Pictures of you (Le Canzoni Inclinate)

Pioviggina da questa mattina. Non è proprio pioggia, ma piuttosto una bruma  cocciuta e reca con sé un freddo fastidioso che penetra nelle ossa e nei pensieri.

È una di quelle giornate in cui verrebbe voglia di defilarsi e rimanere immobili, sperando di passare inosservati. Le rondini sono volate a sud già da qualche settimana ed è quello che sto per fare anch’io.

Non bisognerebbe conservare tante cose: carteggi, oggetti, minutaglie. Sono inerti testimoni di un passato che è, per l’appunto, trascorso.  Occorrerebbe essere capaci di buttare via, scartare, eliminare. Disfarsi di tutto ciò che è rotto o vetusto, la cui permanenza serve solo a palesarne l’intrinseca inutilità o, tutt’al più, a rammentarci come eravamo.

Invece ecco che per tutta la vita accumuliamo cose, nell’inconscio timore di scordare qualche momento che ci pare importante e probabilmente lo è, mentre accade. Dopo, sedimenta in qualche antro della mente ed è solamente uno dei tanti elementi che compongono l’esperienza, la storia di ognuno di noi.  Sarebbe forse più saggio affidarsi alla memoria e alla sua capacità di selezionare i ricordi, per esempio allontanando quelli sgradevoli o dolorosi, qualche volta addirittura rinnegandoli e lasciando sbiadire quelli meno significativi.

Comunque, è solo quando si decide di traslocare che si realizza appieno la compulsione insita nel proprio meticoloso accumulare.  Tra le reliquie dalle quali è più difficile separarsi vi sono senz’altro le fotografie: non tanto dei luoghi quanto delle persone poiché, per quanto salda possa essere la memoria, essa tende a conservare un quadro generale smarrendo via via i dettagli, o viceversa mantiene un particolare isolato dal necessario contesto.

Osservo un’istantanea e penso a quell’estate di tanti anni fa. Rivedo il tuo profilo perfetto contro il cielo blu, lo sguardo smarrito verso l’azzurro del mare appena increspato da piccole onde spumose. Alla felicità struggente di quell’istante, già minata dalla recondita consapevolezza della sua fugacità, si è sostituita l’inconsolabile certezza della tua assenza. So di essere stata felice, ma non so rievocare quella meravigliosa sensazione di appagante pienezza. Mi sono aggrappata all’effigie del tuo volto, cercando di custodirne ogni singola minuzia; ho fatto del mio animo un tempio isolato e silenzioso, impegnato a vegliare sul ricordo di un amore perduto.

I’ve been looking so long at these pictures of you
That I almost believe that they’re real
I’ve been living so long with my pictures of you
That I almost believe that the pictures
Are all I can feel

 Ho continuato ad alzarmi ogni giorno per uscire di casa e raggiungere l’ufficio, sono uscita la sera fiutando gli umori della notte e obbedendo all’impulso atavico di cercare la compagnia dei miei simili. Qualche volta mi è persino capitato di non rientrare da sola: immancabilmente mi sono risvegliata il mattino dopo oppressa da un colpevole senso di profanazione, con l’urgenza di rimanere sola, aprire quel cassetto, guardare e toccare le tue foto chiedendomi dove avessi sbagliato, quando è successo e perché.

L’aspetto di una casa che sta per essere abbandonata è indicibilmente triste: scatoloni accatastati per ogni dove, ripiani vuoti, mobili mezzo smontati, sulle pareti le impronte annerite dei quadri incorniciano un vuoto metafisico. Dai vetri delle finestre prive di tende entra una luce svogliata: sono appena le quattro del pomeriggio, ma il giorno ha già voglia di ritirarsi.

Osservo ancora per un poco il tuo volto offerto al sole e all’orizzonte, poi incomincio a tagliare la foto con una forbice: pezzettini minuscoli, possibilmente irriconoscibili.

Sarà l’ultima notte in questa vecchia casa scrupolosamente spogliata, l’ultima notte in questa città che devo salutare, prima di lasciarla forse per sempre.

Ho riposto i ritagli del tuo viso (della tua esistenza nella mia vita, in un certo senso) nella tasca del soprabito e prima di salire in auto percorro un tratto di strada costeggiando la Martesana. Quanto mi mancherà il suo fluire lento, i molteplici odori e colori di una Milano avulsa e distante dal resto della città. Lancio i coriandoli colorati nell’acqua, certa che il Naviglio comprenderà il valore simbolico del gesto che non è affatto uno sgarbo, ma una sorta di solenne rito funebre.

È domenica sera e le strade di Brera sono tranquille. Alla televisione si illustrano e commentano gli eventi sportivi della giornata, domani si riprende il lavoro e molta gente se ne sta tranquilla a casa propria.  Anche al Jamaica non vi è la ressa del venerdì o del sabato; dietro i vetri un poco appannati intuisco un’atmosfera raccolta, chiacchiere e fumo sospesi tra quelle mura che hanno ascoltato e forse assorbito le più dotte digressioni e le più strampalate fantasie. Ho voglia di immergermi per l’ultima volta in quel pigro tepore che mi è divenuto caro negli anni e sarà così che abbraccerò Milano prima di partire.

Sto per attraversare via Brera e ti vedo sopraggiungere alla mia sinistra, sul marciapiede opposto: percepisco la tua presenza con una sorta di sesto senso prima ancora che con lo sguardo.

Non ti ho mai più cercato e ho evitato a lungo luoghi e conoscenze comuni, ma mi sono sempre stupita di come ci si possa facilmente perdere di vista a Milano. Eppure qualcuno si era sentito in dovere di informarmi, benché non richiesto, del fatto che abitavi sempre al Gallaratese.

Cammini velocemente, probabilmente infreddolito nella leggera giacca di pelle scura, le mani sprofondate nelle tasche, lo sguardo basso. È la camminata dinoccolata che ho bene impressa nella mente, la figura prestante appena appesantita.

Rimango per qualche istante appoggiata al muro, i pensieri sfilacciati e ondivaghi e penso a quelle stupide farfalline, attratte dalla luce delle lampade al punto da bruciarsi: credo che un attimo prima di andare incontro alla morte siano stordite dalla medesima confusione che provo in questo momento.

Mi avvicino alla vetrina, ti scorgo appoggiato al bancone. Stai parlando con qualcuno offrendo il profilo alla mia vista: i capelli lunghi pettinati all’indietro a scoprire la bella fronte spaziosa, il naso dritto, i folti baffi chiari sulla bocca generosa, la mascella squadrata. Ripenso all’immagine di cui ho affidato i frammenti alla Martesana: sei tu, eppure non ti riconosco. Poi tutto mi appare chiaro e mi allontano, frastornata dalla disarmante ovvietà della mia illuminazione: non siamo più le stesse persone, né tu né io.

È ora di andare. Tutto ciò che possiedo si trova su un camion dei traslochi e mi raggiungerà tra un paio di giorni; un comodo volo mi condurrà invece verso la mia nuova vita in poche ore. Dal minuscolo finestrino osservo Milano allontanarsi, le case e le strade farsi sempre più piccole, mentre un raggio di sole si affaccia imperioso dalla leggera nuvolaglia.

Nella mente alleggerita dalla zavorra del rimpianto, l’immagine del tuo volto appare un poco sfuocata: so che presto non rammenterò più qualche dettaglio, ma è un dispiacere sopportabile, persino confortante.

Dimenticherò finalmente il tuo viso, l’odore della tua pelle e il suono della tua voce: non scorderò mai l’amore, e saprò riconoscerlo quando lo incontrerò  di nuovo.

There was nothing in the world
That I ever wanted more
Than to feel you deep in my heart
There was nothing in the world
That I ever wanted more
Than to never feel the breaking apart
All my pictures of you.

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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