Italiane), ma il velleitarismo politico, accompagnato dall’interessata spinta del capitalismo relazionale, produrrà nuove e più decise spinte ad utilizzare, per le più varie necessità, la liquidità della raccolta postale, riproducendo, in qualche modo, l’infelice modello IRI che con tanta fatica era stato smantellato.

Rimane, però, un ultimo ostacolo a tali ambizioni: le perdite che potrebbero derivare dall’ulteriore ampliamento del perimetro di intervento della Cassa. Un po’ per problemi statutari e di norme europee, un po’ perché comunque gran parte della liquidità deve essere messa a disposizione dello Stato, un po’ perché comunque un maggiore ricorso all’indebitamento sarebbe comunque legato al rating dello Stato, gli attuali vertici della Cassa DD.PP. sono restii ad assumersi il maggior rischio di credito e di impresa conseguente a tale ampliamento. Maggior rischio che dapprima potrebbe sostanziarsi in minori utili e (e minori dividendi allo Stato) e maggiori costi per i correntisti e successivamente in perdite di esercizio da ripianare.

Da qui le continue invocazioni, rilanciate periodicamente attraverso i media, alla necessità di modellare la Cassa secondo lo schema della banca tedesca Kfw (la quale, asseritamene, non avrebbe le stesse limitazioni destinate alla banca italiana) introducendo però una qualche forma di garanzia statale di prima istanza, sempre che possa essere surrettiziamente inserita sfuggendo ai vincoli europei.

Niente può essere escluso: che vengano resi più malleabili i vertici, soprattutto l’amministratore delegato; che venga modificato il funzionamento della Cassa, con o senza garanzia statale; entrambe le ipotesi. Quello che è sicuro è che il rischio e l’onere per le rinnovate ambizioni di politica industriale non potrà che essere a carico del contribuente, minuscolo azionista di minoranza di una società a responsabilità illimitata e con un oggetto sociale sconfinato.

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Pubblicato da roundmidnight

Occupa da anni, in modo semiserio, un posto in un consiglio di amministrazione all'interno di un "gruppo" internazionale.

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