Pian Piano: carne vera oltre il velo

Il grande rebus della nostra epoca è sicuramente la ricerca dell’autentico, il desiderio di toccare con mano qualcosa o qualcuno che ci parli al di là di secondi fini, al di là di un approccio calcolante e strumentale. Si può dire che nel nostro salottino cerchiamo proprio di scavalcare questo meccanismo, cerchiamo di mescolare gli ingredienti per lasciarvi nei timpani e fra le righe qualcosa di non mediato. Ecco svelato il significato del poeta che sempre chiude il nostro salotto. Cos’è la poesia se non una domanda autentica, uno stupore inatteso, una meraviglia sconveniente? Il lavoro artistico di Caetano Veloso, il suo vivere le agitate acque latinoamericane negli anni 70, opponendo l’arte alla violenza prevaricatrice dei militari, la splendida maturità prima e la ricca vecchiaia poi, raccontano un percorso di un uomo autentico. Le contraddizioni, gli slanci, il desiderio di rinnovamento, il vagare, andando inevitabilmente anche a sbattere, sono sforzi per catturare la poesia come elisir di autenticità. Allora è per me bellissimo come si mostra Veloso in questo recente video, con il corpo provato dagli anni, il volto segnato, la voce graffiata dal tempo. Averlo in salotto è pura meraviglia, il portoghese morbido, il sorriso suadente, la voce calda e parallelamente l’irrequietezza indomabile, la malinconia inevitabile. Ascoltiamolo dal suo ultimo disco, in cui ancora una volta si mette a nudo.

Le continue ricerche per declinare la bossanova secondo linguaggi contemporanei e attuali hanno portato Veloso ad incontrare Arto Lindsay. Ne sono nati due dischi in cui si interseca lo sperimentalismo newyorkese degli Ambitious Lovers con il calore della bossanova. Estrangeiro in particolare può essere il lavoro da assumere a simbolo di questa collaborazione artistica. Braquinha è uno dei gioielli che il nostro ospite ci suona nel salottino oggi. La dedico a chi viene a farmi compagnia abitualmente qui e a Maestra Orsa che insegna a raccontar storie…

https://www.youtube.com/watch?v=Q5L7kNfp44Y

Un alone di fascino circonda indubbiamente Caetano Veloso. Compare in pellicole cinematografiche, gira il pianeta sussurrando i suoi testi poetici su ritmi sincopati ed è evidentemente uno dei simboli di quella “globalizzazione” dei linguaggi artistici che pervade la nostra epoca. Lo possiamo considerare l’ambasciatore della moderna bossanova per la sua attitudine ad ibridare questo linguaggio sia con i colleghi Brasiliani, la sua amicizia e collaborazione con Gilberto Gil ha fatto storia, sia verso l’Occidente, dove molti musicisti hanno riconosciuto pubblicamente il loro debito verso Caetano. Dagli Stati Uniti all’Europa grande è il bisogno di sangue nuovo, visto che spesso pop e rock si mostrano solo come stanchi simulacri commerciali e creazioni retoriche non autentiche. Stadi stracolmi non fanno per forza eventi artistici e i vari Mick Jagger sembrano assurdi cartoni animati raggrinziti rispetto a questo splendido vecchio.
Veloso naviga coraggiosamente gli alti e bassi di una ricerca che non intende mediarsi in un prodotto, ma farsi anzitutto discorso artistico.
Ci fissa nel nostro salottino con occhi che interrogano, e sono quelli di un bambino. Forse proprio in questa freschezza, nell’irriducibile desiderio di mediare con le parole quello che inevitabilmente sfugge, Veloso si lascia amare e suscita così tanta passione in chi lo segue.

Non lascio le chiavi a nessun altro questa settimana. Caetano sta qui di fronte a me e alle amiche del salotto, un po’ pazze e un po’ aliene pure loro. Ci fissa e sorride silenzioso. Sia pur lui a regalarci qualche verso dolce e struggente al contempo.

Peter Gast

Sono un uomo comune
Uno qualsiasi
Confuso fra il dolore
E il piacere
Devo vivere e morire
Come un uomo comune
Ma il mio cuore di poeta
mi proietta in una tale solitudine
Che a volte assisto
A guerre e feste immense
E sono solo

Caetano Veloso

 

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Pubblicato da Mr Pian Piano

king for a day, fool for a lifetime

2 Risposte a “Pian Piano: carne vera oltre il velo”

  1. Ascolto le parole non dette da quest’uomo che ci guarda sorridente, nudo come solo un uomo sincero può essere.

    Viviamo un tempo in cui sembra che si sia perduto quel pudore che rendeva selettivi nel condividere i fatti propri, poiché tutto – gioie, dolori e soprattutto banalità quotidiane- viene riversato su vari social, e dunque sembra che prevalga l’esigenza di rivelarsi, di cercare il contatto con gli altri.

    Sembra: io ho piuttosto l’impressione che invece si assista ad un isolamento sempre più profondo di individui che si confezionano un ruolo “pubblico” nel quale finiscono intrappolati. Recitano una parte, si mostrano per ciò che vorrebbero essere o che non hanno il coraggio di essere – ma che in ogni caso non sono. C’è qualcosa di patologico in tutto ciò, ed è più diffuso di quanto si possa pensare.

    Essere veri è tutt’altro: è accettarsi per intero, cercare di migliorarsi dove si può e dove si vuole, non sentirsi in dovere di esternare sempre e comunque la propria opinione, porsi continuamente delle mete personali che sappiano adeguarsi alle diverse fasi della propria vita. Gli errori non sono sporcizia da nascondere sotto il tappeto né provocazioni di cui farsi vanto, ma esperienze da cui trarre insegnamento.

    Trovo che la differenza fondamentale tra un’icona del rock come Mick Jagger e artisti come David Bowie (non posso non tirarlo in ballo, abbiate pazienza) e Caetano Veloso sia che mentre il primo cerca di replicare se stesso, e vederlo ora che si atteggia come 30 anni fa mi suscita un certo imbarazzo, gli altri due negli anni sono cambiati anche artisticamente: si sono mossi, sono andati oltre, non sono gli stessi di 30 anni fa, né nel corpo (il che è brutalmente evidente) né nello spirito. E quindi narrano una storia vera, non mediata dall’esigenza di apparire diversi da quello che si è.

    Salotto riflessivo, oggi: perché mi gira così, perché mi trovo troppo spesso disarmata di fronte all’inutile insincerità della gente, al trasversalismo, alla scelta di non esporsi perché “non si sa mai”.
    Vi lascio dunque con Louis Aragon, e perdonatemi per la lungaggine, ma converrete con me che non si poteva tagliare:

    Nulla è precario come vivere
    Nulla è effimero come esistere
    È un po’ come lo squagliarsi della brina
    Come per il vento essere leggero
    Io arrivo dove sono straniero

    Un giorno tu passi la frontiera
    Ma da dove vieni, o dove vai dunque
    Domani che importa e che importa ieri
    Il cuore cambia con il cardo
    Tutto è senza rima né perdono

    Passa il dito sulla tua tempia
    Tocca l’infanzia dei tuoi occhi
    È meglio lasciare basse le lampade
    La notte ci piace assai più
    È il lungo giorno che diventa vecchio

    Gli alberi sono belli in autunno
    Ma il bambino che cosa è diventato
    Io mi riguardo e mi stupisco
    Di questo viaggiatore sconosciuto
    Del suo viso e dei suoi piedi nudi

    Poco a poco tu ti fai silenzio
    Ma non così in fretta tuttavia
    Per non sentire la tua dissonanza
    E per non sentire cadere sul te stesso
    di una volta il colpo del tempo

    È duro invecchiare al termine del conto
    La sabbia ci scappa tra le dita
    È come un’acqua fredda che sale
    È come una vergogna che cresce
    Una pelle che grida? Mi sbatti?

    È duro essere un uomo una cosa
    È duro rinunciare a tutto
    Le senti le metamorfosi
    Che accadono dentro di noi
    Come piegano lentamente le nostre ginocchia

    O mare amaro o mare profondo
    Qual è l’ora delle tue maree
    Quanti anni occorrono all’uomo
    quanti secondi per abiurare l’uomo
    perché perché queste sgomitate

    Nulla è precario come vivere
    Niente è effimero come essere
    È un po’ come lo squagliarsi della brina
    E per il vento esser leggero
    Giungo dove sono straniero.

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