L’oro nero perde carati

L’elasticità, non solo quella mentale, è la chiave attraverso cui analizzare gli attuali (e futuri spasmi) nel mercato del petrolio, con la mente sgombra da complotti oscuri.

In economia l’elasticità indica il rapporto tra variazioni percentuali. In particolare tra variazioni di prezzo e variazioni di quantità offerta o domandata di un certo bene. Ad esempio se il prezzo delle arance aumenta del 10% e i consumatori riducono la domanda del 20% si dice che l’elasticità è pari a 2 (cioè 0,2/0,1 = 2).

Il prezzo del petrolio è crollato per una serie di macrofattori, la produzione da fonti non convenzionali in Nord America, il ritorno della produzione libica, la domanda asfittica in China ed Europa e via elencando. Nessun grande vecchio, nessun Bilderberg, nessuna alleanza tra Obama ed i sauditi potrebbe influenzare a proprio piacimento forze talmente macroscopiche.

E’ in questo scenario che entra in gioco l’Opec, nata nel 1960 come cartello dei maggiori produttori. Oggi rappresenta una quota abbastanza modesta dell’offerta mondiale, ma mantiene un vantaggio cruciale: ne fanno parte i paesi produttori che godono dei costi di estrazione più bassi al mondo, in primo luogo l’Arabia Saudita.

Per capire cosa passi oggi nelle menti dei signori del petrolio di Riyad bisogna abbracciare un arco temporale molto ampio. Non è la prima volta che il prezzo del petrolio crolla. Successe in modo più drastico nel 1986, negli anni ’90 e poi dopo la bancarotta di Lehman. Nel 1986 l’Arabia Saudita nel futile tentativo di sostenere i prezzi ridusse la sua produzione da 10 milioni fino a 2 milioni. Invano. Il prezzo rimase depresso fino all’invasione del Kuwait perché sul mercato arrivarono i grandi quantitativi estratti negli USA e nel mare del Nord. Per di più l’Opec era (e rimane) una organizzazione ad altissimo tasso di litigiosità interna, altamente disfunzionale e pervasa da rancori atavici (in primis tra Arabia Saudita ed Iran). Pertanto gli sforamenti delle quote di produzione decise solennemente dai membri del cartello venivano dai medesimi ignorate ed aggirate il giorno dopo.

Quindi nel mercato petrolifero si produsse un paradosso: i produttori con i costi più bassi, quelli Opec, perdevano quote di mercato a vantaggio delle produzioni extra Opec, più costose. Ancora oggi in gran parte del Medio Oriente i costi di estrazione sono inferiori ai 10 dollari al barile, mentre in USA, Russia e altri posti vanno dai 40 ai 100 dollari. Wood Mackenzie, un’autorevole società di consulenza, specializzata nel settore energia, stima che la maggior parte della produzione da shale USA ha un punto di pareggio a 75 dollari al barile (In realtà questo punto di pareggio per il numero di dibattiti e controversie che genera evoca il più prosaico punto G femminile. Ma a mio avviso $75 dollari sembrerebbe un’indicazione ragionevole).

L’errore commesso dei sauditi riguardava proprio l’elasticità della domanda di petrolio: è assodato che tale elasticità nel breve periodo è bassa perché è impossibile sostituire istantaneamente gli impianti industriali, alterare le abitudini, cambiare le auto eccetera. Ma l’economia di mercato è un corpo in perennne mutamento e col tempo reagisce agli stimoli di prezzo: quindi l’eleasticità di lungo periodo è maggiore di uno. Tradotto in soldoni: quando il prezzo sale individui ed imprese presto o tardi consumeranno meno petrolio.

In sostanza l’Opec ed i sauditi (che ne sono i leader di fatto) hanno imparato la lezione del passato, rinunciando ad influenzare il mercato in modo rozzo e – forti del loro vantaggio competitivo sui costi – hanno giustamente calcolato che continuare a pompare a livelli correnti e vendere a prezzi più bassi avrebbe decurtato i loro ricavi totali meno della strategia alternativa con produzione più bassa e prezzi più alti.

Un conto della serva indica che il regno wahabita perderà tra i 10 ed i 15 milardi di dollari in proventi da esportazioni con il petrolio per ogni dieci dollari in meno nel prezzo del Brent nel corso di un anno. Ma avendo accumulato all’incirca 800 miliardi di dollari di riserve può permettersi di essere paziente.
Questi sono i motivi squisitamente economici che hanno fatto decidere all’Opec contro il taglio della produzione, il resto è flatus vocis, dalle analisi geopolitiche sversate sugli editoriali alle congiure da talk show.

Cosa succederà quindi? Sostanzialmente le previsioni devono tener conto di un elemento fondamentale: il costo marginale di estrazione per soddisfare i livelli di domanda (che tenderanno gradualmente verso i 100 milioni di barili al giorno dagli attuali 93) è maggiore di 50 dollari al barile, cioè il prezzo sotto cui è sceso il greggio. Gradualmente andranno in bancarotta i produttori da depositi non convenzionali negli USA (i quali hanno accumulato debiti che sfiorano i 200 miliardi di dollari) e verranno messi in standby i pozzi meno pregiati in Russia, Canada e altrove. Inoltre i mega progetti d svariati miliardi di dollari nelle profondita’ oceaniche o nell’Artico difficilmente vedranno la luce.

Quanto tempo durerà questo intermezzo? Dipende da diverse variabili che nessuno è in grado di quantificare con precisione. Ad esempio molti produttori americani si sono coperti dai rischi sul prezzo vendendo futures quando prima di giugno il mercato tirava. Quindi non sono ancora in debito di ossigeno. Poi dipende da quanto freddo sarà l’inverno, dalla ripresa in Cina e Giappone, dal divieto di esportazione dagli USA, dalla capacità dei frackers americani di comprimere i costi.

Ricomponendo i pezzi del mosaico, si può ipotizzare che, ceteris paribus, per soddisfare la domanda mondiale occorre sul mercato la produzione da quei giacimenti con un costo marginale intorno ad 80 dollari al barile. Quindi nel giro di sei mesi con l’offerta in affanno il trend invertira’ il segno, come è successo nel 2009, ma difficilmente il prezzo del barile rimbalzera’ stabilmente oltre la tripla cifra. Sempre che non intervenga qualche crisi o qualche guerra.

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Pubblicato da Fabio Scacciavillani

Capo economista di Oman Investment Fund. In passato: Dubai International Financial Center, FMI, BCE e Goldman Sachs

5 Risposte a “L’oro nero perde carati”

    1. A dire il vero non ero al corrente della saggezza pescarese sul petrolio. Ma credo che me ne faro’ una ragione.

  1. Senza le distorsioni del mercato generate dalle politiche monetarie post-2008 (che hanno favorito anche i suoi datori di lavoro) certamente il mercato del petrolio sarebbe stato decisamente più….normale…o più “mercato” perchè non ci sarebbe stato credito per progetti poco profittevoli (per esempio, le tar sands canadesi).

    Voglio credere ai sei mesi di orizzonte temporale ma, sinceramente, sono molto dubbioso circa la sostenibilità del sistema finanziario.
    La misallocation degli asset fatta dalla politica monetaria ha dato respiro a progetti industriali senza adeguati ritorni (o troppo in anticipo sui tempi).
    La domanda è: questi asset, come sono stati “riconfezionati” sui mercati finanziari? resisteranno ad un periodo prolungato di depressione dei prezzi del petrolio?

    Penso per esempio ai fondi pensionistici americani…

    Lo scenario peggiore potrebbe essere così disastroso da distruggere la domanda. E allora, altro che 6 mesi di prezzi bassi.

    Vedremo. Nel frattempo ho preparato il pop-corn e…sinceramente incrocio le dita perchè sono direttamente coinvolto nell’industria petrolifera…

    Rimane un fatto. Aver nascosto la polvere sotto il tappeto dopo il 2008 per salvare devil-istitution come il suo ex datore di lavoro GS, che, non ho paura a scriverlo, è una istituzione “psicopatica” e “deviante”, sta producendo così tante alterazioni che ha indotto gente “limpida” (sia detto con profondo sarcasmo) come Summers a teorizzare la BOLLA come costante del mercato.

    Vogliamo un mondo così? Eccolo.

    sinbad

  2. E’ chiaro che il QE ha provocato tutta una serie di distorsioni piu’ o meno macroscopiche di cui quella dello shale oil e’ solo un esempio.

    Con la normalizzazione della politica monetaria e del bilancio della Fed emergeranno in modo virulento e gli effetti dipenderanno dal grado di leverage nel settore finanziario.

    Per cui se le perdite non saranno assorbite dal capitale si innescherà un’altra reazione a catena stile Lehman.

    Non ho particolari motivi di simpatia verso GS, ma onestamente non mi sembra che il cuore del problema siano stati loro nel 2008. Bene o male GS prende rischi ma ha una cultura di risk management a cui altre istituzioni nemmeno si avvicinano. Ad aver beneficiato direttamente dei salvataggi sono state le grandi banche commerciali, Freddie, Fannie e AIG. Quelli erano bubboni molto piu’ purulenti.

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