Petrolio, Medio Oriente e politica estera

Quando la Cina affronta problemi strategici e complessi, emerge sempre la stessa dicotomia: è serio il problema, così come è serio il tentativo di risolverlo. La doppia analisi si applica alla protezione ambientale, alla qualità dello sviluppo, alla sufficienza energetica. Quest’ultima è uno dei nodi cruciali della Cina. Basarsi sulle proprie dotazioni è impossibile; è necessario dunque un impegno forte per le proprie necessità. All’energia, tra le altre cose, si legano due aspetti titanici: lo sviluppo economico e la politica estera. La Cina sembra aver privilegiato il primo rispetto alla seconda; o almeno essa è diventata strumento subordinato al fine primario della crescita del Pil. Esiste un momento tuttavia quando alcune scelte globali diventano cogenti e devono dominare le ragioni della crescita. È questo il caso dell’intervento cinese in Medio Oriente. Si registra infatti una differenza plateale tra la complessità della situazione e la relativa semplicità della posizione cinese. La prima rileva l’esplosività della regione, la seconda un intervento distaccato, il cui scopo principale è garantire i propri approvvigionamenti. La Cina ha comprato petrolio, ne ha difeso i flussi, si è impegnata in posizioni al limite della superficialità. Ufficialmente appoggia la causa palestinese, ma da alcuni anni ha stretto rapporti tecnologici e militari con Israele. Si tiene alla larga dai conflitti che infiammano la regione, perché non ha intenzione di invischiarsi in problematiche che non sa e non vuole affrontare. In sostanza lascia agli Stati Uniti il dirty job, purché questo non colpisca i suoi interessi.

 Ora questa situazione sta cambiando, probabilmente è giù mutata in senso radicale. Lo testimoniano i tremendi episodi di cronaca dell’area medio-orientale. All’altra estremità del continente, i bisogni della Cina non flettono. Secondo uno studio dell’International Energy Agency, il Dragone avrà bisogno di importare giornalmente più di 11 milioni di barili di petrolio nel 2030. È un valore immenso, che fa impallidire il record corrente di 8 milioni. La Cina continua a essere una potenza energivora e deve trovare la disponibilità relativa. Ridurre i consumi sembra impraticabile. La fabbrica del mondo ha bisogno di energia, così come la popolazione che ha abbandonato i frugali standard di vita precedenti. Anche la scoperta di nuovi giacimenti nel territorio sembra improbabile; in aggiunta è difficile immaginare un balzo in vanti tecnologico verso l’efficienza o la ricerca di soluzioni energetiche alternative.

Non rimane che il petrolio. Ma i legami stretti con l’Africa (principalmente Angola) e America Latina (Venezuela) sono insufficienti. Gli analisti confermano che i maggiori margini di crescita verranno dalle viscere irakene. Sfruttarle vuol però dire impegnarsi in un’area tempestosa. Non sarà un compito facile per Pechino, abituato da tempo a considerare le relazioni esterne in maniera residuale. Una potenza delle sue dimensioni deve far sentire il proprio peso, concorrere alla stabilità, addirittura affiancare gli Stati Uniti nelle operazioni di intelligence e sicurezza. Non è più sufficiente il vecchio mantra della “non interferenza negli affari interni di un paese”. La Cina, almeno nelle dichiarazioni, non invoca un secondo imperialismo dopo quello di Washington, ma è giusto tenga presente che defilarsi non basta più, non è lungimirante e soprattutto non conduce a risultati validi, neanche per la Cina.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

3 Risposte a “Petrolio, Medio Oriente e politica estera”

  1. e alla fine avremo due nuovi alleati usa-cina incredibile fino a qualche tempo fa
    complimenti come sempre per l’analisi

  2. Posso sbagliarmi, ma credo ci siano molti modi per fare i propri interessi in aree turbolente, nuove o già inseritavi, senza fare o subire pressioni mediatiche e conferenze stampa.
    Gioca a favore della Cina proprio l’atteggiamente minimalista da decenni mantenuto in certe aree di politica estera (isole Sengoku/Diakon a parte…) per cui pochissimi analisti e ancor meno giornalisti si attendono e pronosticano interventi à là USA dal paese del Dragone…e quindi senza pressioni mediatiche è più facile per loro non dover rispondere al mito americano (sbiadito) dello zio Tom che salva il mondo.
    No?

  3. Un appunto all’analisi: Non conosco bene la Cina ma conosco l’Africa perché ci vivo e i cinesi sono ovunque specie in Nigeria e Kenya più che Angola, per il petrolio e non solo.

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