Petroguai

Siamo abituati a pensare alle oscillazioni del prezzo del petrolio come ad una variabile che si riflette sulla nostra bolletta e soprattutto sul costo di un pieno di benzina, ma quello che stiamo imparando in questi mesi di prezzi bassi e calanti dell’oro nero è che la macchia scura che si estende sul tavolo quando il prezzo del petrolio scende è più grande di quanto potessimo sospettare.

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La produzione petrolifera iraniana è circa la metà di quella che era negli anni ‘70 e questo lascia presumere che ora che è caduto l’embargo verso il grande paese mediorientale le disponibilità globali supereranno per lungo tempo la domanda di energia, specie in un clima di rallentamento economico generale, guidato dalla frenata della Cina. In passato il potere dell’Arabia Saudita di regolare i prezzi, aprendo e chiudendo all’occorrenza i rubinetti dei loro pozzi, aveva svolto una funzione essenziale, ma oggi questo potere risulta indebolito: l’Iran detiene l’11% delle risorse petrolifere mondiali e la sua capacità estrattiva non è pienamente utilizzata. Questo significa che se i Sauditi scegliessero di ridurre la produzione non farebbero salire i prezzi, ma lascerebbero di fatto maggior spazio sul mercato all’Iran che rappresenta, per giunta, un rivale politico nella infinita lotta fra sciiti e sunniti.

Se il prezzo del petrolio continuasse a scendere vedremmo ormai miseri benefici sul prezzo della benzina: ci sono i costi di raffinazione, di trasporto, di stoccaggio, e poi le imposte, le accise, il margine di intermediazione per il distributore… se il prezzo del petrolio fosse zero, la benzina costerebbe comunque più di 1,1€ al litro. Un petrolio ancora più basso di oggi, però, oltre a ridotti benefici porterebbe con sé ingenti problemi.
Ne sanno qualcosa dalle parti di Mosca, visto che due terzi del bilancio russo si finanziano sul commercio di petrolio e gas: il vice-premier russo, Dvorkovich, ha cercato venerdì scorso di diffondere ottimismo dichiarando che ritiene irrealistico che nel 2016 i prezzi del petrolio possano scendere ancora molto

“Il mercato si aggiusta e si regola autonomamente in base a fattori esterni e ai sistemi di tassazione. Questo meccanismo determinerà un rialzo dei prezzi. Nessuno può dire quando l’aumento avverrà, ma non dovremmo preoccuparci che i prezzi possano restare su livelli eccessivamente bassi durante l’anno”.

C’è da sperare che Dvorkovich abbia ragione, perché lo scenario prevedibile di un petrolio a prezzi troppo bassi comporta problemi economici importanti in Arabia Saudita, Oman e Bahrain, tutti paesi che già con questi prezzi stanno segnando forti deficit e che stanno consumando le riserve valutarie accumulate in anni di “vacche grasse”. L’Arabia Saudita, ad esempio, estrae petrolio al prezzo medio di 12,5$ al barile, con dei “picchi” nei pozzi più efficienti di 2$/barile, quindi al momento è ancora in attivo. Ma l’entità di questi attivi non copre le spese, l’economia saudita è un po’ particolare: una manciata di sceicchi possiede tutto (asset, redditi, ecc) il resto del paese è fortemente sussidiato (benzina, cibo, ecc) pochissimi lavorano, nessuno paga le tasse (quindi le entrate sono rappresentate solo dal commercio di petrolio). Le voci di spesa saudite sono sostanzialmente due: difesa e sussidi. al momento, coi prezzi attuali, il bilancio saudita è in deficit per 85 miliardi di $ all’anno, che al momento vengono coperti consumando le riserve, di questo passo in circa 20 mesi le riserve saranno azzerate e per far fronte alla spesa qualcosa dovranno fare. Si ipotizza una quotazione parziale di Aramco, la società di estrazione petrolifera, che sarebbe un po’ come se la Regina d’Inghilterra ipotecasse i gioielli della Corona, se scartiamo la divertente ipotesi di una patrimoniale sugli sceicchi l’altra possibilità è tagliare la spesa. Considerati i tempi e la posizione geopolitica dubito molto che verrebbe tagliata la spesa militare, quindi l’unico possibile taglio è quello dei sussidi (peraltro sta già parzialmente accadendo, con discrete ripercussioni sociali). Il rischio è quindi di ritrovarci una nuova “primavera araba” , questa volta non nella periferica Tunisia, ma nella cruciale Arabia Saudita.

Ma c’è dell’altro: negli USA si è rapidamente sviluppata nell’ultimo decennio l’industria dello shale oil che permette di trovare risorse dove prima non si immaginava di poterlo fare. E’ uno dei cardini dell’autonomia energetica annunciata dal presidente Obama, ma purtroppo il costo di estrazione con questa tecnologia è più alto di quello di un comune pozzo di petrolio e con i prezzi su questi livelli questa è un’attività in perdita. Come tutti i settori industriali a crescita molto rapida anche l’industria dello shale oil è stata finanziata a debito: senza un prezzo del petrolio che le riporti in attivo molte di queste società rischiano di fallire e non onorare i propri impegni.
Un problema, quindi, che si potrebbe riflettere anche sulle banche finanziatrici: lampante il caso di Citigroup dove i finanziamenti al settore energetico sfiorano il 10% dell’esposizione totale in attività di credito. Ricadute, insomma, che potrebbero mettere in ombra i “crediti deteriorati” delle più inguaiate banche italiane.

Proseguendo nella riflessione non possiamo dimenticare che una crisi di settore genererebbe una frattura all’interno degli USA: Texas, Wyoming, West Virginia, Oklahoma e North Dakota producono più di metà del fabbisogno energetico federale ed i loro bilanci nazionali sono fortemente dipendenti dal settore energetico. Un’ondata di fallimenti nelle imprese di settore metterebbe in forte difficoltà quegli Stati, con gravi impatti sulla disponibilità di posti di lavoro nel migliore dei casi, e -immaginando peggio- la possibilità di portare gli Stati Uniti in recessione in una fase in cui la Federal Reserve non ha ancora recuperato margini di manovra visto che finora ha saputo riportare i tassi ad un modesto 0,25% e quindi non ha molto da “tagliare” per aiutare l’economia.

Altre riflessioni sull’argomento le potete trovare su:
“Petrolio: le ricadute della caduta” su Pagina99
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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

3 Risposte a “Petroguai”

  1. Questo articolo fa rabbrividire da quanto sembra tutto estremamente logico e consequenziale rispetto agli eventi ipotizzati..

    1. Grazie Alessandro,
      l’obiettivo non è far rabbrividire, ma spiegare e far comprendere. Dalla pubblicazione dell’articolo abbiamo assistito a diverse giornate di borse molto negative, dominate dalle vendite e solo ora qualche giornale evidenzia come le esigenze dei fondi sovrani si traducono in continui ordini di vendita, pesando sui mercati.
      Il prezzo del petrolio resta un elemento cruciale per i destini prossimi dell’economia mondiale, non resta che monitorarlo con attenzione.

      1. Certamente, l’espressione “fa rabbrividire” non era una critica, anzi: c’è bisogno, credo, di un’informazione che spieghi le cose come stanno, non che le nasconda (o le camuffi) solo perché la realtà non piace.. In quanto PF leggo molti articoli e molte analisi, ma l’impressione è che ci sia troppa confusione!

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